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Gennaio/2007 - La 'nera' al microscopio
L'opinione dell'avv. Nino Marazzita
Cento anni fà delitto a Posillipo
di Nino Marazzita

Filippo Cifariello,
scultore di buona fama,
uccide la moglie
la canzonettista Maria
Brown, in una pensione
di Napoli. L’avvocato
Nino Marazzita analizza
i fatti che portarono
al delitto ripercorrendo
la storia del processo


All’alba del 10 agosto 1908 in una camera della pensione Mascotte, a Posillipo, lo scultore Filippo Cifariello uccide con cinque colpi di rivoltella la propria moglie Maria Brown. Il fatto desta vivissima impressione soprattutto per la fama di cui gode l’artista.
Ne segue un processo denso di colpi di scena: che mette a nudo la complessa personalità dell’imputato, il suo profondo tormento. Un processo il cui contenuto umano non può non turbare; che induce a meditare, a riflettere, a comprendere.
L’infanzia che il Cifariello visse fu piena di privazioni e di sofferenze e le sue conseguenze non lo abbandonarono mai. Particolarmente precoce fu lo sviluppo psichico di Filippo - così come accertato dalla perizia medico-legale allegata agli atti processuali - che sin dai primi anni di vita rivelò una fantasia spesso un po’ esaltata, una funzione ed una sentimentalità sessuale sproporzionata all’età, una grande predisposizione nell’arte di modellare le figure.
Nacque a Bari, ma ben presto il padre decise di trasferire a Napoli tutta la famiglia a causa di uno scandalo provocato da una fuga della cognata, ed è a Napoli che trascorre la sua prima giovinezza. Già a venti anni era molto conosciuto nell’ambiente artistico partenopeo dove si era imposto con la sua febbrile ed instancabile attività, con i suoi polemici attacchi ai colleghi meno benevoli nei giudizi sulla sua produzione artistica, col suo temperamento passionale ed esuberante.
Ma le sue mire andavano al di là dei confini della provincia e presto riuscì ad estendere la sua fama con una “Esposizione Cifariello” che organizzò in Roma e che mise in agitazione i circoli culturali della Capitale. Decise quindi di abbandonare definitivamente Napoli per Roma, presentandosi con lettera commendatizia al principe Odescalchi che, conoscendolo, cominciò ad apprezzarne il valore tanto da offrirgli ospitalità nel suo palazzo.
Dopo qualche mese lo scultore si iscrisse al “Circolo Artistico” dove non esitò a dichiarare apertamente guerra a coloro che contribuivano a mantenere posizioni retrograde e restie ad ogni costruttiva innovazione, propagandando le sue idee di avanguardia vibranti di entusiasmo giovanile; riuscì ad avere un così folto numero di ammiratori e sostenitori da costringere ben presto il presidente del Circolo a rassegnare le dimissioni. Ottenne insomma il successo e la notorietà in misura veramente notevole, e col successo e la notorietà venne pure una certa agiatezza che, se non gli offriva certo una sicurezza per il futuro, cominciava almeno a riscattarlo dalla miseria dell’infanzia.
E’ nel 1890 che conosce Maria Brown, una canzonettista meglio nota col nome di Bianche De Mercy, ed è da questo momento che inizia la fase più drammatica della sua vita che lo tormenterà fino allo spasimo e lo farà diventare omicida.
“La conobbi al Teatro del Varietà di Roma, vestiva di rosso con trine nere... ed era bellissima”, dirà egli stesso nell’interrogatorio durante il processo in Corte di Assise a Campobasso nel settembre 1908. “La invitai poi nel mio studio e mi apparve con un’aria così ingenua, una tale ansia di sapere ed un tale fascino d’ingegno che ne rimasi profondamente colpito. Anche la figura della madre, che l’accompagnava, una figura nobile e dignitosa, dall’aspetto venerando, contribuì a mostrami la fanciulla sotto altra luce che non quella dei lumi della ribalda. In seguito, frequentandola, mi accorsi che avava una passione naturale, istintiva, per l’arte. Le proposi di posare per una piccola statua. Ella accettò e cominciò a posare. Ma io non potevo ritrarla: ero turbato dal suo fascino, che agiva su di me prepotentemente. Dovetti abbandonare il lavoro: mi mancava la forza di proseguire. Le visite della signorina, che cominciava a venire sola allo studio, mi fecero abbandonare tutte le occupazioni. La signorina De Mercy veniva sempre nel mio studio e lo riempiva di fiori...”
Pallido, con voce spesso rotta dai singhiozzi, Cifariello continua a narrare come il suo amore aumentava sempre di più e come la De Mercy gli appariva sempre più ingenua e più diversa dalle altre canzonettiste. Egli passava ore intere, in ginocchio presso di lei, ma non poteva averla. Baci e carezze, ma non più di questo. Solo dopo un lungo assedio la bella disdegnosa si concesse e solo per una volta. Ma un brusco incidente troncò l’idillio appena nato. Per la sua serata d’onore il Cifariello pregò i suoi amici di gettarle dei fiori; la pioggia fu così abbondante ed insistente da suscitare le proteste della platea. La De Mercy sdegnata respinse le scuse di Cifariello con le parole “il ridicolo uccide” e non volle più saperne di lui. Pareva un’avventura effimera, ma un’inguaribile malia aveva intossicato il sangue dello scultore iniziando il dramma della sua vita.
Passarono due anni. Una sera la rivide con la madre. Indossava un’appariscente toilette di velluto e non aveva più quell’aria ingenua così seducente. Un amico, Quirino Ossani, ricondusse le due donne allo studio del Cifariello. Esse si congratularono dei clamorosi successi ottenuti nel frattempo dallo scultore nella sua arte. Ma Bianca rivelò la freddezza di Cifariello. “In verità - egli rispose - voi non sembrate troppo quella dell’altra volta; ora somigliate troppo alla Bianca del palcoscenico”. Il giorno dopo ella giunse nel suo studio vestita semplicemente di rosso con trine nere - come la prima volta - e l’idillio ricominciò.
“Gli spasimi del nostro amore - disse l’imputato - non è possibile descriverli. Ella aveva perduto completamente l’aria della canzonettista, era ritornata la donna semplice, ingenua buona. Ma io non ero ricco ed ella non poteva vivere poveramente; la sua vita passata le aveva creato dei bisogni inevitabili. Dovemmo dividerci. Gli ultimi giorni che passammo insieme furono giorni di agonia; io non potevo lasciarla, ma non osavo offrirle di vivere con me. Come avrei potuto darle quello di cui ella aveva bisogno? Lo strascico di questo secondo episodio fu terribile. Dopo che ella partì, ci scrivemmo come pazzi. Io non dormivo per telegrafarle, per scriverle. poi allentammo i rapporti”.
Ma il destino doveva farli incontrare una terza volta. Bianca De Mercy, dopo un lungo giro all’estero, ritornò ancora a Roma e bussò allo studio di Cifariello. La relazione riprese. Dopo poco - il 12 maggio 1894 - si sposarono.
“Io avevo disposto che si facesse nuova vita - continua lo scultore - ed avvertii mia suocera che a casa mia non doveva entrare nessun oggetto o carta che ricordasse a Maria Cifariello di essere stata una canzonettista. Lascio dunque figurare quale fu la mia sopresa quando, nello svolgere un pacco di carte trovato sopra un mobile, vidi che esso racchiudeva manifesti da teatro e lettere d’amore dirette da certo Bonera alla Maria!...
“Feci molto chiasso, mia moglie pianse, giurò che la colpa non era sua, che solamente sua madre aveva potuto non distruggere quelle carte. Io, sebbene assai sconvolto, finii per restare convinto. E da allora le cose peggiorarono. Mia moglie in compagnia di sua madre e di una zia buttava via il danaro e ben presto mi trovai in gravi ristrettezze economiche. Conobbi a quel tempo un signore tedesco, certo Lenk, che mi offerse un posto di direttore in uno stabilimento artistico della Germania. Se fossi stato solo non avrei accettato per non vincolare la mia libertà: ma per allontanare Maria da un centro rumoroso come Roma accettai e condussi Maria a Passau. Ma anche lì scoppiavano frequenti litigi. La mia impotenza nel crearmi una moglie dalla creatura che adoravo mi umiliava. I nostri contrasti si acuivano. La casa diventava un inferno. Anzi a Passau la chiamavano già Teufel haus, la casa del diavolo. Un giorno, in seguito ad un litigio avvenuto fra noi, Maria, a mia insaputa, partì. Ne ebbi un colpo violentissimo. Ero disperato. Volevo uccidere i due pappagalli, causa della lite. Entrai nella stanza dove si trovavano ma la mia attenzione fu attratta di nuovo da quel pacco di carte dove avevo già trovato le famose lettere, un impulso invincibile mi spinse a rovistarvi, trovai ancora ritratti di mia moglie in succinti abiti di canzonettista, ritratti di altri uomini, biglietti da visita. Pazzo di dolore afferrai tutto e lo distrussi. E per questo mio gesto ebbi pure una querela di mia suocera per sottrazione di documenti di famiglia - così ella chiamò quelle carte! - e dovetti ricorrere al signor Lenk perché si intromettesse a far ritirare la querela, senza neanche potergli dire in che consistessero i documenti di famiglia, per non scoprire la mia vergogna”.
Ben presto però Maria ritornò a Passau e ben presto i due rifecero la pace. Cifariello divenne da allora un marito sempre più docile e remissivo. Nell’animo della moglie, invece, si risvegliava sempre più il rimpianto del passato e della vita libera e girovaga in una volta. E comincò a parlare di un ritorno al teatro. In principio lo scultore si oppose ma la sua resistenza al desiderio della moglie diventava sempre più fievole. Finché Maria ottenne i soldi per partire lasciandolo nell’angoscia e nella disperazione per ben cinque mesi.
“Una mattina sento uno scampanellio - continua Cifariello - ed odo parole sommesse. Era lei. Portava i capelli corti con una paglia da uomo. Erano bastati alcuni mesi di lontananza per distruggere i miei sforzi, per rinascere Bianca De Mercy. Partiamo subito dopo per Rocca di Papa e quel periodo fu per me una nuova luna di miele. Che però non durò a lungo. Ben presto Maria mi annunziò di partire per l’America dove aveva un contratto per una serie di spettacoli. Mi lasciò per un anno durante il quale desiderai ardentemente di morire; e per l’anno intero dovetti affidarmi alle cure dei medici tanto era il patema d’animo prodottomi dalla lontananza di quella creatura adorata... Dopo un anno mia moglie si decise a raggiungermi di nuovo; ed io ebbi l’illusione che la mia felicità potesse stavolta durare a lungo. I litigi però dovevano rinascere presto. Ella pretese che la nostra casa gli procurasse una risorsa finanziaria dando in affitto alcune camere mobiliate a persone per bene, e poiché minacciava di ripartire per l’America, dovetti anche per questa volta subire la sua volontà e cedere. La nostra casa diventò così un inferno: non vi era mai la possibilità di pranzare, cenare, fare il proprio comodo: in casa mia si erano insediati gli estranei. Ritornai all’arte per ritemprarmi lo spirito; e fu allora che lavorai ardentemente intorno ad un monumento al re Umberto I° che doveva erigersi a Bari. Venuta poi l’epoca della inaugurazione portai con me Maria e facemmo un giro della provincia di Bari dove fummo accolti trionfalmente. Maria credeva che tutte le feste che mi si facevano fossero dovute solamente alla sua bellezza; ed io in realtà ero assai annoiato di veder sempre attorno a noi dei giovanotti eleganti che corteggiavano mia moglie. Sicché non appena venne il giorno della partenza io lo salutai con un grande sospiro di sollievo”.
E’ a questo punto che Cifariello decide di recarsi a Posillipo alla pensione Mascotte, mentre la moglie rientra a Roma. Ma una sera, fra le lettere pervenutegli in albergo, ne trova una dell’avvocato Gregoraci di Roma in cui gli si annunzia il proposito della Maria di presentare una domanda di separazione. La cosa sconvolge ovviamente lo scultore che non indugia un solo istante a raggiungere Roma col primo treno in partenza nella speranza di incontrarsi con la moglie. Si reca in casa della suocera la quale non riesce a dargli notizie precise ed è in queste condizioni di spirito che trascorre in quella casa la notte. Svegliatosi non trova più nessuno. Comincia a rovistare dappertutto credendo così un qualunque indizio che gli dia la possibilità di conoscere dove si trovava la moglie ed è così che viene in possesso di una lettera firmata F. P. M. ed indirizzata alla Maria, in cui, per la prima volta, crede di trovare una chiara prova di adulterio.
“Mi parve di impazzire - dirà al processo -. Se avessi avuto a portata di mano una rivoltella mi sarei ucciso.
Si recò quindi in casa dell’avvocato Gregoraci al quale fece vedere la lettera trovata. Gregoraci cercò di buttare acqua sul fuoco. Disse che in fondo non c’era nulla di preciso oltre all’invio di un bacio, che Maria poteva non essere colpevole. Ed il giorno dopo fece in modo che Cifariello si potesse incontrare con la moglie nello studio. E bastò ben poco perché ella riuscisse a convincerlo della più assoluta fedeltà. La lettera l’aveva scritta per eccitare la sua gelosia e mettere a prova il suo amore! Nei giorni in cui egli non era riuscito a trovarla ella si era recata nelle Puglie per accertarsi se il marito avesse a Bari un’amante, certa Titina, una signorina di buona famiglia la quale si diceva perdutamente innamorata del Cifariello. Disse che solo per questo motivo si era rivolta a Gregoraci per la separazione.
“Fu fatta la pace - continua l’imputato - ed i giorni seguenti furono per me giorni di grande felicità. Io in realtà la adoravo ed ella sapeva concedersi così soavemente, sapeva così eccitarmi, che io provavo con lei sensazioni divine. Noi abbiamo vissuto in quei giorni ore di completa estasi. Ella era la sirena, l’affascinante, l’insuperabile. Nessun poeta potrebbe descrivere quella donna nell’amore. Io solo potrei farlo ma dovrei parlare un anno e dovrei dar tutte le mie fibre, tutto il mio cuore, poiché ho in me il ricordo fremente spasmodico di lei. Ma trascorso quel periodo mia moglie cominciò ad accennare ad una infermità insorta alla madre per ritornare a Roma: assunsi informazioni e risultò che la madre stava bene, quindi non la feci partire. Più tardi, trovai in fondo al lavabo dei pezzetti di carta che rappresentavano i residui di una lettera scritta da mia moglie. Li raccolsi e cercai di ricostruire il messaggio ma non ci riuscii. Il demone della gelosia si era impossessato ormai di me... Avevo sospetti gravi sulla fedeltà di lei. Finalmente una volta la sorpresi mentre impostava una lettera; e poiché le mie indagini furono sollecite, essendomi recato alla posta, potei sapere che quella lettera era indirizzata all’avvocato Leonardo Soria, un amico di Bari, del quale non avrei mai sospettato.
“Cominciavo ad avere quasi la prova certa del tradimento ma ancora non osavo parlarne. Un’altra volta ella mi parlò del giornalista Vaselli come di uno dei corteggiatori di Roma e con mezze frasi smozzicate mi fece capire che altri corteggiatori non le mancavano. Quell’ossessione di gelosia mi faceva impazzire. Maria ormai si era completamente impadronita di me, e fu allora che mi impose di allontanarmi recandomi all’eremo sul Vesuvio dove mi accompagnò ella stessa per ritornarsene subito alla pensione Mascotte adducendo che aveva bisogno dell’aria di mare e che a me invece avrebbe giovato la montagna. L’accontentai ma lasciai l’incarico a mio fratello che si trovava a Posillipo di vigilare sulla condotta di Maria. Così rimasi solo all’eremo, occupando il mio tempo a scrivere lettere d’amore ed a guardare col cannocchiale la pensione cercando di individuare la finestra della camera dove albergava mia moglie...
“Qualche giorno ecco giungermi la bozza di un telegramma trovata da mio fratello: mia moglie aveva telegrafato all’avvocato Soria in questi termini: ‘A che pensate? Perché non scrive?’ Mi pareva d’impazzire. Ritornai a Posillipo dove, passando dall’ufficio postale prima d’andare alla pensione, trovai fra le mie carte un telegramma del Soria che sul momento non capii: ‘Verrò pensione Mscotte trattieni camera per me’. Rientrai furente. Maria mi accolse con un angelico sorriso annunziandomi che in albergo con noi si trovava... il mio amico Soria. Stavo per svenire di rabbia. Ma poi scattai come morso da una vipera cercando di farla parlare, di farle confessare il tradimento. Ma più diventavo aggressivo, più ella diventava tenera e mi ripeteva che era innocente, che era terribilmente gelosa, che aveva chiamato Soria solo per farlo parlare e strappargli qualche segreto sulla mia infedeltà; che gli aveva fatto sperare, solo per potersi fare una spia. Pazzo finii col crederle. E mi convinse pure a scendere in sala da pranzo a salutare il Soria. Lo guardai negli occhi. Egli divenne pallidissimo. Lo penetrai col mio sguardo. Ricordo che anche quella sera Maria mi disse parlandomi del Soria: ‘Quell’uomo è un vile. Tu sei diverso, sei forte. L’hai guardato che sembrava volessi ucciderlo con gli occhi. Quanto mi sei piaciuto! Quanto ho sentito d’amarti!’ E cadde ai miei piedi. L’indomani mi ero alquanto assopito nel letto. Ad un tratto mi ridestai. Cercai Maria e non la trovai; corsi fuori; ella era, in veste da camera, nella camera del Soria. Io le dissi: ‘Cosa fai qui?’ Ma lei, sempre calma, mi rispose che cercava di far partire il Soria onde evitare quella situazione incresciosa.
“Fu convenuto che il giorno dopo Soria partisse e la mattina stessa mia moglie si fece accompagnare da me alla posta da dove così telegrafò alla madre: ‘Arriverò domani’. Un altro fulmine a ciel sereno. Per me era finita. Ella se ne andava a raggiungere Soria. Quel telegramma rappresentava il crollo di tutte le mie illusioni. Fu allora che mi balenò l’idea del suicidio e comperai una rivoltella”.
Per tutto il giorno Cifariello tentò di convincere la moglie a non lasciarlo. Ella si mostrava decisa a non mutare programma. Allora lo scultore cominciò a farle promesse di danaro. Solo così Maria cominciò ad intenderlo fino a capitolare dicendosi disposta a rinunciare al viaggio. Egli non esitò a firmarle un chèque di lire 10.000. Ella accettò.
Finalmente ella rimaneva ed il cuore del Cifariello si apriva nuovamente alla speranza; aveva riguadagnato la vita; fu preso da un vero sussulto di gioia. Volle festeggiare questa riconciliazione e fece venire in camera dello champagne che ella beveva di solito con gusto e in quantità notevole. Ne bevve quasi interamente una prima ed una seconda bottiglia; Cifariello poco. Quindi si misero alla finestra ma fu a questo punto che l’umore della Brown ebbe un mutamento repentino.
Diventò cupa e cominciò a negarsi agli amplessi del marito. D’un tratto, come presa da una risoluzione momentanea, inaspettatamente disse: “no, andrò a Roma”. Egli si sentì male. Preferisco a questo punto riportare integralmente la versione che il Cifariello dette dei fatti, da questo momento alla uccisione, al giudice che lo interrogò.
“Ci ponemmo a letto molto tristemente. Mia moglie poco dopo si addormentò ed io presi una pillola per stordirmi, e ne preparai una seconda. Malgrado ciò rimasi a singhiozzare, soffocando quanto più potevo i miei lamenti con un fazzoletto che comprimevo sulle labbra. Mia moglie, svegliatasi, ed accortasi che ero con gli occhi aperti mi domandò perché non dormissi e mi lamentassi. Io le risposi che non potevo trattenermi dal lamentarmi dal momento che non ero riuscito a persuaderla a rimanere con me ed a rinunziare al suo viaggio a Roma. Parlando a voce bassissima, per eludere la importuna curiosità dei vicini stimolata dalla anormalità della nostra vita, cominciammo di nuovo la solita schermaglia, io con i lamenti e lei con fredde repulse e impertinenti stimoli. Per calmarla cominciai a carezzarla ed a lodarne la bellezza.
“A questo punto ella mi disse: ‘Sai quanti pagherebbero a caro prezzo una notte d’amore con me?’ Questo discorso stimolò anche di più la ormai per me morbosa curiosità, e le rivolsi parole che eccitandola, potessero spingerla a manifestare intero il suo animo. Ella allora disse che un uomo a Roma, senza averla posseduta, le aveva dato 3.000 lire. Questa notizia fece risorgere nella mia memoria tante circostanze minute, che, per altro, raggruppate, in un momento mi diedero la chiara visione del disonore che mi aveva colpito e della ragione per cui persone che prima mi avevano usato rispetto, di poi si mostrarono con me indifferenti e sprezzanti. Domandai minacciosamente a mia moglie che cosa avesse concesso a colui che le aveva dato le 3.000 lire, ed ella per tutta risposta, impugnò verso di me una piccola rivoltella che aveva acquistato pochi giorni prima e che prese sotto il cuscino, dicendo: ‘Non minacciare, che ora posso minacciare io’. Tentò anche di togliere la sicura scendendo dal letto. Io alle parole ingiuriose ed a quell’atto, ebbi a perdere non soltanto il dominio di me stesso, ma anche la coscienza di quello che facevo. Presi la rivoltella che avevo nella valigia vicino al letto e sparai un primo colpo, seguito dagli altri quattro di cui era carica. Dopo sono scappato dalla camera gridando: ‘Ammazzatemi, ammazzatemi’”.
Questi i fatti salienti che ho riferito attenendomi soprattutto alle dichiarazioni del Cifariello ma che sono stati acclarati da prove incontestabili che risultarono durante il dibattimento. Così come pure risultò da un rapporto della Ps di Roma, commissariato di Castro Pretorio, del 19 agosto 1905, che il Soria aveva un appartamento in via Pinciana dove conduceva spesso la Cifariello con la quale si intratteneva lungamente. Fu anche data lettura, su richiesta della difesa, di un nutrito carteggio di messaggi d’amore fra la Maria e il Soria, e furono pure esibite, sempre dalla difesa, lettere scritte all’uccisa da un certo Ferdinando Partini che il Cifariello aveva nei suoi interrogatori definito “il dattilografo” attribuendogli la lettera d’amore scritta a macchina e trovata in casa della suocera firmata F. P. M.
Una approfondita perizia psichiatrica fu redatta dai professori Virgilio, Corrado e Colucci. Queste le conclusioni cui giunse: “Filippo Cifariello ha un temperamento neuropatico e carattere nevrastenico. Non può ammettersi uno stato d’infermità mentale attuale ed in rapporto al delitto da lui commesso nei termini della clinica psichiatrica ed in quelli contemplati dall’articolo 46 e 47 del Codice Penale. Il delitto porta le impronte psicologiche di uno stato passionale intenso, ed ha avuto il determinismo occasionale dell’offesa eccessiva e della pausa”.
E’ inutile notare che ad un certo punto della perizia si rilevano certi disturbi nervosi che Cifariello ebbe nel 1901 e che avevano tutti i caratteri per la diagno di “frenosi maniaco-depressiva”. E poiché la nota caratteristica di queste forme cliniche è proprio la “recidività”, non si può escludere che Cifariello si trovasse al momento del delitto, in una tale condizione.
Le arringhe iniziarono dopo trentacinque udienze, durante le quali sfilarono numerosissimi testimoni che però non portarono alla causa elementi nuovi o perlomeno tali da modificare in modo notevole la sostanza dell’accertamento dei fatti.
La testimonianza della suocera mise in luce un Cifariello avaro e venale attraverso minuziosi racconti di episodi particolari. Questo aspetto fu pure messo in rilievo da una zia della Maria Brown, contessa Anais De Lunel, e da una cameriera che però - avvertì l’imputato - aveva motivo di risentimento verso di lui che l’aveva sempre trattata un po’ severamente ritenendola di costumi poco onesti.
Con una serrata requisitoria il Procuratore generale Luigi Carelli sostenne l’accusa di omicidio premeditato, pur concedendo la provocazione grave ed il vizio parziale di mente.
Seguirono le arringhe degli avvocati di parte civile Capomazza, Grimaldi, Zurlo e Romualdi e le difese degli avvocati Cancellario, Spotino, dell’onorevole Pansini e quella di Gaetano Manfredi, un classico esempio di alta eloquenza.
A maggioranza di voti, i giurati pronunciarono un verdetto di piena assoluzione, riconoscendo al Cifariello il vizio totale di mente nel momento in cui fu trascinato al delitto da un impulso folle della sua passione travolgente.
(dalla rivista “Eloquenza” numero marzo- aprile 1967)

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