Descrivendo la sua esperienza di volontario
in un Centro di Accoglienza per clandestini,
lo scrittore Claudio Camarca ricorda
che “chi parte non è mai contento”, e indica
una soluzione in autentici aiuti ai Paesi
di origine dei migranti
Claudio Camarca è uno scrittore estremamente interessante, un uomo con molti interessi (è anche regista cinematografico), e sono proprio questi interessi che lo portano ad approfondire gli argomenti che tratta nei suoi libri, anche se sono solo sfiorati perché parte di un contesto più ampio. Nel nome di Dio (Kowalski editore, marzo 2006 – pp. 426, 16 euro) è un romanzo incalzante la cui storia si svolge nel giro di 24 ore. Roma, la vigilia delle elezioni politiche. Nelle scuole sono ospitati i seggi, i militari vigilano intorno al perimetro degli edifici. Un kosovaro, appena uscito da un centro di permanenza temporanea, ha tempo cinque giorni per abbandonare l’Italia. Si chiude in una pensione, prega e attende. Cosa o chi aspetta? Una coppia di poliziotti indaga su un omicidio riconducibile all’ambiente degli spacciatori di droga. Poi un altro omicidio. L’ispettore, Faddi, segue il suo intuito, non si ferma neanche quando tentano di togliergli il caso perché non più di competenza di un commissariato di periferia. Faddi è un uomo intuitivo, di poche parole e poco dotato di diplomazia. A questo suo difetto supplisce il collega.
24 ore raccontate in 426 pagine. Eppure non troviamo una descrizione di troppo, una parola in eccesso. Lo stile dello scrittore è asciutto, movimentato dalle scene che si alternano nel perfetto stile di un thriller, descritte da un punto di vista che sembra essere l’occhio di una telecamera. Scrittura da cui si percepisce l’urgenza del racconto, ma anche la capacità di introdurre il lettore dentro le sensazioni dei protagonisti, con ricchezza di descrizioni dei sentimenti.
Proprio la competenza con la quale Camarca descrive la vita all’interno di un centro di permanenza temporanea ha dato l’idea di conoscere più a fondo queste strutture.
I tuoi libri, alcuni romanzi, altri saggi, spaziano attraverso temi di grande attualità, ma di cui si parla sempre troppo poco. Ti sei occupato di pedopornografia, di clandestini che entrano nel nostro Paese, ma anche di bambini con gravi malformazioni facciali che vengono operati da associazioni di medici volontari. Tutto quello che descrivi l’hai approfondito in prima persona. Cosa ti muove, la curiosità, l’indignazione?
Il fine ultimo dell’uomo è rendersi indegno della morte. Tento di fare mia questa frase di Paolo Milano. Semplicemente. Oltre a questo, credo che un narratore debba conoscere necessariamente la materia di cui scrive. Debba farla sua. Per onestà nei confronti del potenziale lettore. Per un afflato etico riguardo alla letteratura. Nessuno viene costretto a scrivere una storia. E’ una scelta. Imprescindibilmente, una scelta etica. In cosa mai ci differenzieremmo dalle bestie, se non avessimo spinte ideali, passioni del cuore, desiderio di uscire a riveder le stelle.
Il tuo ultimo romanzo è un thriller, una storia che occupa lo spazio di 24 ore. Ci vuoi parlare della tua scrittura, da una parte essenziale e dall’altra ricca di sensazioni emotive?
Cerco di raggiungere il nocciolo duro, il centro della narrazione. Niente orpelli, superlativi, ridondanze. La così detta bella scrittura mi sembra molto vicina alle lingue morte. A un modo di rappresentare il mondo attraverso la grammatica e la sintassi, invece di affondare le mani nelle carni e strapparne le viscere. Una vecchia lezione di Henry Miller e di Hemingway, ripresa poi dal Capote di A Sangue Freddo e da Norman Mailer, fino a risalire lungo una schiera di narratori decisi a illuminare i coni d’ombra, i sottoscala, i liquami fognari. Ecco, la prosa idealmente poetica è quanto di più stridente ci possa essere per illustrare la vita che ci corre a fianco. E’ un modo per tradire, per non rispettare quello che si vede, che viene incontro. L’altro che si presenta senza bussare e si impone alla nostra attenzione. L’arte, il bello, la poetica è nel non detto. Nell’intangibile. Negli spazi bianchi tra le parole.
Sono due le coppie di poliziotti che troviamo in Nel nome di Dio, con ideali e metodi lavorativi differenti. Ce li descrivi?
Il poliziotto è mio fratello. Costretto sulla linea d’ombra della vita. Disteso tra la trincea da difendere e quella in cui si asserragliano i nemici. Faddi, il mio protagonista, è la figurazione del simbolo del Bene e del Male. Spezzato, schizofrenico, diviso. L’uomo moderno sospeso al centro di un bivio le cui strade portano sovente nella stessa direzione attraverso cammini opposti. Egualmente contorte. Strisce ruvide parallele e vicine. Quasi intersecate l’una nell’altra. Faddi è l’apprendista stregone del cartone animato Fantasia. Costretto a misurarsi con un mondo edificato non a misura d’uomo. Costruito su regole in divenire, non ancora catalogate, sperimentate. L’uomo che avanza testardo, sorretto da un bisogno cieco di pulizia morale a cui non sa dare nome, forse nemmeno saprebbe riconoscere; ne sente il sapore, l’atmosfera, ne vagheggia i colori e i contorni. Un uomo in gara con Dio. Nella sfida quotidiana di riconoscerlo incarnato nelle pieghe del reale. E’ sempre la vecchia storia di Sisifo, vestita di una pistola e un distintivo.
E’ sempre attuale il dibattito sui Cpta, il nuovo governo ha dichiarato di volerli aumentare, rendendo più confortevoli le strutture. Qual è la tua esperienza maturata in più di due anni come volontario all’interno di un Cpta, che hai descritto in Migranti (2003)? Pensi che costruire nuovi centri sia una soluzione al problema dell’immigrazione?
Esperienza bellissima e terribile. Uomini e donne segregati con l’accusa di essere clandestini. Un reato geografico. Messi a forza in una dimensione temporale di sospensione. Dalle Leggi internazionali, dal buon senso, dalla Legge di Dio. Incarcerati perché vittime della disoccupazione, della fame, di malattie debellate qui da noi da oltre cento anni. Gli umiliati e offesi presi a calci da un mondo che gli rotola in faccia a velocità doppia. Chi parte non è mai contento. Lascia le radici e i ricordi che rammemora guardando dalla finestra di casa. Diventa un apolide. Senza diritti, privo della dignità della persona umana. Schiavo delle mafie e delle microcriminalità. Braccia per lo spaccio minuto, gambe per i marciapiedi illuminati dal neon del lampione. Popoli interi ridotti a rango di indesiderati. Senza nome con i quali ho trascorso due anni. All’ombra degli stanzoni di un Centro di Permanenza Temporanea e Accoglienza. Nell’attesa del foglio di via. Della firma del prefetto sul permesso di soggiorno. Di uno spiraglio dentro cui passare e farsi accogliere. La soluzione non è il Cpt. Non lo è, mai lo sarà. Rappresenta il modo classico di voltare le spalle e lasciare che siano altri a doversi preoccupare. Operatori volontari e Forze dell’ordine. Quelli abituati a rimestare nel fango. In cambio di uno stipendio da barzelletta e del mutuo sulla prima casa assicurato dall’amministrazione. Non è la risposta. Solo un palliativo. Fino a quando non si faranno veri accordi transnazionali, fino a che non si delocalizzeranno le imprese fornendo salari equiparati alla media europea, fino a che non si formeranno quadri dirigenti nei Paesi di provenienza, il cammino del migrante non verrà arrestato. Esportare democrazia non significa bombardare villaggi e negare farmaci contro le pandemie. Al contrario, significa portare istruzione attraverso libri di testo concordati con le autorità locali, facilitare l’intrapresa, sorreggere i movimenti politici pluralisti e democratici. Un cammino difficile perché composito e complesso. L’unico possibile.
Il Cpt è solo un muro innalzato attorno alle speranze. Un NO stampato sulla fronte. L’emblema della inadeguatezza di una classe politica divenuta elite e arroccata su scanni troppo lontani dal bene comune.
|