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Gennaio/2007 - Articoli e Inchieste
Flussi migratori
Fiducia nella nostra società
di Rando Devole - Sociologo e giornalista albanese

Anche quest’anno il Rapporto sull’Immigrazione Caritas/Migrantes ci offre una serie di dati importanti sulla situazione dell’immigrazione in Italia. I nuemeri, con la loro solita “cocciutaggine”, ci aiutano a capire meglio la portata del fenomeno migratorio, sorvolando sui luoghi comuni che girano innumerevoli sull’argomento.
Innanzi tutto la questione demografica, alla quale il Dossier dedica grande attenzione e a ragione. Ad esempio, il fatto che gli ultra 65enni nel 2050 rappresenteranno il 35% della popolazione, significa che dagli attuali 11 milioni passeranno ai 19 milioni, raddoppiando quasi la necessità di assistenza. Dall’altra parte rimane il problema del livello di fertilità.
Sappiamo che su questi scenari influiscono diversi fattori di carattere culturale, sociale ed economico. Hanno naturalmente il loro peso anche le politiche a favore della famiglia. Ciò nonostante, non possiamo non notare che il trend demografico negativo in Italia è formato principalmente dai flussi migratori, così come il moderato aumento della natalità è dovuto alla nascita dei bambini da genitori stranieri.
Ho paura che non tutti comprendano fino in fondo l’importanza dell’andamento demografico, un fattore fondamentale per lo sviluppo e l’economia del Paese. Inoltre, non bisogna dimenticare che creare famiglia e fare figli è, tra l’altro, un atto di fede e di fiducia. Nel caso degli immigrati, questo dimostra non solo la presenza di comuni valori, ma anche la loro piena fiducia nella società italiana, all’interno della quale hanno deciso di mettere su famiglia e di crescere i propri figli. Per questo, anche a distanza di tempo, risulta assolutamente incomprensibile l’esclusione delle famiglie degli immigrati dal beneficio del bonus bebè, passo falso che speriamo non si ripeta mai più.
La presenza degli immigrati nel mercato del lavoro è dovuto anche al decremento dei lavoratori italiani e alle crescenti necessità di manodopera supplementare necessaria in molti settori.
I lavoratori immigrati si sono adeguati alle nuove caratteristiche del mercato di lavoro e i dati evidenziano una forte mobilità da parte loro. Di fronte ad un mercato del lavoro sempre più flessibile, il legame “morboso” tra il contratto di lavoro e il permesso di soggiorno non fa altro che aggravare la situazione già precaria degli immigrati.
Crescono anche gli imprenditori tra gli immigrati, e anche con l’imprenditoria attesta l’impegno e l’apporto dei nuovi cittadini.
Aumentano anche le iscrizioni sindacali dei lavoratori immigrati, indice di una volontà di partecipazione e di un chiaro bisogno di essere tutelati e riconosciuti.
Colpisce dunque la contraddizione tra le esigenze del mercato del lavoro (che richiede ovviamente più manodopera) e l’opinione pubblica (che per la maggior parte non accetta l’idea di nuovi ingressi). Quest’ultima -spesso indotta verso reazioni emotive da altri fattori - spinge i governi ad adottare delle politiche restrittive. Il circolo vizioso che si crea non nasconde una certa discordanza tra il realismo individuale (quand’è necessario quasi tutti, imprenditori e non, assumono, accolgono e accettano gli immigrati senza particolari problemi) e le paure collettive, che vorrebbero dei confini blindati e che, nella migliore delle ipotesi, considerano l’immigrazione un male inevitabile.
Il problema è che i lavoratori immigrati sono indispensabili ai campi, alla raccolta della frutta, ai cantieri edili, alle cucine dei ristoranti, agli alberghi, agli anziani, alle famiglie e così via. I casi di violenza e di sfruttamento a danno dei lavoratori immigrati, finiti ultimamente sotto i riflettori dei media, avviliscono prima di tutto lo Stato di diritto, rimarcando nello stesso tempo l’assoluta necessità di un impegno e di un coinvolgimento generale, dalle istituzioni alle parti sociali, dall’individuo alle associazioni, affinché non vengano lesi i diritti fondamentali della persona.
Agli occhi di un immigrato tutto il ragionamento utilitaristico fatto nei suoi confronti non suona bene, per diversi motivi. Innanzi tutto per il fatto che, dopo tanti anni di immigrazione, risulta ancora doveroso sottolineare aspetti assolutamente ovvi: del tipo “i lavoratori immigrati sono necessari all’economia”. Dall’altro lato, appare riduttivo (da qualsiasi punto di vista) considerarli soltanto braccia di lavoro, per giunta addetti principalmente a lavori pesanti e comunque non desiderabili dagli italiani stessi. Gli immigrati si sentono, per così dire, “tollerati” oppure “sopportati”, nella misura in cui occupano i gradini più bassi del mercato occupazionale. Quando tentano di “alzare la testa” grazie alla loro professionalità (d’altronde è umano aspirare a lavori più dignitosi e meno pericolosi), allora si scatenano le peggiori espressioni di chiusura e di insofferenza. Mentre l’emulazione può rientrare nella categoria dei sentimenti umani comprensibili, quella della chiusura è irrealistica e dannosa per l’integrazione e per la società stessa.
Ho sempre apprezzato la scelta del Dossier Caritas/Migrantes di inserire un capitolo sull’emigrazione italiana. In questo modo, oltre ad avere informazioni utili sugli emigranti italiani nel mondo, ci viene offerta anche una chiave di lettura del fenomeno migratorio. Si tratta, in realtà, di due facce della stessa medaglia. Attualmente ci sono 3 milioni di cittadini italiani residenti all’estero e più di 60 milioni di oriundi. L’emigrazione ha costituito per l’Italia un fattore di enorme rilevanza sia sul piano socioeconomico che sul piano culturale. Anche oggi il Paese ha bisogno del loro supporto e della loro esperienza, principalmente per la caratteristica di essere “ponte”, tra vari mondi e realtà.
In generale, si può dire che gli immigrati stranieri di oggi sono gli emigranti italiani di ieri. L’auspicio è che gli attuali immigrati in Italia diventino come gli emigranti italiani nel mondo e che non si ripetano le stigmatizzazioni negative di cui questi hanno sofferto.
Nei tempi della globalizzazione le migrazioni acquisiscono una importanza particolare. Ad un Paese come l’Italia, il cui sistema economico ha bisogno di confrontarsi con il mondo, i migranti servono non solo come promotori del “made in Italy”, ma anche come fattori di collegamento con altre economie. Per cui, sembra incomprensibile l’esitazione nel riconoscere pienamente il loro status meritorio, così come non si spiega perché si continui a considerarli come “ponti levatori”, utili solo a intervallo e comunque utili ad una fortezza.
L’immigrazione è indubbiamente lo specchio della società. Nell’immigrazione si rispecchiano i pregi e i difetti dell’intera collettività. Talvolta in modo esagerato ed esasperato, ma anche nei casi limite sicuramente non viene meno l’importanza dell’immigrazione di essere spia di problemi ben più radicati.
L’alibi di essere un Paese recente di immigrazione non regge più. Ormai l’Italia occupa un posto rilevante nel panorama internazionale per quanto riguarda le migrazioni. Anzi, non mancano le buone pratiche che si distinguono persino a livello europeo: mi riferisco in particolare al lavoro eccezionale svolto nel mondo dell’associazionismo. Il numero attuale degli immigrati (3.035.000), la diffusione territoriale, la composizione variegata, la presenza nella scuola, nel mondo del lavoro, ecc. indica nettamente che l’immigrazione è un elemento strutturale della società italiana. In questo senso, bisogna dire che non si può vivere solo di flussi e rimesse. Concepire l’immigrazione da un punto di vista prettamente “doganale”, del tipo quanti entrano, quanti escono, quanti soldi vengono spediti, quante merci vengono consumate, significa imporre una visione riduttiva al tema. Gli aspetti dell’integrazione necessitano più attenzione, anche perché è su quel terreno che si gioca il futuro dell’Italia. Alcune iniziative del governo sono senza dubbio lodevoli, ma rimane ancora molto da fare per dare agli immigrati quello che gli spetta: essere considerati al pari delle altre persone, con la propria dignità, allo stesso modo dinanzi ai diritti e ai doveri.
L’immigrazione offre l’occasione, anzi la chance, di ripensare sé stessi e tutta la società. Culturalmente ogni immigrato è una finestra interessante sul mondo. Un’occhiata da quella parte arricchisce e aiuta a riconsiderare l’importanza della diversità, nonché a capire un mondo che sta sul cortile di casa, visto che la globalizzazione ha ristretto sensibilmente lo spazio-tempo tradizionale.
La storia dell’immigrazione in Italia continua ormai da tre decenni. Dunque è arrivato il momento di pensare seriamente anche alle seconde generazioni degli immigrati. Il mondo della scuola è sicuramente plurale, ma c’è ancora strada da fare affinché pensi e agisca in modo tale. Gli alunni e gli studenti stranieri trovano nella scuola italiana un ambiente favorevole. Tuttavia bisogna riflettere sulla necessità di un’ulteriore apertura interculturale della scuola e sul futuro degli alunni immigrati di prima e seconda generazione, nati oppure no in Italia. Cosa faranno una volta finiti gli studi? Non è che sarà quello il momento fatidico in cui si sentiranno e si scopriranno veramente stranieri?
La necessità dell’apertura si sente anche nell’Amministrazione pubblica, la quale rimane “off limits” per gli immigrati che intendono offrire le proprie competenze a favore del bene comune.
L’avvicendarsi di governi e di politiche differenti ha palesato il carattere complesso ed epocale dell’immigrazione, nonché l’errore di interpretare questo tema con vecchi schemi. L’immigrazione va trattata con una serie di “senza”: senza ideologie, senza strumentalizzazioni, senza pregiudizi, senza retorica, senza paure. Si potrebbe estendere anche la serie del “con”, ad esempio con realismo e con coraggio, ma è sufficiente una raccomandazione per tutte: l’immigrazione va trattata con buonsenso. specialmente quando si è di fronte a problemi facilmente strumentalizzabili come la criminalità, la sicurezza, ecc. Il buonsenso è una qualità difficilmente definibile, ma che non è mai mancata all’Italia.
Secondo il Dossier i cittadini extracomunitari con carta di soggiorno sono 396.470, mentre i potenziali beneficiari sono circa 1,2 milioni a fine 2005. Le provenienze principali sono: Europa dell’Est, Nord Africa ed Asia.
Com’era prevedibile l’intenzione di cambiare la normativa sulla carta di soggiorno e sulla cittadinanza, abbassando gli anni del requisito della residenza, ha creato una serie di allarmismi ingiustificati.
Innanzi tutto, non va dimenticato che la cittadinanza è un processo complesso, la cui via principale è l’inclusione. Un cittadino straniero diventa cittadino italiano tramite l’inclusione graduale e a pieno titolo nella società. Ce lo ricordano benissimo esempi illustri di emigranti italiani, che ultimamente sono stati portati alla ribalta dei media e della narrativa (vedi il tenente Joe Petrosino).
Sbaglia chi crede che la cittadinanza sia un processo a senso unico. Il legame della cittadinanza assomiglia al legame affettivo, va condiviso da tutte le parti per essere considerato tale. In questo senso, la cittadinanza diventa una questione qualitativa, non quantitativa. Dunque il dibattito sul requisito degli anni di residenza appare a mio parere secondario. Certamente i 10 anni di oggi sono troppi, senza contare la lungaggine burocratica che assomiglia più ad una maratona ad ostacoli che ad una prassi amministrativa.
L’inclusione è un processo anche individuale per cui la discussione sulla quantià temporale, pur importante, non rende giustizia alla complessità dell’argomento. Inoltre, le discussioni se devono essere quattro, cinque o sei anni per avere la cittadinanza, rischiano di rimanere in terreni paludosi e infruttuosi. In poche parole, è più importante il “come” che il “quanto”. L’integrazione ha anche un suo lato sostanziale, che dipende dalla società di accoglienza, ma anche dalla cultura e dalla predisposizione dell’individuo. Dalla parte della comunità accogliente la cittadinanza non deve suonare come una concessione, né come un premio, né tanto meno come una grazia. Deve essere un processo naturale, di integrazione e di inclusione, nel pieno rispetto dei doveri e dei diritti. Anche la verifica dei requisiti richiesti deve tenere conto di questi aspetti.
Dall’altra parte, la cittadinanza deve essere reale, non finta. Poiché il rischio di una visione strumentale (giusto per avere un passaporto e il diritto di voto), e dunque divisoria, esiste, per quanto sia talvolta indotta. Infatti, in alcune lingue la parola “cittadinanza” non ha come radice la parola “cittadino”, ma lo “Stato”. La cittadinanza però, è un concetto molto più vasto, che va al di là dei rapporti meramente giuridici tra l’individuo e lo Stato.
La cittadinanza significa anche appartenenza, riconoscimento, identità, apertura, progetto comune. Per questo la condivisione dei valori costituzionali, dei diritti fondamentali della persona, dei doveri verso la collettività, va concepita come reciproca. Diventa dunque indispensabile, per tutti, anche per gli immigrati, di superare le diffidenze, i sospetti, le insicurezze.
E’ difficile toccare tutti i temi trattati dal Dossier Immigrazione Caritas/Migrantes. In realtà, si tratta di una fotografia ad alta risoluzione della situazione dell’immigrazione in Italia. Uno strumento utilissimo per tutti: per gli studiosi, per le Istituzioni, per i politici, per gli immigrati stessi.
E’ dal 1991 che il Rapporto viene pubblicato regolarmente. Ogni anno una foto chiara e inequivocabile. Personalmente sono stato sempre presente alle presentazioni del Dossier, curioso di conoscere le novità e le prospettive della società in cui ho deciso di vivere.
In questi quindici anni, nei volumi del Dossier c’è più o meno la mia storia, la storia degli immigrati: problemi, preoccupazioni, speranze, opportunità. In questi quindici anni nei vari Dossier c’è più o meno la vostra recente storia, la storia degli italiani: con i relativi problemi, preoccupazioni, speranze, opportunità.

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