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Luglio-Agosto/2006 - Interviste
Intervista a Oliviero Diliberto
“La democrazia non si esporta con le armi
di a cura di Paolo Pozzesi

L’onorevole Oliviero Diliberto, segretario
nazionale del partito dei Comunisti Italiani,
confermando il giudizio negativo sulla guerra
in Iraq, ritiene che il ritiro degli italiani deve
avvenire nei “tempi tecnicamente
necessari”. E in Afghanistan chiede che si studi
una nuova missione


Onorevole Diliberto, in Iraq spira il vento del ritiro delle forze militari della coalizione, o meglio di un loro “ridispiegamento” che serva a mantenere una qualche forma di controllo.
In questo quadro, la posizione del centrosinistra italiano, cioè il ritiro del nostro contingente da Nassiriya “con coerenza e prudenza” e “con il rispetto dei nostri impegni”, considerando il giudizio da sempre negativo su questa guerra e sulla partecipazione italiana, come deve essere letta? Si vuole risparmiare a Washington e a Londra un secondo “caso Zapatero”?
Il ritiro è nel programma dell'Unione che i cittadini hanno votato e, quindi, è un impegno che va rispettato. Sui tempi, la nostra posizione è nota: via subito, ma certamente con la prudenza necessaria a non mettere a rischio ulteriore le vite dei nostri militari. La formula di compromesso raggiunta nel programma dell'Unione è quella dei "tempi tecnicamente necessari", ossia il tempo utile per far rientrare i nostri soldati. Mi sembra che, dopo qualche prima incertezza e qualche tentennamento, il governo stia andando nella direzione giusta, ossia quella di preparare il ritiro della nostra missione. Certamente la pressione che anche noi Comunisti italiani abbiamo esercitato per il rispetto degli impegni assunti ha ottenuto questo risultato. Ovviamente vigileremo affinché sia rispettato l'impegno politico preso nei confronti di milioni di italiani che hanno chiesto una discontinuità rispetto alla politica estera del governo Berlusconi.

Milizie armate di varie fazioni, squadroni della morte (a volte nelle nuove uniformi “democratiche”), ribelli, terroristi, questa appare la situazione quotidiana irachena. Con periodici interventi, soprattutto aria-terra. Non se ne potrebbe dedurre che la presenza militare straniera, all’inizio sbagliata e dannosa, ormai sia diventata sostanzialmente inutile? O esistono altri motivi, che però nessuno espone esplicitamente?

Il nostro giudizio negativo è netto: questa è una guerra inutile e dannosa, che alimenta la spirale del terrorismo, non soltanto per la presenza del nostro contingente, ma perché si tratta di truppe di occupazione e non di pacificazione. La premessa per la pacificazione è che vada via chi ha fatto la guerra e venga una vera forza di pace composta da Paesi che non hanno partecipato all'occupazione. Sui motivi di questa guerra assurda si è discusso a lungo. Innanzitutto il controllo sulle risorse petrolifere. La presenza militare, e quella di migliaia di vigilantes occidentali armati sino ai denti, serve a difendere le rotte del petrolio, o almeno questo era ed è nelle intenzioni di chi ha pianificato la guerra. Petrolio, ma non solo petrolio. La guerra serve anche a mantenere il controllo delle rotte strategiche verso il gigante cinese dell'Asia, a fargli vedere i muscoli dell'unica grande superpotenza che fa e disfa, come ai tempi degli imperi coloniali, governi e capi di stato. Infine non dimentichiamo le esigenze del complesso militare-industriale statunitense che con la presidenza Bush ha visto una nuova stagione di lauti affari.

Il nuovo governo di Baghdad è stato salutato da Romano Prodi come una “importante premessa verso la ricostruzione di un Iraq democratico”. Visto che per il momento il raggio d’azione di quell’esecutivo è limitato alla Zona Verde della capitale, dobbiamo considerare queste parole una concreta constatazione o un semplice augurio?

Il nuovo governo di Baghdad è fragile e la strada da percorrere è lunga e difficile. Il saluto di Prodi credo vada letto come un auspicio affinché l'Iraq impari a reggersi sulle proprie gambe. La democrazia non si esporta con le armi. Quello che nasce con la forza difficilmente si regge senza forza. L'applicazione meccanica del modello occidentale in Paesi di cultura araba, per di più in seguito ad una guerra in piena regola, difficilmente può avere uno sviluppo pacifico. E infatti il governo iracheno non riesce ancora a rappresentare tutti i segmenti della popolazione così come non controlla il territorio in preda ad una vera e propria guerra civile.

Al di là delle fredde registrazioni di attentati, azioni di guerriglia, regolamenti di conti, e così via, manca del tutto un filo logico che aiuti a comprendere la realtà di quel Paese. E i giornalisti non sono certo incoraggiati ad andare a vedere che cosa accade realmente. Le ultime morti tra i nostri militari a Nassiriya fanno sorgere il dubbio che non sappiamo nemmeno che genere di poliziotti e soldati abbiamo addestrato e armato in quella regione. Non sarebbe il caso di sollecitare un’informazione più precisa, e più veritiera?

In questa guerra la verità ha pagato un prezzo altissimo. E' noto che gli Stati Uniti hanno imposto la censura su quello che avviene in Iraq, impedendo persino di fornire dati e diffondere le foto dei marines caduti, ma anche sul ruolo del contingente italiano c'è stata scarsissima informazione: ancora non sappiamo e forse non sapremo mai cosa sia realmente accaduto a Nassiryia. Ricordiamoci dei giornalisti "arruolati" al seguito della truppe, che non facevano altro che raccontare quello che vedevano, ossia il "riposo del guerriero", tenuti ben lontani dalle atrocità e dal sangue della prima linea. Ricordiamo il tentativo del governo Berlusconi di estendere l'applicazione del codice militare a chi divulga notizie "dannose" per le missioni militari.

L’Iraq, ma c’è anche l’Afghanistan, dove si pensava che fosse tutto finito, e invece sembra che tutto stia ricominciando, e con altri italiani uccisi. Certo, le due missioni sono molto diverse tra loro. Ma, anche qui, non sarebbe opportuno chiarire, senza frasi fatte e reticenze formali, i limiti del coinvolgimento dell’Isaf, la forza multinazionale della quale fanno parte i nostri militari?

E' assolutamente necessario rivedere i termini della missione in Afghanistan: il Paese non si è ancora ristabilito e continua ad essere tuttora nelle mani dei signori della guerra. Credo che si debba anche in questo caso ritirare i militari e studiare una missione completamente diversa.

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