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Gennaio/2007 - Articoli e Inchieste
Eutanasia
La morte come spettacolo
di Ettore Gerardi

La fine di Piergiorgio Welby, con tutto
ciò che ha comportato, si è prestata
ad uno sconcertante dibattito pubblico
in cui sono voluti intervenire
un po’ tutti, dai politici, ai medici
ai teologi, agli opinionisti. Il rifiuto
della Chiesa ai funerali religiosi


Eutanasia è parola greca che significa “buona morte”; la morte che compete all’uomo che ha condotto la sua vita senza prevaricazioni e senza eccessi attenendosi alla giusta misura (sempre secondo il concetto dei Greci).
Oggi, invece, sembrerebbe che quella parola significa “morte anticipata” rispetto alle residue risorse dell’organismo, esaltate dalle possibilità offerte dalla scienza medica. E siccome la tecnica medica è in continuo progresso, sempre più difficile sarà distinguere il dovere di cura dall’accanimento terapeutico.
Fatta questa premessa vogliamo tornare sull’evento della morte di Welby che ha tenuto occupato il mondo dell’informazione in una sorta di teatrino mediatico in cui tutti hanno voluto fare la loro comparsa: medici, scienziati, politici, filosofi, religiosi, giornalisti, tuttologi.
Qualcuno, nel corso di una trasmissione radiofonica curata dal giornalista Forbice, ha sentito il dovere di proclamare come la morte (procurata) del povero Welby e proprio per il modo in cui è stata sollecitata, rappresenta “un passo significativo dell’Italia verso la civiltà”. A parte ogni altra considerazione, non si riesce a comprendere come si possa considerare la morte di una persona un fatto di civiltà.
Dimenticavamo: nel “teatrino” di cui sopra, ha sentito il preciso dovere di intervenire anche Marco Pannella, il digiunatore, che appena appresa la morte del povero sofferente, ha ritenuto di annunciare al mondo l’evento con un sorriso trionfante. Trionfante perché?
Noi crediamo che la morte di un malato terminale, ma anche la semplice morte sia un fatto che riguarda solo ed esclusivamente la persona che scompare e i suoi familiari. La speculazione etica-politica-scientifica messa in atto per Welby, è stata un fatto deprecabile: il caso è stato fatto entrare a forza nelle nostre case attraverso la tv, i giornali, le radio.
E’ stata fatta violenza persino ai famigliari dello scomparso, insinuandosi nella loro intimità, nel loro dolore. Il tutto per quale motivo? Smania di apparire? Farsi portavoce di una battaglia usando la sofferenza fisica e morale di un uomo magari per ottenere futuri consensi elettorali? O forse per consegnare alla burocrazia (chiedendo leggi ad hoc) l’unica certezza umana che è la morte.
Dovremmo riflettere un po’ tutti su quel tragico evento: non vorremmo che casi come quello di Welby divengano il “terminale” di una finta dialettica sociale fino a diventarne uno strumento. Il trapasso statalizzato e mediatico di Welby, vorremmo che fosse l’ultimo caso della nostra Italia. Speranza del tutto illusoria, crediamo.
L’ultimissima parola sulla vicenda terrena di Piergiorgio Welby, l’ha voluta dire la Chiesa negando il funerale religioso. Alla base di questa decisione anticristiana, ci sarebbe stata la grande pubblicità data al caso. Il cardinale Martini, già arcivescovo di Milano, ha detto che è stato un errore il “no” ai funerali in chiesa.
E’ singolare come i primi a “tradire” il Vangelo sono, spesso, prioprio coloro che sono chiamati a diffonderlo. Cristo non ha mai parlato di “pubblicità”...
A conclusione di questa troppo triste vicenda che ha visto come protagonista passivo un povero malato, riteniamo opportuno riportare qui di seguito una selezione di scritti apparsi sui giornali e riferiti al “caso Welby”.

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