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Luglio-Agosto/2006 - Articoli e Inchieste
Cosa nostra
Dietro i nuovi boss gli stessi poteri occulti
di Giorgio Bongiovanni e Anna Petrozzi

Dopo l’arresto
di Bernardo Provenzano,
Matteo Messina Denaro, candidato
alla successione alla testa della Cupola, sta
recuperando la rete di complicità e affari
ad alto livello gestita dallo “Zio Bino”


Probabilmente qualcuno sarebbe stato pronto a giurare che lo odiava e che avrebbe fatto l’impossibile per vendicare il suo vero unico padrino: Totò Riina. E invece il trascorrere del tempo ha portato Matteo Messina Denaro a rivalutare la figura del capo di Cosa nostra: Bernardo Provenzano. Almeno è quanto si evince da uno dei pizzini ritrovati nel covo del boss lo scorso 11 aprile inviati proprio dal giovane capo di Trapani in cui si legge tanto della sua profonda deferenza oltre che del manifesto affetto.
“In lei - scrive Denaro a Provenzano - ripongo fiducia, onestà e capacità, quello che prima era per T. T. R.” Il riferimento, chiaramente a Totò Riina, rappresenta una novità assoluta per gli studiosi dei rapporti interni ed esterni della mafia siciliana. All’indomani della cattura di Riina infatti, Cosa nostra sembrava essersi spaccata in due fazioni che vedevano il Denaro all’opposizione, tra i fautori di quella linea violenta che aprì l’offensiva diretta contro lo Stato, dapprima con le stragi Falcone e Borsellino nel 1992, e con le bombe di Firenze, Roma e Milano nel 1993, rispetto ad una linea più strategica tracciata da Provenzano. Crescendo all’interno dell’organizzazione il Denaro si deve essere reso conto che la vera mente criminale che tesseva le fila del potere mafioso era proprio lui: lo Zio Bino. Alessio, come usava firmarsi nei pizzini criptati, dai più descritto come feroce e spietato ha appreso in fretta che il comando non è di chi dà ordini, ma di chi tesse le trame e cura i rapporti. E non vi è dubbio che i fili li abbia sempre tirati Provenzano. Non si direbbe a guardare quel vecchietto in giubbottino blu e sciarpetta bianca, lo si direbbe incrociando il suo sguardo di ghiaccio. Bernardo Brusca, il vecchio capo di San Giuseppe Jato, aveva messo in guardia il figlio Giovanni nei confronti di Provenzano perché questi, diceva, ha quattro facce come “il cacio cavallo”. E con quella sua aria pacifica, con quella tecnica di temporeggiatore, così lontana dalla descrizione del suo primo mentore Luciano Liggio: “spara da Dio, ma ha un cervello da gallina”, è riuscito a traghettare Cosa nostra fuori dal pantano della repressione dura dello Stato e a rilanciarla nel futuro in equilibrio tra una diplomazia a dir poco manageriale e le vecchie abitudini.
A parlare per la prima volta del progetto di rinnovamento di Provenzano era stato Luigi Ilardo, reggente del mandamento di Caltanissetta, che lo aveva incontrato il 31 ottobre del 1995 in una masseria di Mezzojuso non lontano da dove lo hanno arrestato. L’Ilardo aveva riferito al colonnello Riccio, di cui era confidente, che il boss aveva chiesto ai suoi di portare pazienza perché nel giro di cinque, sette anni le cose si sarebbero sistemate, e così fu.
Ma come ha fatto Provenzano a regnare incontrastato dietro e davanti le quinte per due intere generazioni di Cosa nostra? Secondo i collaboratori di giustizia più importanti tra cui innanzitutto Giuffré, il boss godeva di coperture e di entrature in tutti gli ambienti di potere attigui a Cosa nostra come la massoneria deviata o i servizi segreti deviati.
Lo dimostrano purtroppo le tante stragi cui Provenzano ha partecipato direttamente e indirettamente, che bastano a sfatare il mito della mafia pacifica.
Giuffré spiega che mentre ad organizzare la strage di Capaci sarebbe stato Riina, a pianificare e a determinare l’urgenza con cui venne realizzata quella di via D’Amelio sarebbe stato invece proprio Provenzano. Di qui l’ipotesi che dietro la trattativa tra mafia e Stato condotta attraverso l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, espressione di quella rappresentanza diretta che regolava il suo rapporto con i corleonesi, ci sarebbe stato proprio il padrino. Lui, Provenzano, con i suoi uomini più fidati come Carlo Greco, Pietro Aglieri e altri, fece in modo che Paolo Borsellino, l’ostacolo tra Stato e mafia, venisse rimosso. L’ex braccio destro del padrino spiega che non si sa bene come, ma a Provenzano arrivavano sempre tutte le notizie, anche quelle più delicate e riservate. Difficile pensare che le sue talpe potessero essere solo personaggi come Ciuro, Riolo o Borzacchelli. Cancemi, altro collaboratore ex membro della cupola di Cosa nostra, racconta che un giorno, mentre passeggiava per i corridoi del Tribunale di Palermo a braccetto con l’avvocato Rosalba Di Gregorio, questa gli disse che le era stato riferito che c’era un grosso latitante corleonese in contatto con i servizi segreti: Provenzano per l’appunto. Tra tutte le stragi che hanno insanguinato Palermo, quella di via D’Amelio è sicuramente la più anomala. E non solo per le tempistiche, ma perché ancora non è stato possibile stabilire, a distanza di quattordici anni, chi ha premuto il bottone che ha innescato il detonatore. Certamente uomini d’onore, in tutta probabilità appoggiati però anche uomini di servizi cosiddetti deviati.
E non solo, secondo Giuffré, prima di procedere alla “resa dei conti” con i due magistrati nemici, Cosa nostra avrebbe avviato una sorta di sondaggio nell’entourage ad essa attiguo per testare, diciamo così, le possibili reazioni.
Provenzano quindi potrebbe aver trattato con lo Stato la fine della strategia stragista e l’agevolazione alla cattura di Riina prima, e di tutta la sua cordata dopo, in cambio di un’armistizio di pace che gli consentisse di riportare Cosa nostra alla potente, ricchissima macchina che è oggi. E sebbene qualche pizzino riveli crisi di vocazioni a diventare mafiosi doc, le notizie ci riportano alle vere ricchezze possedute dai boss del calibro di Provenzano. In un pizzino infatti “Alessio” chiede allo Zio come deve comportarsi in merito ad una tangente che il figlio di Ciancimino, Massimo non avrebbe terminato di saldare. Provenzano sembra non aver risposto sul punto mostrando una particolare cortesia nei confronti del rampollo indagato, assieme al tributarista palermitano Gianni Lapis e all’avvocato Giorgio Ghiron, per intestazione fittizia di beni nell’ambito della più vasta inchiesta per riciclaggio che sta portando i magistrati della Dda di Palermo in giro per tutta l’Europa alla ricerca del tesoro dei corleonesi: centinaia e centinaia, forse anche migliaia di milioni di euro.
Gli affari del giovane Ciancimino infatti muovono cifre assai cospicue investite in colossali business nei Paesi dell’Est, come la commercializzazione del gas attraverso la Sirco, una società di Palermo che fa capo a Lapis, entrata in Agenza 21, una società rumena leader nel settore dei rifiuti, con una quota pari a circa 20 milioni di euro. Quota che sarebbe stata ricavata dalla vendita delle società del gruppo Gas riconducibili, secondo gli inquirenti, a Ciancimino junior. Il sospetto è che si tratti del denaro che Ciancimino, da sempre uomo di fiducia legatissimo a Provenzano, abbia impiegato proprio per conto del boss.
Un legame antico che nasconde chissà dove il vero patrimonio dei corleonesi, quello accumulato con il traffico di droga e reimmesso nel circuito legale. Questa indagine parallela in corso sta preoccupando non poco certi circoli palermitani, che temono un pericolosissimo effetto domino che coinvolga tutta quella schiera di commercialisti, ingegneri, notai e uomini d’affari che costituiscono quella borghesia mafiosa di cui si è servita Cosa nostra per diventare così potente.
E’ il sistema Provenzano che sicuramente Matteo Messina Denaro ha appreso alla perfezione, visto che così come il padrino ha stabilito contatti con la massoneria deviata molto attiva nel trapanese e, secondo Giuffré, si sarebbe interessato a far transitare per le coste siciliane alcuni terroristi di al-Qaeda. Così come Provenzano, Denaro avrebbe poi coltivato e rafforzato i suoi legami oltreoceano con i cugini americani, da sempre un ponte di collegamento fondamentale per la cupola italiana.
Tutto questo rappresenta Bernardo Provenzano che lo stesso Tommaso Buscetta indicava come il personaggio in Cosa nostra davvero in contatto con entità esterne. Che prontamente Matteo Messina Denaro si è apprestato ad imitare alla lettera. Non sappiamo se sarà Denaro a prendere il posto del padrino, oppure Totuccio Lo Piccolo, altro mafioso di rango, oppure tutti e due, oppure nessuno. Di certo entrambi i boss si sono preoccupati di tutelare quel sistema di relazioni che garantisce coperture e collusioni. Le stesse che hanno protetto Provenzano e che ora proteggono i nuovi capi.
(tratto da “Antimafia 2000” n. 2 - 2006)


FOTO: Bernardo Provenzano al momento dell’arresto

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