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Luglio-Agosto/2006 - Analisi
Savoia, videopoker (e vallette)
di Emilio Belfiore

A prima vista l’affare si è presentato piuttosto intricato. Abbiamo avuto l’incarcerazione di Vittorio Emanuele Savoia con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, reati contro la Pubblica Amministrazione e il patrimonio, sfruttamento della prostituzione e truffa, e gli arresti domiciliari di Salvo Sottile, portavoce di Gianfranco Fini, indagato per corruzione e concussione sessuale, altri arresti e incriminazioni di personaggi situati in ambienti affaristici, politici e istituzionali, con l’accompagnamento di intercettazioni telefoniche di volta in volta compromettenti, volgari, spassose, piccanti. Tutti questi eventi, messi insieme e omogeneizzati nel frullatore mediatico hanno creato nell’opinione pubblica l’impressione di un’inchiesta che si muove in uno scenario dominato dal solito vizio delle tangenti (ormai venuto a noia al cittadino banalmente onesto), e l’altro vizio (questo più stuzzicante per le fantasie italiche) improntato al principio virilmente ricattatorio “O me la dai, o scendi”, innestato tra il mondo della politica e quello variopinto della televisione.
In realtà le cose non stanno così. L’inchiesta, iniziata oltre due anni or sono dal sostituto procuratore di Potenza Henry John Woodcock, e verificata dal gip Alberto Iannuzzi, ha preso l’avvio da un giro di usura scoperto in Basilicata indagando sulla distribuzione di schede da gioco illecite per il videopoker. Da questo punto di partenza, indagando su delle società, di Potenza e di Messina, specializzate nel settore dei giochi elettronici, l’inchiesta si è estesa geograficamente fino a Campione, enclave italiana in territorio svizzero sulla riva del lago di Lugano, che ospita un famoso Casinò. Ed è venuta alla luce un’organizzazione finalizzata ad ottenere da funzionari dei Monopoli di Stato, attraverso tangenti, le autorizzazioni per distribuire i videogiochi d’azzardo.
A capo del “gruppo d’affari”, secondo l’accusa, Vittorio Emanuele, circondato da una schiera di collaboratori, soci, personaggi influenti disposti a dare una mano. Insieme al principe, tra i protagonisti dell’inchiesta figurano così il suo segretario personale Gian Nicolino Narducci, ex ambasciatore in Serbia, Rocco Migliardi, imprenditore messinese, Roberto Salmoiraghi, sindaco di Campione d’Italia ed ex amministratore delegato del Casinò, Ugo Bonazza, imprenditore, Achille De Luca, faccendiere che vanta contatti “istituzionali”, Salvo Sottile, portavoce di Gianfranco Fini quando il leader di An era vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Francesco Proietti Cosimi, detto “Checchino”, segretario di Fini sino alla sua elezione alla Camera.
Nell’istanza firmata dal gip Iannuzzi si sottolinea “come la persona dell’onorevole Gianfranco Fini non risulti direttamente coinvolta nell’inquietante vicenda in esame, nessun indizio, nessuna indicazione, anche minima, vi è in tal senso”. Secondo l’accusa, sarebbe stato Tullio Ciccolini, tramite di Migliardi, a contattare il suo amico Salvo Sottile (come appare da alcune intercettazioni telefoniche) e Francesco Proietti Cosimi, per “raggiungere” gli uffici dei Monopoli di Stato preposti alla concessione dei permessi per i videogiochi d’azzardo: “Emerge in maniera lampante – afferma l’atto di rinvio a giudizio – come proprio grazie all’intervento, lautamente retribuito, di Sottile e Proietti parta l’imput per i Monopoli di Stato”.
L’asse portante dell’inchiesta è dunque l’affare delle macchine da gioco, ed è attraverso le intercettazioni telefoniche (accompagnate da pedinamenti, ascolti ambientali, riprese fotografiche) che sono nate delle ramificazioni comportanti altre ipotesi di reato, quali lo “sfruttamento della prostituzione” e la “concussione sessuale”, i cui fascicoli sono stati trasferiti rispettivamente alle Procure di Como e di Roma.
Il fatto che gli arresti siano stati subito seguiti (come accade sempre) dalla pubblicazione sui giornali di stralci delle intercettazioni telefoniche, ha provocato sensazione, curiosità, polemiche, e anche una notevole confusione. Facendo passare quasi in sottordine i cospicui intrallazzi dei videopoker fuorilegge, e puntando i riflettori su dettagli limitrofi ma molto più pruriginosi.
E’ vero o non è vero che il portavoce dell’allora vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri ha fatto uso del suo potere di influenza per raccomandare una giovane donna come conduttrice-valletta in un programma della Rai?
E’ vero o non è vero che lo stesso portavoce ha preteso dalla giovane donna in questione prestazioni sessuali in cambio del suo interessamento?
E’ vero o non è vero che a volte la giovane donna è stata presa a domicilio, e ivi riaccompagnata, da auto del servizio ministeriale, e che uffici di Palazzo Chigi e della Farnesina sono stati trasformati in occasionali alcove?
Il portavoce nega, la giovane donna prima nega, poi ammette, con deposizione giurata e registrata, poi nega nuovamente. In fondo, un iter normale per un caso come questo, anche se punteggiato da una pesante (e registrata) dose di volgarità, e da una desolante mancanza di correttezza professionale e politica.
Un’altra ramificazione, nata anch’essa dai vivaci ed eterogenei colloqui telefonici di alcuni indagati, è l’intricata e ambigua vicenda di un centro clinico privato romano (con propaggini nel già noto Laziogate), egualmente trasferita alla competenza della Procura della Capitale.
Strettamente connesso alla struttura centrale dell’inchiesta appare invece un giro di ragazze arruola, nell’Europa dell’Est, gestito da un’accorta maitresse per attirare ricchi clienti desiderosi di abbinare al brivido del rischio del gioco d’azzardo dei piaceri garantiti da una disponibilità mercenaria.
E con questo si torna a Vittorio Emanuele Savoia, che – dopo la sua riammissione in patria tre anni or sono – sembra aver voluto dare un nuovo indirizzo alla sua decennale attività di uomo d’affari specializzato nell’export-import. Un nuovo indirizzo, con grandi prospettive. La diffusione dei videogiochi (quelle macchinette che hanno messo sul lastrico persone di ogni ceto), stando alle intercettazioni, avrebbe dovuto riguardare non solo l’Italia, ma anche la Russia, il Montenegro, e la Libia, dove Vittorio Emanuele era in rapporto con uno dei soliti figli di Gheddafi (o forse è sempre lo stesso). “Ho parlato giù, in Libia con quella gente – dice il principe a Rocco Migliardi – Tutto d’accordo. Loro sarebbero d’accordo di vederci per dare l’esclusiva totale per quel Paese. E poi non è contro la religione, lo possono fare”.
Per ora le cronache registrano le prima schermaglie da parte degli imputati. Vittorio Emanuele afferma di essere stato “usato”. Migliardi ammette di aver versato delle somme al principe. Narducci, l’ex ambasciatore segretario privato asserisce “di aver agito per nome, per conto e per devozione nei confronti del re”.
Alcuni autorevoli uomini politici, di vocazione garantista, hanno accusato i magistrati di Potenza di mettere in atto un “linciaggio”, auspicando interventi dall’alto contro di loro. Si è dissertato sui limiti e la liceità delle intercettazioni. E infine, è rispuntata quella che potremmo definire “la madre di tutte le soluzioni”: vietare alla stampa, pena l’arresto di editori e giornalisti, la loro pubblicazione.

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