Arresti e regolamenti
di conti hanno creato
un riassetto negli equilibri dei vertici
delle “famiglie” mafiose calabresi: sono
stati i giovani capi a chiedere
l’uccisione di Francesco Fortugno. Ma certo
non era stata prevista la reazione
coraggiosa dei giovani di Locri
C’è uno scarto molto forte tra la potenza di un’organizzazione mafiosa come la ’ndrangheta impiantata saldamente in Calabria, radicata in tutte le regioni del centro-nord, ramificata in Paesi stranieri strategici per il traffico degli stupefacenti e la percezione che di essa ne ha la gente comune fuori della Calabria attraverso giornali e mass media.
La contraddizione è ancora più evidente se si vanno a leggere gli atti ufficiali della Direzione nazionale Antimafia e della Direzione investigativa antimafia. In questi documenti inviati al Parlamento e alla Commissione Antimafia si dimostra come la ’ndrangheta abbia notevole capacità militare, come sia in grado di condizionare le attività economiche e come abbia condotto negli ultimi anni un sistematico attacco contro amministratori e forze politiche. I documenti ufficiali li leggono in pochi perché sono scritti apposta per gli addetti ai lavori.
Il governo Berlusconi, da parte sua, aveva cancellato la questione mafiosa dalla politica. Uno straniero che non conoscesse le vicende degli ultimi 10-15 anni avrebbe dell’Italia un’opinione poco esatta del nostro Paese, almeno sotto il profilo criminale.
La ’ndrangheta ha continuato ad agire indisturbata e ad apparire invisibile agli occhi dei più. Tutto ciò fino alla sera del 16 ottobre 2005 quando a Locri, dove aveva appena finito di votare per le primarie dell’Unione, è stato assassinato proprio dentro il seggio elettorale Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria. Questa uccisione ha illuminato quella realtà come non era mai accaduto in passato. Si è cominciato a parlare del ruolo della ’ndrangheta - qualcuno l’ha addirittura scoperta in questa occasione - dei suoi obiettivi e del perché essa è oggi così potente e ramificata ben al di là dei confini regionali.
L’assassinio di Fortugno pone sicuramente domante di fondo sulla ’ndrangheta: perché la mafia calabrese ha deciso di commettere oggi un omicidio che stride in modo così clamoroso con la sua storia? La ’ndrangheta, infatti, da tempo immemorabile è stata sempre molto attenta a non richiamare su di sé attenzioni non desiderate. Chi ha preso la decisione finale di armare la mano dell’assassino? E dove è stata assunta una decisione così strategicamente importante? A Locri o nei luoghi dove risiedono i capi che hanno potere di vita e di morte? Storicamente la ’ndrangheta ha agito cercando di non richiamare su di sé l’interesse degli inquirenti. E il modo migliore per ottenere questa apparente irrilevanza pubblica era quello di non carcare la soglia della tollerabilità sociale che poteva essere valicata da un numero eccessivo di morti ammazzati. Superata quella soglia, quando gli omicidi sarebbero diventati troppi, ci sarebbe stata la risposta repressiva dello Stato.
La storia della ’ndrangheta è diversa da quella di Cosa nostra. I mafiosi siciliani quando hanno potuto hanno sempre colpito in alto: nell’Ottocento hanno ammazzato Emanuele Notarbartolo, un onesto sindaco di Palermo, e poi nel nuovo secolo avevano eliminato Joe Petrosino, un poliziotto italo-americano che era venuto a Palermo sulle tracce della cosiddetta Mano nera. I mafiosi siciliani hanno avuto la stagione delle stragi, quell’insanguinato, interminabile, periodo di assalto al cuore dello Stato; i mafiosi calabresi si sono tenuti ben lontani da tutto ciò. La mafia dopo le stragi del 1992-1993 ha mutato strategia e politica criminale. Tale mutamento ha avuto l’effetto di abbassare la soglia dell’allarme sociale e di conseguenza l’attenzione generale, tanto è vero che con il passare del tempo il problema della criminalità mafiosa è andato via via scomparendo dall’attenzione dei mass media e del governo il quale era apparso interessato a mettere in pratica il suggerimento del ministro Lunardi il quale, appena insediatori nel suo delicatissimo ministero, aveva enunciato la necessità di convivere con la mafia. La storia di tutte le organizzazioni mafiose, invece, è lì a dimostrare come proprio i periodi di convivenza siano stati quelli che hanno segnato un rafforzamento delle mafie e non un loro indebolimento. Se le mafie non sono state sconfitte è proprio perché la convivenza le ha rafforzate ed ha consentito loro di agire indisturbate.
Perché allora la ’ndrangheta ha assunto una decisione così clamorosa che è diversa e contrastante con la sua storia antica e recente? Intanto, una decisione del genere non può essere stata presa a Locri. Anche se qualche recente collaboratore di giustizia ha detto che l’omicidio è stato deciso a Locri, e per ragioni di vendetta personale, è difficile credere ad una tale riduttiva versione dei fatti. Per quanto se ne sa, le logiche di politica criminale della ’ndrangheta portano in tutt’altra direzione. In quella cittadina da anni è in corso una faida tra i Cordì e i Cataldo che nessuno è riuscito a far terminare. Persino l’inviato delle potenti ’ndrine di San Luca aveva dovuto gettare la spugna davanti alla testarda ineluttabilità della faida e della logica tribale e sanguinaria che governano tutte le faide, nessuna esclusa. Il “ragionamento” che l’inviato di San Luca aveva fatto a uno dei Cordì era pieno di saggezza mafiosa. Gli aveva detto che era molto meglio non fare molti attentati contro commercianti e gente comune, perché altrimenti avrebbero perso il consenso. Con parole accorate aveva detto: “Quando il popolo vi va contro perdete quello che avete fatto in questi trenta anni”. Così aveva parlato il rappresentante del “locale” di San Luca.
Il “locale” di Locri è stato sciolto perché così impone la regola stabilita dopo la conclusione della pace del 1991 che aveva concluso la guerra sanguinosa tra le ’ndrine della città di Reggio Calabria iniziata nel lontano 1985 in seguito all’uccisione di Paolo De Stefano. Uno dei capisaldi della pace siglata era la fine di tutte le guerre fratricide. Le ’ndrine indisciplinate che non si sarebbero sottomesse a questa regola avrebbero subito pesanti conseguenze fino ad arrivare alla chiusura del locale di appartenenza.
In una situazione siffatta è altamente improbabile che una decisione così clamorosa come quella di uccidere Fortugno possa essere stata assunta da una ’ndrina di Locri. E’ più probabile che alla decisione abbia concorso un livello superiore, quello costituito proprio nel 1991 che racchiude le famiglie più influenti della ’ndrangheta reggina. E’ a quel livello che è maturata la decisione. E’ da lì che è partito l’ordine.
La decisione è stata assunta perché occorreva mandare un segnale forte al mondo politico calabrese, alla Giunta regionale, al suo presidente. L’omicidio era un chiaro messaggio alla politica a non dimenticare la potenza della ’ndrangheta con cui bisognava fare i conti e con cui bisognava scendere a patti. Era, dunque, una ragione molto forte che metteva nel conto anche la reazione da parte dello Stato. Quello che non era stato messo in conto era la risposta dei giovani di Locri. Eppure il rappresentante di San Luca aveva guardato molto lontano quando si era mostrato preoccupato del consenso. Ed infatti aveva avvertito i contendenti: “Il popolo incomincia a ribellarsi”. Quello che il messaggero dei vertici della ’ndrangheta aveva temuto, ora è diventato realtà. L’omicidio Fortugno ha fatto da detonatore e ha rotto un equilibrio. Lo si è visto con i giovani che hanno regito in modo del tutto imprevedibile. “E adesso ammazzateci tutti”. Lo slogan scritto sullo striscione dei loro cortei è diventato un grido dirompente. E’ come se si fosse rotta una diga e tutto sia precipitato a valle. I giovani di Locri hanno infranto il tabù dell’omertà. Stanno girando, questi giovani, in tutta Italia portando dappertutto la loro esperienza e il loro entusiasmo, mostrando il volto di una Calabria pulita.
L’omicidio Fortugno è un omicidio politico-mafioso di valenza strategica che conclude un’interminabile catena di attentati e minacce. Dal giugno del 2001 a prima dell’agguato mortale a Fortugno sono stati colpiti in vario modo sindaci, assessori, consiglieri comunali, provinciali, regionali, impiegati comunali, dirigenti politici e imprenditori. sono oltre 300 i casi, un numero enorme, eccezionale, che sarebbe intollerabile ovunque tranne che in Calabria, come se la Calabria dovesse piangere i suoi morti da sola ed in modo diverso da quello delle altre regioni italiane, come se quei morti in quella regione in fondo allo stivale contassero e pesassero di meno di un tabaccaio lombardo o di una pensionata veneta.
Oramai in Calabria non c’è quasi più una zona libera dalla presenza mafiosa; anche la città e la provincia di Cosenza, un tempo ritenute le più tranquille, hanno una notevole e robusta attività mafiosa. Si sono estesi - e sono diventati quasi un costume, una sorta di modus operandi - gli atti indimidatori nei confronti di tutte le componenti del mondo politico ed istituzionale. Si può dire che non ci sia più dirigente politico di qualche peso o amministratore che non abbia avuto il biglietto da visita della ’ndrina del luogo. Questo stillicidio non finisce sulle prime pagine dei giornali e dunque non è noto a livello nazionale ed è poco analizzato e studiato persino a livello regionale. Eppure, se ci si sofferma a ragionare sopra questi fatti, si scopre come essi siano la manifestazione più clamorosa della volontà della ’ndrangheta di esercitare un condizionamento ed un controllo diretto sul complesso della politica. Insisto: sul complesso, non su una parte o su un segmento della politica come accadeva in passato. Altrimenti non si spiegherebbe il numero così elevato di minacce, attentati, agguati rivolti ad esponenti di tutti gli schieramenti. La battaglia è ancora in corso perché non tutti, per fortuna, sono disposti a farsi condizionare o ad essere governati dalla ’ndrangheta.
Gli agguati mafiosi hanno colpito anche l’economia calabrese mirando a imprenditori e commercianti. Perché tanti attentati contro imprenditori e commercianti? La risposta è molto complessa. Continua a pesare il gioco del pizzo che per quanto sia diventato meno ingombrante ed oneroso rispetto al passato - dopo che tutti i mafiosi, anche i siciliani, hanno deciso di far pagare meno ma di far pagare tutti - rimane pur sempre un costo rilevante in un momento di pesante crisi economica che si avverte ancor di più in un territorio dall’apparato produttivo estremamente debole. Qualche imprenditore è colpito perché resiste a richieste di aumento del pizzo che ogni tanto viene avanzata dal mafioso. E poi probabilmente c’è qualche ritardatario nel pagamento degli interessi o qualche riottoso ad accettare l’aumento della rata del pizzo che è stato sollecitato con metodi energici a pagare il dovuto. Il dato di fondo preoccupante, anzi drammatico e devastante, è che nel silenzio più generale molte imprese ed esercizi commerciali hanno cambiato proprietario, altre hanno mantenuto l’antico proprietario che nel frattempo si è trasformato in un simulacro, essendo un altro il vero titolare dell’attività economica. In altri Comuni, invece il pizzo non si paga perché la ’ndrangheta ha il totale controllo delle attività economiche e non può certo far pagare il pizzo a sé stessa.
Nel corso degli ultimi anni si sono introdotti forzosamente dei mutamenti nella struttura di vertice delle famiglie mafiose calabresi e ciò anche perché sono stati catturati latitanti importanti, di livello apicale. Uomini come Giuseppe Morabito detto Tiradritto o Orazio De Stefano hanno concluso la loro lunga latitanza. Altri prima di loro erano stati arrestati. Sono fatti di una certa importanza. E’ un indubbio successo delle Forze dell’ordine, ma una quota delle catture è probabilmente frutto di delazioni interne di ’ndranghetisti che hanno parlato per liberarsi di avversari interni. Altri ’ndranghetisti, anch’essi capibastone, sono stati assassinati. Tutto ciò ha creato, inevitabilmente, un riassetto negli equilibri dei vertici della ’ndrangheta. C’è un cambio della guardia. I rampolli mafiosi si fanno avanti. Chi sono gli uomini che oggi sono ai vertici delle famiglie mafiose calabresi? Non lo sappiamo anche perché l’assenza di collaboratori di giustizia pone gli inquirenti nella spiacevole situazione di essere come dei ciechi, cioè senza informazione alcuna. E quanto hanno pesato, questi uomini nella decisione di uccidere Fortugno?
Saranno i prossimi mesi a darci la risposta, a dirci se c’e un cambio di strategia oppure se tutto proseguirà come prima. La cattura degli esecutori materiali, di chi ha materialmente ucciso Fortugno è un fatto straordinariamente importante anche perché è accaduto in tempi rapidi. Adesso attendiamo che vengano individuati i mandanti e scoperti i veri motivi di quella barbara esecuzione.
(tratto da “Antimafia 2000” n. 2 - 2006)
FOTO: Francesco Fortugno
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