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Maggio-Giugno/2006 - Articoli e Inchieste
Afghanistan/Iraq
Mentre l'Iraq scivola nel caos, bin Laden riapre il fronte afghano
di Belphagor

L’attentato mortale al convoglio italiano a Kabul
coincide con un rilancio dell’alleanza
tra al-Qaeda, i talebani, e una parte dei signori
della guerra. Ma, nonostante la somiglianza
dei sanguinosi episodi, le missioni italiane
in Afghanistan e a Nassiriya presentano
aspetti molto diversi tra loro


Il giorno prima dell’attacco del 5 maggio, nella zona sud di Kabul, ai due blindati italiani, che ha causato la morte di due alpini, il tenente Manuel Fiorito e il maresciallo Luca Polsinelli, e il ferimento di quattro loro commilitoni, c’era stato un’inquietante messaggio di uno dei più potenti, e sanguinari, signori della guerra afgani. Gulbuddin Hekmathiar, sulla scena dai tempi della guerriglia contro il regime filosovietico, poi alleato con i talebani, poi loro avversario, e infine arroccatosi nelle sue basi nel meridione del Paese, attraverso l’emittente Al Jazeera, annunciava di aver stretto un patto con al-Qaeda, ringraziando “tutti i mujaheddin arabi, in particolare lo sceicco Osama bin Laden e il dottor Ayman al-Zawairi, e anche gli altri capi che ci hanno aiutato nella Jihad contro gli occupanti”. Hekmatiar proseguiva augurandosi di “partecipare alla stessa battaglia guidati da loro, e di combattere al loro fianco”.
Lo stesso giorno, il generale Mauro Del Vecchio, trasferendo il comando dell’Isaf (la coalizione sotto mandato Onu, che comprende 9.000 uomini di 36 Paesi, alla quale appartengono i nostri militari) al generale britannico David Richards, aveva tracciato un sintetico e chiaro quadro della situazione: “Il mandato della nostra missione di peace-keeping non è destinato a cambiare, ma, in coincidenza con i piani di allargamento delle operazioni nel sud dell’Afghanistan, le regole di ingaggio e il profilo della missione potranno anche irrobustirsi”.
In effetti nel Paese si presentano due scenari, limitrofi ma distinti: l’Isaf svolge, sia pure con una prevalente presenza militare, una funzione di supporto al governo di Kharzai, e in particolare alle nuove Forze di polizia e ai piani di ricostruzione; a sud, a ridosso della frontiere con il Pakistan, le truppe americane proseguono la missione Enduring Freedom, che ha come obiettivo l’eliminazione delle formazioni talebane, e, se possibile, anche quella di Osama e dei suoi accoliti. Ora il comando Usa vorrebbe che l’Isaf estendesse verso queste regioni - dove si combatte ormai da cinque anni - la sua sfera d’azione. In questa prospettiva si inserisce la disponibilità del governo italiano, poco prima delle elezioni, ad inviare in Afghanistan sei Amx con armi a guida laser, cacciabombardieri da attacco al suolo.
Il 28 febbraio scorso, quando l’Afghanistan sembrava pressoché dimenticato da giornali e televisioni, il generale Michael Maples, direttore della Dia (Defence Intelligence Agency), il servizio segreto militare americano, trasmetteva alla Commissione Difesa del Congresso un eloquente rapporto: “La ribellione talebana resta una minaccia significativa e persistente. Tra il 2004 e il 2005 gli attacchi sono aumentati del venti per cento, e le azioni suicide si sono quadruplicate. L’uso di ordigni stradali dello stesso tipo di quelli usati in Iraq è raddoppiato. Dal 2001, la situazione non è mai stata così critica come oggi, e con l’arrivo della primavera dobbiamo attenderci una recrudescenza della violenza”.
L’8 aprile un kamikaze si era fatto esplodere a Herat davanti all’ingresso di Campo Vianini, la base del team italiano di assistenza alla ricostruzione, uccidendo tre militari afgani e ferendo sei persone, tra le quali un architetto italiano. E il Sismi segnalava “una progressiva radicalizzazione delle iniziative dell’insorgenza, con l’intensificarsi degli attacchi alle Forze della Coalizione”. Inoltre, si sottolineava, “il dispositivo di sicurezza delle forze afgane appare inadeguato”, e il disarmo delle milizie tribali, gli eserciti dei signori della guerra, “non ha ottenuto i risultati attesi”. In realtà l’afflusso di armi, acquistate con i profitti della produzione di oppio, aumentata negli ultimi anni, ha incrementato il numero dei ribelli e la loro capacità offensiva.
I morti di Kabul pochi giorni dopo i tre carabinieri e il capitano dei paracadutisti uccisi in un agguato a Nassiriya, con un militare romeno, da una bomba a carica cava che ha colpito il loro mezzo blindato, oltre il dolore per queste giovani vite stroncate, pongono dei seri interrogativi sulle missioni militari nelle zone di conflitto.
Afghanistan e Iraq, stessa situazione? Se fosse così, in entrambi i casi la risposta, si potrebbe pensare, dovrebbe essere la medesima: o restare fino a che “sarà necessario”, o andarsene, senza alambiccare su exit-strategy delle quali tutti parlano, ma che nessuno sa come realizzare concretamente. Ma che le due situazioni non siano uguali tra loro, pur avendo entrambe notevoli margini di rischio, lo afferma anche chi era, e continua ad essere, contrario alla guerra in Iraq.
“Non confondiamo le due missioni - ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica il dirigente Ds Fabio Mussi - Abbiamo votato con convinzione a favore della forza multinazionale in Afghanistan, perché abbiamo ritenuto che in effetti quella missione avesse a che fare con la lotta al terrorismo. Là c’erano le basi di al-Qaeda, protette dal regime dei talebani. In Iraq il discorso è assolutamente diverso. Neanche bin Laden avrebbe potuto augurarsi una reazione così dissennata, come si è rivelata l’invasione dell’Iraq. La missione in Afghanistan mantiene un suo significato, nonostante l’ultimo tributo di sangue. E non me la sentirei di chiedere il ritiro. Ma va ridato un significato politico. Proseguire a patto di evitare che anche questa missione affondi: il Paese è divenato il massimo produttore di oppio, il processo democratico non fa passi avanti, anche la libertà per le donne e le minoranze non sta facendo progressi”.
Quanto all’Iraq, “il ritiro è obbligatorio”, e “possiamo procedere in piena autonomia”, senza concordare date e modalità con le autorità irachene, come, all’interno dell’Unione, chiede Emma Bonino. Certo, sull’attentato a Nassiriya del 27 aprile, che è costata la vita al capitano dell’esercito Nicola Ciardelli, ai marescialli dei Carabinieri Franco Lattanzio e Carlo De Trizio, e al militare romeno Bogdan Hancu, e ha gravemente ferito il maresciallo Enrico Frassinito, non pesa solo il dolore per le vittime, ma anche il sospetto di essere stati ingannati.
A Nassirija e nella sua provincia dominano gli sciiti, e da quando sono qui i nostri militari hanno tra i loro compiti quello di addestrare e armare i membri della nuova Polizia e del nuovo Esercito.
Di continuo elogiati dalle autorità locali - sciite, naturalmente - che non perdevano occasione per invitare gli italiani a restare. “Non abbiate fretta di andarvene”, ripetevano con larghi sorrisi. Ora ci si chiede chi fossero quei “volontari” che si presentavano diligentemente all’addestramento, chi li aveva mandati, e chi garantisse per loro.
In Iraq non solo ogni etnia è strettamente controllata da capi tribali e politici, ma all’interno di ognuna si esercita il potere di diverse fazioni, spesso in lotta tra loro. Per quello che si sa, la zona di Nassiriya è da due anni nella stretta delle milizie di Moqtada Al Sadr, che alterna posizioni intransigenti ad aperture unitarie, e sempre in antagonismo più o meno velato con il carismatico ayatollah Al Sistani: l’uno e l’altro in stretti rapporti con il vicino Iran (Al Sistani è cittadino iraniano), alla ricerca di supporto politico e di aiuti in armi e denaro.
Quindi, la bomba a carica cava collocata con cura meticolosa sul bordo di un marciapiede (dal quale era stato tolto un cordolo, ricostruito in polistirolo), non è stata opera dei sunniti di al-Qaeda, ma di elementi sciiti. La bomba è esplosa mentre il convoglio si recava, come ogni giorno, al commissariato della città, a poca distanza dal posto di Polizia.
“Non escludiamo alcuna ipotesi, compresa quella di un’eventuale complicità interna alle Forze di sicurezza irachene”, ha detto il maggiore Marco Mele, portavoce del contingente italiano, rispondendo alle domande sulle “talpe” che hanno reso possibile l’attentato.
La guerra in Iraq è cominciata male - basata su inganni, carte false, calcoli sbagliati, e menzogne -, ed è diventata un incubo. Per l’Iraq stesso, per gli Stati Uniti, per tutti coloro che si trovano in quel tormentato Paese. “Vaste aree sono sotto il controllo di uomini armati, e l’autorità del governo centrale è più un nome che una realtà. In questo senso, più che di balcanizzazione parlerei di disintegrazione”: è il giudizio espresso (in un’intervista a Riccardo Stagliano su Il Venerdì di Repubblica) da Anthony Shadid, giornalista americano di origine libanese, inviato in Iraq del Washington Post, che con i suoi reportage ha vinto il Premio Pulitzer 2004.
In questa situazione che sarebbe riduttivo definire difficile, i nostri militari si sono comportati come meglio nessuno avrebbe potuto: con professionalità, intelligenza, umanità, e spirito di sacrificio. Hanno onorato la loro divisa e il loro Paese, pagando per questo un prezzo alto. Va aggiunto che tutti loro sono un patrimonio di capacità e di esperienza prezioso per una nazione che vuole concorrere alla nascita di un mondo dove regnino la pace, la libertà, e la giustizia. E’ giusto che siano pronti a soccorrere, anche affrontando forti rischi, chi ha bisogno di essere aiutato su questa strada. Ma, renderli bersagli sacrificali di oscure, e criminali, lotte di potere, sarebbe intollerabile.
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La bomba a carica cava:
sofisticata ed esiziale

L’applicazione sperimentale del principio della carica cava (praticando una cavità all’interno di una camera di scoppio la maggior parte della potenza viene concentrata in un’area ristretta) si ebbe per la prima volta durante la Seconda Guerra Mondiale, per colpire le blindature dei mezzi corazzati.
Rivestendo di una sottile intelaiatura metallica la parte cava della carica, si può perforare una spessa lamiera d’acciaio usando quantitativi di esplosivo relativamente ridotti. Questo permette di creare ordigni facilmente trasportabili. All’atto dell’esplosione, l’incamiciatura metallica viene disintegrata, ridotta a una miriade di frammenti che si dispongono in un fascio sottile perpendicolare alla superficie d’impatto. La velocità è elevata (10.000 metri/secondo), e quindi tale getto è in grado di perforare la superficie metallica. La pressione successiva, causata da frammenti metallici più grossi successivi e dai gas di scoppio (circa 300.000 chilogrammi/centimetro), forza latteralmente il foro prodotto, allargandolo. I gas liberati dall’esplosione, ad altissima temperatura, penetrano all’interno dell’obiettivo colpito provocando una rapidissima combustione. L’effetto dipende dalla distanza fra carica e obiettivo: aumentando la distanza, la cavità deve essere più profonda.



NELLA FOTO: Il blindato dei Carabinieri colpito dalla bomba nell’attentato del 27 aprile di quest’anno

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