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Luglio-Agosto/2006 - Articoli e Inchieste
Missioni Militari
In partenza da Baghdad per Kabul si cambia?
di Belphagor

Il problema non è più come andarsene dall’Iraq, ma in che modo, e se, restare in Afghanistan. Certo, si ripete fino all’estenuazione, le due missioni sono diverse, e perciò devono essere diversamente considerate.
“In Iraq la presenza militare italiana è stata una scelta politica compiuta dal governo Berlusconi: aderire alla “Coalition of the willings”, per essere solidali con l’iniziativa militare degli Stati Uniti – ha detto il ministro degli Esteri Massimo D’Alema in un’intervista a La Repubblica del 24 giugno – Non è vero che siamo andati a Nassiriya sotto l’egida dell’Onu: i nosri militari sono stati inviati prima della risoluzione 1483, che non a caso definiva “occupanti” le forze anglo-americane. Noi quella scelta non l’abbiamo condivisa, e per questo oggi ci ritiriamo. In Afghanistan invece lo scenario è completamente diverso. Noi siamo a Kabul insieme alla Nato, con l’Unione Europea, e sotto mandato delle Nazioni Unite. Tanto è vero che con i nostri soldati ci sono tutti gli altri, dagli spagnoli ai tedeschi. Cioè le truppe di quei Paesi che non hanno mandato o hanno ritirato le loro missioni dall’Iraq”.
In effetti la missione multinazionale Isaf ha svolto in Afghanistan un ruolo nei Centri di ricostruzione e nell’addestramento delle forze di polizia locali che ha permesso di dare al Paese un minimo di stabilità (e un minimo è già molto da quelle parti) e di avvio alla normalità. Una situazione che nei mesi scorsi il nostro inviato a Kabul, Leandro Abeille, ha potuto verificare e documentare. Il quadro tracciato dal ministro degli Esteri appare quindi esatto, però con un codicillo.
Nel sud dell’Afghanista, nelle regioni che confinano con il Pakistan, è in piena azione la missione militare, tutta statunitense, “Enduring freedom”, che si trova a contrastare la risorgente offensiva dei talibani. Una vera e propria guerra, con perdite da ambo le parti. Mentre in altre zone del Paese si agitano minacciosi i soliti “signori della guerra”, sempre pronti a cambiare alleati e avversari.
In un quadro obiettivamente disomogeneo, Washington – nell’intento di ridurre lo sforzo bellico americano, e di conseguenza le perdite che vanno tragicamente a sommarsi a quelle in Iraq - chiede che la Nato allarghi a sud il suo raggio d’azione, aumentando effettivi e mezzi militari. La Nato, quindi l’Isaf, quindi anche i nostri soldati.
Quello che si deve affrontare non è un referendum al quale rispondere Sì o No. Il presidente afgano Hamid Karzai, incontrando alla fine del giugno scorso il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti, ha ammesso che la sopravvivenza del suo governo è essenzialmente legata alla presenza delle truppe straniere. “Se a Kabul assistiamo a una lenta evoluzione positiva – ha detto Karzai in una conferenza stampa – quattro province del sud sono fuori controllo, e le offensive sono in aumento anche a est. I terroristi saldano le loro azioni con quelle dei talibani, e dei gruppi locali che difendono la produzione di oppio”. Il presidente non ha esitato ha indicare quale primo responsabile il Pakistan “che fiancheggia i guerriglieri, e li fa arrivare dal Waziristan”, e ha escluso responsabilità iraniane. Un bel rebus, dato che il Pakistan ufficialmente è alleato degli americani, anche se è noto che il suo servizio segreto militare, l’Isi, da sempre appoggia i talibani, e probabilmente fornisce anche sicuri rifugi a Osama bin Laden e ai suoi “fratelli”.
Allora? Allora, ricordare che l’Afghanistan è diverso dall’Iraq non è sufficiente, anche perché non è semplice dire con precisione che cosa siano oggi questi due Paesi, divenuti emblematici del nuovo modello (anche se mutuato da quello vecchio) dei conflitti del terzo millennio. Che piacciano o no, le missioni all’estero nelle situazioni di crisi sono più che necessarie, un dovere. Altrimenti, non resterebbe che chiudersi in un egoistico isolazionismo che, la storia insegna, non ha mai dato buoni risultati. Ma il problema sta nel valutare attentamente ogni missione, nel monitorarle di continuo, nel saperle adattare alle realtà locali. E nel non commettere errori, nel non trasformarle in forme più o meno larvate di “interventismo”. In definitiva, nel comprendere, e prevedere, sempre che cosa si sta facendo.
Per quanto riguarda l’Italia, il nostro impegno, le nostre responsabilità, D’Alema, nella sua intervista, ha riaffermato che “questo governo è orgoglioso delle Forze Armate, che si sono conquistate sul campo il rispetto e il riconoscimento di tutti”. E’ un fatto incontestabile, ma proprio perché disponiamo di militari capaci di unire professionalità e intelligenza, umanità e spirito di sacrificio, chi governa ha il dovere di affidare loro delle missioni che siano chiare, precise, rigorosamente studiate.

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