Nella città dei Papi, la lama assurse
ad arma per eccellenza nei dissidi
privati, soprattutto nel mondo terribile
ma affascinante dei “bulli”
Il coltello, con la sua diabolica ambivalenza, che, come è ovvio, da strumento può tramutarsi in arma per eccellenza, è stato il protagonista di molti fatti di sangue in ogni epoca, con particolare valenza in Italia tra il 1600 ed i primi del ’900 ed il primato, almeno per i duelli, spetta senza alcun dubbio alla città di Roma.
Praticamente da sempre si è tentato di frenare il loro porto e la loro capacità offensiva, limitando a volte la lunghezza delle lame, la forma delle punte, il numero dei fili, la celerità di apertura per i pieghevoli, il che ancor oggi accade. Talora se ne è concesso il porto ai nobili e lo si è vietato al popolo, che però, a causa di necessità legate al lavoro, ha sempre e comunque avuto il ferro tagliente a sua disposizione.
Tracciare un limite tra il vietato ed il lecito ha diuturnamente costituito il cruccio dei legislatori in ogni epoca, a causa, per l’appunto, dell’ambivalenza dello strumento e nobili e popolo hanno sempre spremuto le meningi per aggirare le leggi. Come non ricordare i camuffati coltelli da vela o da sellai che addirittura avevano la cruna come un ago per cucire? Basta osservare uno di quegli splendidi esemplari eseguito da un artista per capire, in questo caso vista l’elegante foggia, le ricche decorazioni, i “rimessi” in argento e le incisioni a bulino o all’acquaforte, che non potevano certo servire per dei lavori umili.
Dopo l’unità d’Italia, nel 1861, il neonato Stato si trovò di fronte alla necessità di reprimere i fatti di sangue, specie dall’ex regno papalino fino a quello delle Due Sicilie, porzione geografica, questa, ove, nelle fasce povere, sia per cultura che per difficoltà di reperire armi da fuoco, il ferro la faceva da padrone e gli omicidi ed i ferimenti da coltello rendevano le statistiche, coeve della frontiera americana, una vera barzelletta, tenuto conto del rapporto popolazione/territorio. Pochi sanno che a Roma, pericolosissima, sino ai primi del ’900, in una città di 300.000 anime o giù di lì, i tranvieri (o guidatori degli omnibus e tramways) potevano portare la pistola! Nel centro-sud, vista la cattiva reputazione meritatasi all’estero, con legge 6/7/1871, si permisero solo lame inferiori ai 10 cm, prive di molla fissa o congegno di blocco di lama (come l’Opinel) altrimenti considerate insidiose e di cui era vietata anche la detenzione.
L’8 novembre 1908, ad opera di Giolitti, veniva promulgato un decreto legge che limitava a soli 4 cm la lunghezza dei coltelli appuntini di libero porto, poi estesi a 6 cm per insistenza dei coltellinai e poi ancora a 10 per i senza punta. Non è rarissimo imbattersi in lame d’epoca con la scritta “Permesso dalla legge”. Restava escluso “il giusto motivo” per gli attrezzi fuori ordinanza, come a tavola, a caccia, in cucina. Il tutto mise in seria crisi le industrie di Scarperia e Maniago, già floride all’epoca.
Come già detto, il teatro dei maggiori fatti di coltello, almeno per onore o presunto tale, fu proprio Roma, dove vissero dei personaggi incredibili, almeno per il nostro modo di vivere odierno. La prima citazione letteraria della parola “bullo”, pare risalga al 1583 relativamente alle gesta di tal sior Ragno Bule, in una commedia dell’arte veneziana. Pare che derivi dal tedesco “bule”, ossia amatore o “bulle”, toro. Nell’antico dialetto romanesco, il bullo viene a volte confuso col “paino”, che occasionalmente si era armato di coltello, ma che era un elegantone perdigiorno. Il bullo era di un’altra pasta, un vero e proprio fenomeno di costume, forte, arrogante, violento, fumantino, guascone, gran mangiatore e bevitore, disinteressato, protettore dei poveri e dei vessati, di parola d’onore (a modo suo) insomma “er più”. Ebbe terreno fertile tra i rioni popolari di Roma, acerrimi nemici, Testaccio, Trastevere, Regola, Monti, Parione, Ponte e San Lorenzo ma provenne anche dai paesi circostanti l’Urbe, i famosi Castelli. Di qui pare venissero i giovanotti che affrontavano i torelli a mani nude nell’Anfiteatro del Corèa, sito nella tomba di Augusto nella odierna piazza Augusto Imperatore.
I bulli incarnarono l’anima di Roma, sonnolente all’epoca papale, la sua boria, la sua conflittualità tra libertà ed amore per il papa Re. Il bullo fu giacobino ma al tempo stesso fedele guelfo con indole ghibellina. Egli costituì il punto di riferimento del rione ove carente era la legge e si cercava una giustizia immediata e severa. C’è da dire che all’epopea dei bulli mise fine il Fascismo, con un’accanita persecuzione, fino al loro annientamento con lunghi periodi in carcere (Carceri nuove, San Michele prima e Regina Coeli dopo e “le isole” che tanto vanno di moda oggi per il turismo, come Ponza, Ventotene, Pianosa, Lipari, Ustica).
Il maggior personaggio letterario romano incarnante il bullo, è sen’altro Meo Patacca, eroe puro, leale e generoso, seguito da Rugantino (chi non ricorda la rivista di Garinei e Giovannini con Fabrizi e Manfredi?) le loro coltellate a Campo Vaccino o le “partite a rocci” ossia le “sassarolate” celebri tra rioni, ebbero come scenario i ruderi semi sepolti del Foro Romano ove pascolavano armenti. Come non ricordare le famose stampe del Pinelli che ci fanno vedere un Meo Patacca alla testa dei suoi, armati di sassi e coltelli tra le colonne del Foro emergenti tra la terra? Ricordiamo poi altri stereotipi letterari, come Jacaccio, Capitan Spaventa e Spezzaferi. Ma la vera e propria saga del coltello ebbe luogo tra l’Ottocento e gli anni immediatamente successivi la Prima Guerra Mondiale.
I nomi dei personaggi “grevi” ancora aleggiano nella vecchia Roma e fanno parte della sua storia. Basta un pizzico di immaginazione ed eccoli lì, mentre passi a San Lorenzo, sul lungotevere, a Trastevere, a Ponte, i vari Porchetta, er Grinza, Cechetta, Brugnolone, er Polpo, Giggiotto, Zeppa, Mignottella, Anselmuccio, er Cicoriaro, Serafino, er Pomata, Toto, Attilio, Musetta, Sturapippe, Morbidone, Chighino, Sparecchia, Mazzangroppa, Zagaja, er Capo Rabbino, Nino er bullo, er Pajetta, er Cameriere, Framicitto, Terremoto, Caio de Ponte, Pazzaja, er Cafabbo, Stivalone, Barbieretto, Gramicetta, Augusto er fontaniere, Toto er pizzuto, Achille er gallo, Augusto er pittoretto, Silvestro er ciociaro, er Broccoleto, er Tarmato, er Carcina, Nino er boja, Ettorone dell’ammazzatora. Ma un posto a parte ce l’hanno er Tinea, detto l’ufficio reclami per i deboli, gigante di Trastevere, compianto dal ghetto (ucciso a tradimento da un nano, ladro per di più), che nel 1907 affrontò di notte 12 uomini con il coltello strappato ad uno di loro, e er Manciola, fruttivendolo, amante dei Catalani da 24 cm morto intorno al 1960, con all’attivo 37 schedati, tutti per sé presso gli uffici di Ps, e per ultimo un bullo, ma dalla parte della legge, il famoso delegato di Polizia Ripandelli, rispettato e temuto da tutti i duri.
Un bullo rifiutava categoricamente di usare la pistola chiamata con dispregio “cacafoco” e preferiva il coltello ovvero “tajno” o “cerino”.
A Roma esisteva una scuola di coltello dietro il Pantheon, a via della Palombella, chiamata “scuola della cicciata” ove le punte delle armi rimanevano scoperte solo minimamente ed il resto della lama veniva avvolto in spago (la sicura) per cui si poteva colpire solo la ciccia dell’avversario. Anche quando erano in galera i bulli si allenavano, colpendosi con gli scopettoni delle latrine intinti nel bianco della calce delle sputacchiere in una singolare scherma con tanto di arbitro; scommettendo, ovviamente.
Nello Stato Pontificio, nel 1853 ci furono 4 omicidi al giorno; tra il 1850 edil 1852, a Roma vi furono 247 omicidi, di cui solo 2 per rapina. Sempre a Roma, dal 1890 al 1896 si contarono ben 2.354 sfide cavalleresche, 920 risolte con duelli regolari secondo il codice cavalleresco. Nel 1896 vi furono 103 duelli di cui 97 alla sciabola, con un morto e 151 feriti.
Per quanto riguarda invece il coltello, la spada dei poveri, dal 1890 al 1896, con una popolazione di 300.000 anime, si contano secondo alcuni, almeno 1.000 ferimenti, sessanta duelli rusticani, vari morti e circa 150 feriti mentre tra il 1890 ed il 1940, vi furono oltre 600 vittime. Per il 1892 secondo alcune fonti, si hanno 72 feriti da punta e da taglio. Il 1893 conta 58 feriti e quattro morti e 185 feriti da tagli non penetranti, con un solo morto. 1894: 43 feriti da punta e taglio penetrante; 1895: otto morti e 196 feriti; 1896: 6 morti, 37 ferite penetranti e 129 di taglio. 1898: 112 ferite penetranti con 20 morti e 109 non penetranti con 2 morti. Il 1899 conta 86 penetranti e 20 morti, mentre le penetranti nel 1899 furono 86, con 20 morti e 79 non penetranti. Un morto. Il 1900 vede 106 penetranti con 18 morti e 71 non penetranti senza morti. anno 1902: 118 penetranti con 16 morti e 99 non penetranti senza morti. 1904: 86 morti e 258 da non penetranti con 3 morti. 1906: 140 penetranti con 18 morti e 183 non penetranti con nessun morto.
I numeri si riferiscono ai ricoverati negli ospedali, colà giunti a causa di bulli o di malavita comune “non onorata”. Il bullo però non ruba, non sfrutta donne anche se gli cascano ai piedi, veste elegantissimo, pieno d’oro che ciclicamente deve impegnare quando è a corto di bajocchi. I più dei fatti di coltello nacque nelle sale da ballo o nelle osterie, ove in alcune addirittura si pagava a tempo come al biliardo stando ad un sonetto del Belli. Precise statistiche dell’epoca riportano che a Testaccio nel 1908, su 605 operai, 350 di essi bevevano 3 litri al giorno, 127 ne scolavano tre, 86 quattro, 45 cinque, mentre il consumo pro capite di latte era di 18 litri all’anno. Per curiosità vale la pena ricordare una famosa sfida bullesca, stavolta incruenta, avvenuta a Trastevere nei primi del Novecento, ove er Cafabbo vinse strafogandosi 2 kg di salsicce, 1 kg e mezzo di budelli secchi di maiale farciti, 2 kg di pesce, 5 di capretto, 3 kg di pane, 5 litri di vino. Il perdente, tale Menotti, arrivò medaglia d’argento con 2 kg di pane, 2 kg di spaghetti, 2 kg di capretto e 5 kg di vitella.
Visto che l’osteria era il club dei bulli e anche la loro palestra, papa Leone XII nel 1824 pensò bene di far mettere i cancelli alle osterie, per cui il nettare di Bacco veniva passato agli avventori all’aperto. Ed il Belli... “...Qui non ze fa che mormorà, fratello,/perché se sà ch’er padronaccio è lui/ma caso lui crepassi, addio cancello”.
I morti di coltello, nell’Ottocento, in occasione delle feste e del copioso bottino di vino, erano circa 7 o 8 per rione ed i cadaveri venivano posti in chiesa in uno speciale sgabuzzino detto “sfreddo”. Ricorda Giggi Zanazzo una frase tipica dei bambini ai padri: “A Tata, me porti a vedé quanti so’ stati oggi l’ammazzati?” Bastava poco per arrivare ai coltelli, uno sguardo ad una donna, il vino versato alla rovescia o con la sinistra (mia madre, romana, classe 1902, andava su tutte le furie per il “vino versato alla traditora”) o anche una stretta di mano moscia, tanto bastava per la tipica frase “fora er cortello”. L’ospedale più frequentato dai bulli era La Consolazione, attualmente sede di un comando dei Vigili Urbani, in quanto trovandosi tra il Foro ed il Teatro Marcello, era crocevia tra Trastevere e Monti e non lontano da Ponte e Ripa. I medici redassero per diversi anni una statistica di ferimenti, omicidi, colpi da fendente o da stoccata.
Ora l’epoca dei Bulli con la maiuscola è tramontata da un pezzo. Almeno allora c’era, seppur distorto ed enfatizzato, il senso dell’onore ed il rispetto di alcuni valori, sempre lontani dal lucro. Sarebbe un sacrilegio accostare i bulli alla mafia o alla camorra. La causa per il quale si sacrificava la vita e si pagava col carcere o con l’isola è un’abberrante commistione di “onore”, ignoranza e soprattutto tanto vino. Le sassarolate dei ragazzi oggi, hanno lasciato il posto alle tristi bombolette spray di vernice, con cui gente senza cultura imbratta i muri di edifici storici dando sfogo alla propria nullità intellettuale nel pieno disinteresse di chi dovrebbe vigilare.
Trastevere, tutto vicoli, verde di rampicanti ed infiorato, una perla senza pari di quartiere, che strappa l’anima solo a passeggiarci, una città nella città che si estende da Ponte Sant’Angelo fino alle pendici di Monteverde e quelle del Gianicolo, è letteralmente sommerso dagli insulsi palinsesti dei vacui iconoclasti. Piazza de’ Renzi, dove abitava er Tinea, tosto tra i tosti di Roma, è ridotta a policromo e astruso caravanserraglio. Se ci fosse ancora “er più” con la sua canna di bambù, tutto sarebbe finito dopo il primo murale. Il coltello comunque, seppur in maniera nettamente attenuata, fa ancora la sua presenza nell’Urbe, ma ben in altre mani che non parlano romanesco, venute da molto molto lontano.
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