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Luglio-Agosto/2006 - Articoli e Inchieste
Dopo il voto
Aut aut per l'Italia
di Alberto Madricardo

E’ un compito titanico quello che la politica
deve compiere: non solo risanare, bonificare,
bene amministrare, ma anche realizzare
l’utopia concreta di portare il nostro Paese
da protagonista nell’età dell’economia
della conoscenza


E’ bene meditare ogni tanto sui “massimi sistemi”: senza un po’ di pensiero sulle cose ultime non si pensano bene neanche quelle “penultime”. Senza una stella polare si naviga a caso. Se non si ha un metro di riferimento, si rischia di scambiare un granello di sabbia per una montagna e una montagna per un granello di sabbia.
Se guardiamo la situazione dell’Italia di oggi con la lente dei grandi eventi epocali che riguardano il mondo, forse capiamo qualcosa di più.
Partiamo – come si dice - dal principio. Il ventunesimo secolo si apre con la fine dei grandi progetti collettivi. Le grandi narrazioni del Novecento (l’ideologia del progresso, delle leopardiane “magnifiche sorti e progressive”, quella opposta e speculare della rivoluzione) sono tramontati. Anche quella della tradizione, dei miti romantici che idealizzavano il Medio Evo e la “Cristianità”; di quelli romani del fascismo, o barbarici del nazismo, che esaltavano il sangue e la razza, di quelli etnici (in nome dei quali pure sono state scatenate la guerra e le pulizie etniche nella ex Jugoslavia durante gli anni novanta), se pure non sono del tutto sopiti, sembrano tuttavia non avere la grande forza di attrazione di un tempo. Possono essere ancora virulenti, ma sono sostanzialmente residuali.
Gli attuali aspiranti crociati non assomigliano affatto a quelli medievali descritti da Hegel, che anelavano a giungere al sepolcro di Cristo per cogliervi la traccia sensibile del divino. Hanno ben altri interessi. Usano la religione quale mito postmoderno, per compattare e tenere sotto controllo le masse. Sono per lo più – come qualcuno li ha definiti – “atei clericali”. Il Cristianesimo, dopo duemila anni deve fare i conti con il prolungato “silenzio di dio”, con l’apparente immodificabilità della natura umana, del suo restare irrimediabilmente aggrappata al male e refrattaria alla redenzione. Già circa un secolo e mezzo fa Sören Kierkegaard, il più cristiano dei filosofi moderni, decretava il fallimento del Cristianesimo.
Miti del futuro e miti del passato se ne vanno, lasciano il presente da solo a sopportare tutto il proprio peso.
E presente vuol dire globalizzazione: una macchina che va avanti da sola, che macina, trasforma, sradica, frantuma storie, tradizioni, comunità, assetti sociali, senza arrestarsi davanti a nulla.
Chi ha percorso il tragitto della storia – le nazioni opulente – dopo avere messa in moto questa macchina vorrebbero forse fermarsi, guardarsi intorno, ma i popoli che nella storia non sono ancora entrati o che – dopo esserci stati un tempo – ne erano usciti, fanno ressa spingendo alle loro spalle. Pretendono con l’impazienza dei ritardatari di conquistarsi un loro posto nel “benessere”, anche a gomitate. Benessere che poi vuol dire sostanzialmente questo: disporre delle comodità offerte dalla tecnica, avere un lavoro che non sia da schiavi, avere una casa decente, disporre di un po’ di tempo libero da dedicare agli hobbies, per fare qualche vacanza e andare a vedere il mondo. O, come dice T. W. Adorno per “essere e nient’altro, senza altra realizzazione e determinazione”. Insomma avere la libertà di crearsi autonomamente un proprio progetto individuale di vita, attuare l’ideale della “freedom”, della libertà individuale posta al di sopra di ogni altra cosa che si realizza nell’atto di consumare beni scelti secondo il proprio gusto. Come osserva Bauman: “Il desiderio di autoaffermazione è stato espulso dall’ambito della produzione materiale. Al contrario, uno spazio sempre più ampio è stato aperto nella frontiera del mondo consumistico, una frontiera in rapida espansione e all’apparenza senza limiti” (“La libertà” 2002).
Tutta la vita si situa entro il ciclo continuo di lavoro – consumo. Il tempo del lavoro è dannato, quello del consumo è sempre più individualizzato, evasivo. Il lavoro è il patto col diavolo che è necessario mantenere per godere dell’evasione nel paradiso del consumo. L’unica cosa di cui deve preoccuparsi è di avere il denaro necessario per comprare ciò che desidera consumare in una accelerazione vertiginosa e continua.
L’individuo si sente come entrato in una dinamica obbligata da cui non può più uscire. Nell’accelerazione il suo presente si dilata fino al parossismo, raggiungendo il culmine e il suo limite nello stordimento o nell’estasi solitaria nei luoghi che dovrebbero essere della socializzazione e invece sono quelli in cui l’individuo può dimettersi momentaneamente da se stesso: nella discoteca, al concerto rock o allo stadio.
Se il collettivismo ideologico si è rivelato un cul de sac, una camicia di forza per la società, l’individualismo ideologico che, come contraccolpo, ne è derivato, sembra anch’esso non essere in grado di dare risposte ai problemi del nuovo secolo. Se il primo nasceva da una scarsa conoscenza delle effettive dinamiche sociali, il secondo, “per contrappasso”, appare essere altrettanto inconsapevole e disarmato nei confronti delle dinamiche non meno complesse della individualità.
Che cosa sia per se stesso l’individuo è il più grande degli enigmi, come ben sapevano i Greci che sintetizzavano nel motto “conosci te stesso” il compito che consideravano più arduo nella vita.
Sul piano personale l’individualismo sfrenato può trasformarsi in un incubo per chi lo vive. La persona che idolatra se stessa facilmente si chiude nel suo castello e finisce per essere incapace di socializzazione, tende a vedere gli altri come nemici, la società come minaccia. Ritirandosi sempre più entro la propria casa, la propria famiglia, i propri interessi - poiché la vita è in se stessa un fenomeno metamorfico - il confortevole castello fortificato in cui vive si trasforma in una prigione.
Vi è nei confronti della individualità una ingenua superficialità forse ancora più grande che nei confronti della società. Non è molta diffusa la consapevolezza che stare con se stessi è più difficile che stare con gli altri, per quanto tutti lo possano constatare per esperienza diretta. Si attribuisce invece agli altri la responsabilità della propria insoddisfazione e, per non prendersela con se stessi, si fa crescere nell’animo la diffidenza e il rancore verso tutto ciò che è “degli altri”, comune e pubblico. Oppure ci si rifugia in forme di socialità enfatiche ed esaltate, quali ad esempio quelle offerte dalle sette religiose.
Se sul piano personale l’individualismo rozzo può produrre depressione e infelicità, su quello economico si rivela una scorciatoia illusoria. La scarsa responsabilità sociale ed ambientale, l’insofferenza diffusa per le regole, può produrre effetti di imbarbarimento generale in qualsiasi società.
L’effetto della dissoluzione delle comunità contadine e delle migrazioni nelle megalopoli ingovernabili del terzo mondo, in cui non è ancora offerto a tutti la possibilità di organizzare la vita entro lo schema duale del lavoro – consumo, è la diffusione su larga scala dell’individualismo deviante e criminale. Se libertà e consumo sono la stessa cosa, per conquistarsi la libertà bisogna consumare, ad ogni costo. La posta in gioco non è procurarsi qualcosa per sopravvivere, ma la realizzazione della propria essenza umana nella libertà identificata con il consumo.
La maggior parte dell’umanità è ancora molto lontana dal raggiungere la “libertà di consumare”, ma questo ideale agisce come potente attrattore a livello planetario. L’individualismo che è diventato motore del mondo è qualcosa di molto diverso da ciò che era alle sue origini. Edonista e inconsapevole, non ha memoria né prospettiva, contrappone individuo a società, libertà a legge. Sembra l’opposto dell’individualismo protestante da cui pure deriva. Spinge gli uomini fuori dal torpore della loro condizione naturale ma rischia di produrre effetti devastanti e incontrollabili sul piano ambientale, economico, sociale, politico. Non nasce da un atto creativo, da un passo in avanti dell’umanità oltre “l’età ideologica”. Appare piuttosto l’espressione di un’ideologia declinante, impoverita e residuale.
L’Italia, da questo punto di vista, è un esempio emblematico. Ha declinato la ondata individualista seguita al fallimento del collettivismo su scala planetaria secondo le sue caratteristiche, la sua mentalità e la sua storia. Alla fine della “prima repubblica” il nuovo individualismo ha fatto irruzione nella società italiana e la ha pervasa. Si è fatto movimento e programma antipolitico e populista, occupando la destra, subordinandone quasi totalmente i partiti tradizionali. Non è sempre ovunque così nel mondo, ci sono in America latina anche esempi di populismo di sinistra.
In ogni caso suoi caratteri peculiari sono il culto del capo carismatico, l’insofferenza dichiarata per le regole sociali stabilite, l’uso potente dei mezzi di comunicazione di massa.
Dopo cinque anni una destra egemonizzata dal populismo ha dovuto lasciare il potere perché i suoi risultati di governo non sono stati giudicati soddisfacenti dalla maggioranza dell’elettorato. Il Paese ha perduto competitività e quote importanti del commercio mondiale; l’evasione fiscale non è stata combattuta, anzi addirittura ufficiosamente “tollerata”, si è lasciato che il debito pubblico riprendesse la deriva di una nuova crescita; si è precarizzata senza freni la mano d’opera, si è devastato l’ambiente, si sono depressi i consumi, lasciando nell’incertezza del loro futuro le giovani generazioni, si sono aumentate le disuguaglianze, si è ridotto il reddito di intere categorie e gruppi sociali (per fare un esempio: la spesa al dettaglio è diminuita del 3,5% nel 2005 in Italia, mentre le vendite nel settore alimentare sono scese dell’11% nel Meridione. Gallino “Italia in frantumi”, 2006), si è attuata una concezione privatistica della politica e della giustizia che le delegittima e snatura la loro essenza, ecc. ecc.
Alla fine abbiamo davanti un Paese stremato, confuso, dove la corruzione è più che mai estesa. Anche quando finalmente riprende a crescere, dopo cinque anni di stagnazione, sull’onda della ripresa europea, va ad una velocità che è valuta meno della metà di quella, già non esaltante, della media di suoi partner europei.
L’individualismo populista,alla luce dei fatti, nel mondo come in Italia sta mostrando di essere una via “troppo facile”, incapace di dare risposte ai problemi epocali quali quello della povertà e dell’aumento vertiginoso delle disuguaglianze, del degrado dell’ambiente, ecc. E pour cause – come si dice – giacché purtroppo le vie giuste raramente sono quelle più facili.
In Italia ha dimostrato di non saper portare il Paese nel secolo XXI. Il pallino è allora tornato alla politica. Ma è in grado la politica italiana di essere all’altezza dei suoi compiti? La politica in Italia è oggi logorata, per non aver saputo ancora compiere la transizione postideologica. In assenza di una sua rinascita il populismo “postdemocratico” potrebbe però tornare ad essere attraente per una maggioranza sfiduciata e rassegnata al declino.
La crisi italiana è da quasi un ventennio prima di tutto crisi della politica, di una politica divenuta incapace di progettare e di realizzare, cioè di connettere positivamente presente e futuro.
Il futuro, nell’età dell’ideologia, era sentito come alternativa e discontinuità radicale con il presente: paradiso o utopia. La sfida – non solo da noi, in Italia – è di fare entrare finalmente la politica nell’età postideologica ricreando in modo diverso la viva tensione ideale tra presente e futuro, pensando il loro rapporto non più nei termini di discontinuità – come era nell’epoca dell’ideologia – non della pura e semplice presentificazione parossistica per cui il futuro è diventato una pura espansione del presente – come è oggi - ma di loro continuità.
Decomprimere il nesso ripetitivo lavoro – consumo, fare emergere in esso un’area di attività che risulti dall’abbattimento della barriera tra la logica del lavoro e quella del tempo libero, della produzione e della libera creazione; riscattare il tempo di lavoro dalla sua opprimente finalizzazione e quello libero dalla sua autoreferenzialità: tutto ciò vuol dire promuovere la ricerca. La ricerca non ristretta ad èlite, ma come attività sociale propulsiva estesa a tutti i livelli dell’organizzazione sociale e produttiva, capace di disegnare una nuova identità per la società. Sulla ricerca non solo come mezzo, ma anche come fine, come valore che conferisce valore, senso e alla vita umana.
In ogni epoca vi è stata una attività considerata preminente, intorno alla quale tutte le relazioni sociali si sono organizzate, che ha modulato la mentalità ed ispirato le idealità del tempo. Nel Medioevo era la guerra, dal Cinquecento al Settecento il commercio, nell’Ottocento e nel Novecento l’industria.
Nel mondo globalizzato l’attività preminente è quella della ricerca. E’ qualcosa che fonde lavoro e tempo libero, ripetizione ed evasione. La ricerca richiede una “scolè” (come lo chiamavano i Greci, da cui la nostra “scuola”) cioè un tempo libero di lavoro, che non si perde nel vicolo cieco del puro godimento individuale, nel quale non ci si limita a “giacere sull’acqua e guardare tranquillamente il cielo”(F.Riva “Idoli della felicità” 2006) ma che ritorna anche utile, nella socializzazione, per rinnovarla e riplasmarla continuamente.
La ricerca, il suo metodo, la sua etica dovrebbero ispirare l’identità delle comunità e le pratiche sociali. Il suo risultato, la conoscenza, è l’oro del secolo XXI.
Cerco di supportare questa affermazione con alcune considerazioni di fatto:
1) la esistenza dell’uomo ha varcato da tempo i limiti concessi dalla natura alla sua riproduzione spontanea: non potremmo sopravvivere in otto miliardi sulla Terra se le nostre società fossero organizzate come nel paleolitico. In un certo senso ci troviamo in una situazione simile a quella di un acrobata sul filo: non possiamo stare fermi, se non vogliamo cadere dobbiamo andare avanti. La ricerca, la autocorrezione, la progettazione permanente di ogni aspetto della vita e della sua compatibilità con il tutto del mondo in continua trasformazione sono perciò più che utili, vitali.
2)Il relativo soddisfacimento delle esigenze elementari di sopravvivenza degli uomini (di una parte ancora minoritaria dell’umanità, ma in rapida estensione) fa sì che la domanda di beni vada cambiando di qualità, e passi da quelli più necessari alla sopravvivenza fisica a quelli più confacenti alle esigenze della sfera emozionale, della curiosità e della fantasia, ciò che richiede crescenti capacità creative, di invenzione e di innovazione.
3)La interconnessione crescente delle relazioni mondiali rende sempre più difficile agire efficacemente in modo ripetitivo, come se ci si trovasse in un mondo perfettamente noto e privo di sorprese. Una comunità aperta al mondo deve essere notevolmente resiliente, capace cioè di reagire elasticamente alle sollecitazioni, anche improvvise e non previste, che possono provenire teoricamente – dato il grado di interconnessione - da qualsiasi punto del pianeta.
Definisco la comunità che si impernia intorno alla attività di produzione della conoscenza e di continua innovazione di sé (autopoiesi) una comunità “di alto mare”, perché si è lasciata definitivamente alle spalle la costa di partenza - lo stato di natura, l’economia naturale - senza che possa intravedere nemmeno nella più estrema lontananza un porto di arrivo. Perché deve essere consapevole di trovarsi in viaggio tra un non più e un non ancora in cui non può fermarsi, e di doversi continuamente ripensare, ricrearsi, per non perdersi.
Una comunità coesa al suo interno da questa consapevolezza, che promuove la differenziazione degli interessi, delle identità, delle vie di ricerca dei suoi membri per aumentare la propria capacità di spingersi avanti in questa incredibile avventura, perché, come sostiene G. H. Mead : “Il fatto che tutti i “Sé”siano formati nei termini o attraverso i termini del processo sociale e siano riflessi individuali di esso (…) non è minimamente incompatibile col fatto che ciascun “Sé” individuale ha la propria peculiare identità (…) questo perché ciascun “Sé” riflette sì nella sua struttura organizzata il modello di comportamento di quel processo considerato come una totalità, ma all’interno del proprio irripetibile punto di vista”.
Il modello politico postideologico di società può essere offerto da una comunità che considera l’individuo come la propria più concreta chance, nella quale questo, per parte sua, sente la socialità non come impedimento, ma come occasione per manifestare il proprio “irripetibile punto di vista”.
Possiamo continuare a sviluppare sulla Terra “l’esperimento umano” solo se siamo capaci di accrescere allo stesso tempo coesione, cooperazione, eguaglianza e diversificazione sociale. Una società che vive in contrapposizione la dimensione della socialità e quella individuale è una società malata. Una società malata non può avere con l’ambiente che un rapporto distruttivo e autodistruttivo. Ecco che il rapporto tra uomo e natura si gioca, nella sua sostanza, nel modo in cui evolve il rapporto tra uomo e uomo.
Alternativa allo sviluppo della coesione – differenziazione nel processo di trasformazione della società in “comunità di liberi ricercanti”, ad un tempo creature e creatori della “transizione”, che occupano pienamente le potenzialità del presente in quanto creano con la loro attività di ricerca il futuro e si rapportano tra loro in quanto sono costantemente impegnati nella sperimentazione, nella esplorazione di sé e del mondo, nell’invenzione, nell’innovazione, non c’è. C’è solo il cul de sac del collettivismo ideologico – già fallito - o dell’individualismo altrettanto ideologico, in via di fallimento, perché fa venire meno la connessione fluida tra individuo e società, tra privato e pubblico, tra presente e futuro senza la quale nessuna società può vivere in modo sano. Quest’ultimo residuo di ideologia spinge al fallimento le vite individuali, favorisce il degrado sociale, il declino e l’instaurarsi di un clima da “si salvi chi può”.
L’insieme degli individui atomizzati fa una società cristallizzata, chiusa nel suo presente, che non sa rimodellarsi in rapporto al futuro. Il risultato politico di ciò non è la libertà, ma il gregge, cioè ad un’organizzazione sociale conformista, irresponsabile, composta o da astuti profittatori o da vinti, fondata sulla menzogna, sul fare cose diverse da quelle che si dicono, cioè sulla “stolta ignoranza”, come la chiama Platone. Una società residuale, depressa e senza anima, che deve esser tenuta sotto controllo attraverso continue iniezioni di illusioni mediatiche, affinché si sappia come è e cosa si deve pensare del mondo, perché nessuno riesce più a vederlo, essendo ciascuno chiuso dietro l’angolo della propria individualità.
La proposta della costruzione della “comunità dei ricercanti” in funzione della economia della conoscenza riapre il dialogo tra presente e futuro, ricongiunge la realtà e la possibilità, l’esistente e l’utopico.
Ai valori etici, le pratiche, l’organizzazione sociale della ricerca stanno ispirandosi sempre più decisamente le società che sono già entrate nel nuovo scenario postideologico mondiale. In esse l’attività della ricerca opera al modo che nella società medievale l’etica e le esigenze operative della cavalleria, in quella mercantile quelle dei mercanti, plasmarono mentalità e relazioni sociali di allora.
Come il presupposto della società moderna fu che ci fosse uno “stato di natura” dell’uomo a cui ispirare le società - e dunque il punto di riferimento della civiltà doveva restare la natura - ora il nuovo presupposto è che l’uomo è nella sua essenza una creatura sperimentale, nel senso attivo e passivo del termine. Che è divenuto, da natura naturata, ovvero creatura, anche natura naturans, creatore. Sempre più anzi può restare creatura a condizione che sappia essere creatore.
La comunità politica protagonista del secolo XXI è dunque una “comunità di ricercanti”, si fonda e si organizza in base alle esigenze della ricerca, si ispira all’etica di essa, il suo prodotto è la conoscenza, promuove insieme individualità e socialità.
Se queste sono le condizioni per entrare nella nuova epoca in una posizione non marginale con questo “dover essere” dobbiamo misurare il nostro essere come Paese.
Ci troviamo oggi in Italia anni luce lontano da questa meta, che pure è necessario realizzare per essere centrali nel mondo in cui siamo già entrati. Si possono immaginare i “furbetti del quartierino”, gli imbroglioni del calcio, gli spioni delle intercettazioni illegali, i mafiosi, i sempiterni nani e ballerine che imperversano sulla nostra scena mediatica e politica, come protagonisti della ricerca e della economia della conoscenza, a realizzare la nuova utopia concreta postideologica?
Siamo il Paese che – come rilevava qualche tempo fa l’economista Marcello De Cecco - ha mantenuto i profitti di impresa più alti d’Europa a costo di perdere consistenti fette di mercato mondiale. Un Paese che, misurando il mondo sul proprio metro e non se stesso sul metro di questo, corre il rischio di uscire dal mondo. Cosa possibilissima, già accaduta - mutatis mutandis - nel Seicento, quando l’Italia, da Paese più dinamico e brillante d’Europa quale era stata ancora nella prima parte del Cinquecento, divenne una periferia depressa, interessante solo per le sue rovine, visitato da stranieri romantici che venivano a respirarne l’aria malinconica e meditare sul tempo, e insieme meta di turpe turismo sessuale - una sorta di Tailandia ante litteram in Europa - che dovette impiegare poi due secoli per recuperare (quasi) la distanza con gli altri Paesi del continente.
Allora ad addormentare le coscienze - mentre prevalevano i più miopi egoismi economici - fu l’esibizione di una religiosità spettacolare, tanto ricca esteriormente quanto interiormente povera e lasciata regredire a livelli di superstizione. Ora può essere la televisione. Lo specchio delle illusioni che svuota gli individui da dentro e li trasforma in gregge.
Anche ora il Paese rischia una “svalutazione di civiltà”, di trasformarsi cioè definitivamente in una marmellata di particolarismi di vischiosità corporative e consortili ingovernabili, miscuglio maleodorante di corruzione e di amoralità, gestito da una politica in decomposizione. Di andare fuori del mondo.
Abbiamo perduto o non utilizzato abbastanza un quindicennio. E’ molto il tempo perduto, ma forse non ancora troppo. Le grandi trasformazioni, nonostante l’accelerazione senza precedenti posta in atto dalla globalizzazione, non avvengono da un giorno all’altro.
Il bandolo della matassa è stato riaffidato dai cittadini che lo hanno tolto “all’antipolitica” nelle mani della politica. Non dico, di proposito, che lo ha passato dalla destra alla sinistra, perché lo scontro tra politica e antipolitica precede e sussume quello politico tra destra e sinistra. Anche all’inizio degli anni venti ci fu uno scontro in Italia tra politica ed antipolitica. Una parte della politica ufficiale si subordinò o divenne connivente con l’antipolitica sovversiva mussoliniana, pensando di usarla temporaneamente per “portare ordine”. L’esito fu il ventennio fascista e la catastrofe della seconda guerra mondiale.
Il populismo antipolitico di oggi, ispirato come è ad un rozzo individualismo ideologico, ancorché pericoloso per la democrazia è per ragioni culturali anni luce lontano dall’esigenza e dalla capacità di creare nel nostro Paese i presupposti per la sua transizione nella economia mondiale della conoscenza: perché pensa secondo uno schema obsoleto, che oppone lavoro a tempo libero, ricchezza a moralità, individualità a socialità, incompatibile con la promozione della ricerca e l’economia della conoscenza. Non potrebbe che preparare e gestire, nel caso ritornasse al potere, la fuoriuscita definitiva dell’Italia dal nucleo di Paesi centrali nel mondo, il declino, o meglio, la sua decadenza.
Una sinistra che non rappresenta solo se stessa, ma “la politica” in quanto tale, ha vinto. Per il momento. Vincendo, ha aperto anche uno spazio per una possibile futura ripresa di una destra liberata dalla ipoteca populista e “risanata”. Ma dovrà dimostrare di saper mettere a frutto la vittoria.
La fiducia è stata data non incondizionatamente. Non siamo più nell’epoca - che si è chiusa all’inizio degli anni novanta - in cui la legittimazione della politica era fondata su una sorta di “diritto ideologico” analogo per certi versi al “diritto divino” che legittimava le monarchie di un tempo.
La fiducia è pro tempore, finalizzata a fare entrare il Paese nel secolo XXI. Se questo non dovesse accadere, se la politica dovesse fallire allora il Paese fatalmente si organizzerebbe per il naufragio e il “si salvi chi può”, cadendo definitivamente – per disperazione – nelle braccia dell’antipolitica.
Il quadro è chiaro, ma la via è stretta. Molto stretta. La politica italiana per fare entrare il Paese nell’economia della conoscenza deve imparare rapidamente, molto rapidamente, ad essere qualcosa di ben diverso da quello che è stata ed ancora è. Il tempo a disposizione è poco, forse pochissimo: lungo qualche decina di migliaia di voti.
E’ un compito titanico quello che la politica italiana deve compiere per tornare a legittimarsi. Richiede non solo di risanare, bonificare, bene amministrare, ma di realizzare l’utopia concreta di portare l’Italia da protagonista nel mondo nell’età dell’economia della conoscenza.
Non si deve credere ai “banalizzatori”, a coloro che dicono che in fondo tutto è normale, va come è sempre è andato e non c’è niente di nuovo, di drammatico sotto il sole. Al contrario, come accade a volte nella storia, di drammatico qualcosa c’è: è il solenne aut – aut che abbiamo davanti, la scelta rispetto al quale potrà avere conseguenze profonde e forse irreversibili sul destino del nostro Paese. Rendercene conto, comportarci in conseguenza è un obbligo per tutti.

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