Nel Dossier 2006 tutti i dati sono nuovi ma alcuni messaggi sono la riproposizione di puntualizzazioni già fatte e diventate ora di evidenza maggiore. Questi messaggi possono essere così riassunti: presenza rilevante, provenienze a 360 gradi, ritmo d’aumento sostenuto, futuro in crescendo e radicamento accentuato.
L’Italia, anche se non da tutti percepita come tale, è già un grande Paese di immigrazione. Il numero degli immigrati regolari (3.035.000) ha quasi raggiunto quello degli emigrati italiani nel mondo (3.150.000) e il Paese si colloca a livello di Spagna, Francia e Gran Bretagna, staccato nettamente solo dalla Germania.
Rilevante è anche la diversificazione delle provenienze, che includono tutti i Paesi del mondo, seppure in misura differenziata. Ogni 10 presenze straniere, 5 sono europei, 2 africani, 2 asiatici e 1 americano: è entrato in casa nostra un nuovo mondo, che è comunitario solo nella misura del 10%.
L’aumento sostenuto della popolazione immigrata è attestato dal raddoppio intervenuto in questo scorcio di secolo e, ipotizzando un realistico aumento annuale di 300.000 unità, l’ulteriore raddoppio è prevedibile entro 10 anni, tanto più che buona parte della pressione migratoria dell’Africa subsahariana si indirizzerà verso il nostro Paese e verso la Spagna. Il ritmo d’aumento italiano, se si tiene conto che la popolazione degli Usa è 5 volte più grande del nostro, supera in proporzione addirittura quello statunitense.
L’accentuato radicamento è attestato, a livello quantitativo, dal numero elevato di immigrati (1.200.000) presenti in Italia da più di 5 anni (anche se solo un terzo è possessore della carta di soggiorno) e, a livello qualitativo, dai progetti migratori per i quali l’Italia è una meta molto ambita: tutti gli indicatori statistici, a partire dal flusso elevato di ricongiungimenti familiari (100.000 persone l’anno), attestano che si sceglie l’Italia come Paese d’approdo definitivo.
Questi messaggi forti incentivano diversi approfondimenti, che ci limitiamo a condurre su tre punti: “Immigrazione è globalizzazione”, “Immigrazione è futuro”, “Attenzione ai contesti anticipatori”.
Il primo di questi slogan, lanciato dal Dossier lo scorso anno, inquadra il fenomeno migratorio come una delle espressioni più significative del mondo di oggi.
L’Unione Europea detiene appena il 7% della popolazione mondiale (6,5 miliardi di persone). In Cina e in India vi sono ben 80 città con più di un milione di abitanti, delle quali neppure conosciamo il nome. Eppure l’Unione è una tra le aree a maggiore concentrazione di immigrati (24 milioni all’inizio del 2005, esclusi quelli che già hanno ottenuto la cittadinanza). Nel Vecchio Continente un sistema produttivo forte si unisce ad un andamento demografico debole, per cui sussiste il bisogno di manodopera aggiuntiva, che viene assicurata dagli immigrati.
Poiché la globalizzazione si sviluppa non solo attraverso la diffusione dei prodotti ma anche attraverso la circolazione delle persone, si impone la rivalutazione dell’impatto degli immigrati, che già esistenzialmente sono un legame transnazionale.
Pensiamo agli Stati Uniti, Paese di riferimento per lo sviluppo della tecnologia ma anche Paese ad altissima densità migratoria; pensiamo alla Cina, la cui capacità di piazzare i propri prodotti a basso costo viene agevolata dalla diaspora di più di 30 milioni di cinesi sparsi in tutto il mondo.
Il nostro Paese si inserisce in questo contesto con il suo “made in Italy”, ultimamente in affanno ma le cui sorti possono essere risollevate proprio grazie alle reti migratorie: quella degli italiani nel mondo (più di 3 milioni e mezzo di cittadini e più di 60 milioni di oriundi) e quella di 3 milioni di immigrati in Italia. Un anello debole sono invece, in Italia, gli studenti esteri presso le Università (appena 38.000 su 2 milioni e 300mila studenti esteri sparsi nel mondo nel 2004, cioè nemmeno il 2%, ben poco rispetto alla quota del 10-12% di Gran Bretagna, Germania e Francia).
Il pensiero negativo sull’immigrazione va, così, completamente ribaltato. Parimenti va superata la proposta dello sviluppo come immediata alternativa all’immigrazione, prospettiva non praticabile e, per diversi motivi, neppure auspicabile. L’immigrazione è di per sé già sviluppo, come attesta la massa di 167 miliardi di dollari inviati dagli immigrati nei Paesi emergenti, una somma che supera di gran lunga l’aiuto allo sviluppo dato dall’Occidente, che non riesce a onorare l’impegno assunto a livello internazionale di mettere a disposizione la 143esina parte della sua ricchezza nazionale. Le risorse del mondo rimangono per lo più concentrate nei Paesi ricchi, così che un miliardo e 400 milioni di persone non dispongono neppure di due dollari al giorno. Gli abitanti dei Paesi dell’Africa subsahariana hanno scandalosamente appena un trentesimo o un quarantesimo del reddito medio di quelli dell’Europa e del Nord America.
In un contesto così squilibrato è impossibile arrestare i flussi migratori, che sono una valvola di sfogo indispensabile anche se non l’unico rimedio al mancato sviluppo. Questo spiega l’esistenza nel mondo di 191 milioni di immigrati, di cui 20 milioni richiedenti asilo o rifugiati, ai quali si aggiungono 30-40 milioni in situazione irregolare.
Immigrazione è futuro: i Paesi ricchi, intenti a lamentarsi dell’immigrazione, non riflettono sui benefici che attualmente ne ricavano e ai problemi nei quali incorrerebbero in sua assenza.
L’Unione Europea a metà secolo perderebbe 58 milioni di abitanti se, nel frattempo, non entrassero nuovi cittadini.
Tra 50 anni il calo più consistente di popolazione (almeno 5 milioni di persone) avverrà in Italia. Non bisogna aspettare la metà del secolo per constatare gli effetti negativi di questo andamento.
Già da diversi anni i decessi prevalgono sui nuovi nati, ma il livello della popolazione non diminuisce grazie all’immigrazione. I minori figli di cittadini stranieri sono complessivamente 486.000 e di essi il 56% è nato in Italia: nel 2005 i nuovi nati stranieri sono stati 52.000, un decimo del totale delle nascite. In media, il numero di figli per donna straniera (2,4) è doppio dispetto a quello delle donne italiane. La popolazione straniera è concentrata per il 70% nella fascia d’età 15-44 anni (mentre solo il 47,5% degli italiani si colloca in quella fascia).
A lungo andare si faranno sentire maggiormente gli effeti di questo andamento demografico negativo. Entro 15 anni i giovani lavoratori fino ai 44 anni diminuiranno di 4,5 milioni di unità: è come se ne mancassero 300.000 l’anno. A metà secolo gli effetti saranno ancora più vistosi e la popolazione attiva scenderà: gli ultrasessantacinquenni raddoppieranno quasi l’incidenza, arrivando al 35%, mentre, se ora 2 su 3 sono lavoratori attivi, a metà secolo lo sarà solo 1 su 2 residenti (riduzione della popolazione attiva dal 67% al 54%).
Ecco perché il mercato del lavoro ha bisogno di forza lavoro aggiuntiva. I lavoratori nati all’estero incidono per il 10% sui lavoratori dipendenti occupati e ogni anno si inseriscono nel mercato poco meno di 200.000 nuove leve. Essi influiscono per il 16% sulle assunzioni annuali, con una grande concentrazione nei settori per i quali è più difficile trovare manodopera italiana, perché si tratta di occupazioni ad alto livello di precarietà: collaborazione familiare, servizi di pulizia, edilizia e agricoltura. per questo motivo, annualmente, all’incirca 1 immigrato su 2 è costretto a cambiare e a rinnovare il contratto, con un tasso di precarietà doppo rispetto agli italiani. L’immigrazione opera, di fatto, come una sorta di ammortizzatore sociale a beneficio degli italiani.
E’ anche molto significativo che 131mila immigrati (dato della ricerca Cna-Dossier basato sulla effettiva cittadinanza) abbiano costituito un’azienda propria, con un ritmo d’aumento che ha dello straordinario (nell’ultimo anno +39%) e un dinamismo che lascia ben sperare. L’incidenza del lavoro autonomo sul totale dei permessi è più alta in alcuni contesti territoriali (12-13% a Prato e Firenze e 10% nella Toscana) e per alcuni gruppi nazionali (Senegal 19%, Egitto e Algeria 11%).
Il terzo slogan segnala quanto avverrà in seguito e si può già riscontrare in alcuni contesti, che possiamo definire anticipatori di quello che ci aspetta. Sono numerosi gli esempi sui quali riflettere affinché il futuro non ci trovi impreparati.
Tra dieci anni si prevede una popolazione immigrata di 6 milioni di unità, con una incidenza del 10% sulla popolazione, un livello già attualmente raggiunto in diverse province con valori tra l’8% e il 10%: Prato 12,6%, Brescia 10,2%, Roma 9,5%, Pordenone 9,4%, Reggio Emilia 9,3%, Treviso 8,9%, Firenze 8,7%, Modena 8,6% Macerata e Trieste 8,1%.
Tra 20 o 30 anni verrà raggiunta e forse oltrepassata l’incidenza del 16%, quella che attualmente caratterizza il Canada. Questo valore è ampiamente superato nel I Municipio di Roma, un territorio con più di 120.000 abitanti. A Brescia, area a forte presenza asiatica, gli immigrati incidono oggi per il 13%, ma superano un terzo degli abitanti del quartiere del Carmine, e costituiscono un terzo degli operai dell’intera provincia.
Sono centinaia di migliaia le persone che si trovano in disagio abitativo e ciò viene confermato anche dalla diffidenza tra soggiornanti e residenti, per cui almeno 250.000 si trovano in questa situazione critica. A questo riguardo è positivo che 14 leggi regionali sull’immigrazione abbiano menzionato il problema della casa, mentre non lo è il fatto che solo 4 di esse abbiano dato luogo concretamente a politiche abitative.
Anche per quanto riguarda la frequenza scolastica dei figli degli immigrati alcune regioni e alcune province sono anticipatrici del futuro con un’incidenza notevolmente più alta: dalla media del 4,8% si arriva all’8-9% in Umbria, Lombardia, Veneto, Marche e al 12% a Mantova, Piacenza e Reggio Emilia, mentre in alcuni piccoli paesi del centro-nord l’incidenza supera anche il 50% degli iscritti. Si impone, così, la necessità dell’insegnamento interculturale nella scuola, naturalmente con la dotazione di risorse adeguata. Ma ciò non è ancora sufficiente. Si deve andare oltre e riflettere sull’andamento del settore pubblico a questa nuova utenza multinazionale e multiculturale. Finora le strutture pubbliche rimangono un’esclusiva per gli italiani e il diritto a partecipare ai concorsi per i relativi posti è stato sancito solo da una legge regionale del Friuli Venezia Giulia.
L’insediamento abitativo si sta espandendo al di fuori dei capoluoghi, perché nei Comuni della cintura gli alloggi risultano maggiormente disponibili ed economici. Nel 2005 nella provincia di Roma i cittadini stranieri hanno comprato 12.000 case, mentre in quella di Milano ne hanno acquistate 9.900 (le province di Roma e Milano sono le due capitali dell’immigrazione, ormai allo stesso livello, ciascuna con l’11% del totale degli immigrati). La maggiore disperzione territoriale impone di proporre modelli di convivenza che siano validi in contesti più ristretti rispetto a quelli urbani.
Rilevante sotto l’aspetto economico è la quota che rappresentano gli immigrati nel mercato del consumo. Si possono citare le banche, le aziende automobilistiche, quelle elettroniche, le industrie alimentari, le scuole guida, il settore immobiliare tanto per gli acquisti (116.000 nuovi proprietari nel 2006) che per gli affitti. L’elenco può ampliarsi e attesta, anche sotto questo aspetto, l’impatto dinamico della popolazione immigrata.
Le retribuzioni pagate di fatto agli immigrati sono mediamente pari alla metà di quelle degli italiani e questo a causa del loro impiego discontinuo e del mancato pagamento dei contributi. Per queste ragioni gli immigrati, alla fine della carriera lavorativa, sono destinati a diventare i nuovi poveri del nostro Paese, divenendo tutt’al più titolari di pensioni integrate al minimo e presentando quindi il bisogno di un maggiore sostegno. Il problema si pone anche a livello più ampio: “La migrazione: un viaggio verso la povertà?”, così Caritas Europa ha intitolato un suo recente rapporto. Un futuro meno problematico si può preparare, contrastando il lavoro nero e assecondando il molteplice bisogno di tutela degli immigrati, evidenziato anche dall’accentuata partecipazione sindacale (più di mezzo milione di cittadini stranieri e oltre il 10% degli iscritti).
In diverse province del Nord, quali Bologna, Verona, Firenze, Padova, l’incidenza dei cittadini stranieri sulle denunce supera il 40%: senz’altro, in quei contesti, è rimasto inceppato qualche meccanismo nel processo di inserimento. Questo è un interrogativo doveroso, che deve essere posto senza la paura di avallare la tesi preconcetta di chi equipara immigrazione e delinquenza, non considerando che, se si confrontano i diversi archivi statistici (Istat e ministero dell’Interno), gli stranieri regolari, quelli della porta accanto per intenderci, hanno un tasso di devianza dimezzato rispetto agli italiani.
Per gestire l’immigrazione, alla luce di un pacato ragionamento sui dati statistici, alcune linee di intervento sembrano necessarie. Bisogna, pertanto:
- favorire la convivenza tra popoli e culture diverse, specialmente nel nostro Paese dove gli immigrati provengono da tutte le parti del mondo, ponendo maggiore impegno nell’evitare i comportamenti discriminatori (l’Unar ha registrato 867 casi di discriminazione, specialmente a svantaggio degli africani);
- favorire la convivenza tra fedeli di religioni differenti, non solo cristiani (1 milione e mezzo) e musulmani (1 milione) ma anche di altre religioni; in particolare un atteggiamento di apertura deve sostiuire la paura di un’invasione islamica (peraltro statisticamente non giustificata), con un discorso molto chiaro sui diritti e doveri che in una società laica riguardano tutte le confessioni religiose;
- favorire la partecipazione dei cittadini stranieri, perché la diversa cittadinanza non fa venire meno la dignità individuale e l’esigenza di una partecipazione alla vita sociale della collettività d’accoglienza, partecipazione finora parzialmente soddisfatta con organismi consultivi.
Senza entrare nel merito di aspetti specifici, tra i quali spicca quello dei richiedenti asilo, l’analisi dei dati statistici porta poi a ritenere che la riuscita della politica migratoria porta all’attenzione diverse urgenze:
- tra i cittadini italiani urge sempre più uno sguardo a ciò che ci attende nel prossimo futuro, senza lamentarci di un fenomeno che è un’opportunità piuttosto che un problema;
- tra i politici urge una maggiore sensibilità sociale, che porti a superare gli interessi di contrapposizione tra partiti e schieramenti e che, “al di là dell’alternanza”, porti a maturare un’idea più approfondita delle attuali carenze della politica migratoria e delle possibili soluzioni;
- a livello finanziario urge una maggiore allocazione di risorse per l’accoglienza e l’inserimento dei nuovi venuti (ancora siamo lontani dal livello del 2004, quando si stanziò 1 miliardo di euro);
- a livello dell’Unione Europea urge il superamento di un atteggiamento tormentato e diffidente, che non solo è poco conforme alla storia di esodo del continente europeo ma è anche scarsamente concludente nei confronti del fenomeno migratorio attuale.
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