Comportarsi bene fa bene agli affari: vero o no, lo afferma un signore che di affari se ne intende, Hank McKinnel, presidente e amministratore delegato della Pfizer, azienda farmaceutica dal fatturato annuo di 51 miliardi di dollari. McKinnel, che è anche presidente della Business Roundtable, una sorta di club e di centro studi delle grandi imprese, ha sostenuto - in un’intervista al The New York Times - che il miglioramento dell’immagine delle aziende farmaceutiche è essenziale per i profitti. “Se la comunità ci considererà in grado di fornire beni e servizi utili per assicurare alla gente una vita lunga e migliore, la stessa comunità vorrà il nostro successo. E’ quindi importante che si veda quello che facciamo nei programmi formativi, e in quelli sportivi. In caso contrario, la comunità sarà spinta ad augurarsi il nostro fallimento. Se continuiamo a non mostrare rispetto per l’opinione pubblica, saremo presi di mira, i cittadini chiederanno che ci siano imposti dei vincoli, e troppi vincoli costituiscono dei costi aggiuntivi”.
Il presidente della Pfizer sottolinea il fatto che questa esigenza “etica” riguarda in particolar modo l’industria farmaceutica. “Ci siamo resi conto che per noi è essenziale riguadagnare la fiducia e l’apprezzamento dell’opinione pubblica. Per i politici colpire l’industria farmaceutica significa guadagnare voti”. Comunque, Hank McKinnel ha rivelato che “stiamo cominciando ad utilizzare quel po’ di influenza parlamentare che abbiamo per migliorare la situazione, a cominciare dai farmaci riconosciuti dal programma Medicare. Adesso chi ha bisogno di determinati farmaci li può avere”.
Tra i fiori all’occhiello della Pfizer nel campo della “responsabilità sociale”, il presidente cita la creazione di un Istituto per le malattie infettive a Kampala, in Uganda, che, con la partecipazione di specialisti del settore provenienti dagli Stati Uniti e dal Canada, si occupa di Hiv/Aids, malaria e tubercolosi: nell’Istituto si stanno attualmente formando 350 medici e 250 professionisti del settore sanitario provenienti da vari Paesi africani.
In Sudafrica la Pfizer ha deciso di distribuire gratuitamente il Diflucan, un farmaco di sua produzione che cura le infezioni fungine di cui sono affetti molti malati di Hiv in stadio avanzato. Inoltre, insieme a General Electric, Citygroup, Ups e Xerox, l’azienda ha raccolto 104 milioni di dollari per le vittime del terremoto in Pakistan (“nostro amico nella guerra al terrorismo, ha sottolineato in un incontro con noi il presidente Bush”), e si accinge ad impegnarsi nella ricostruzione di scuole per professionisti sanitari e ospedali.
“Complessivamente la Pfizer elargisce oltre un miliardo di dollari l’anno”.
Questi sfozi serviranno a migliorare l’immagine delle aziende? “Lo scandaloso comportamento criminale tenuto alla metà e alla fine degli anni ’90 ci ha screditati tutti, questo è indiscutibile. Però sono sicuro che le cose stiano migliorando”.
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Comportarsi male può fare bene agli affari. Almeno è quanto sta accadendo alla celebre modella Kate Moss, per la quale uno scandalo che sembrava doverle stroncare la prestigiosa carriera (con guadagni annuali di 9 milioni di dollari), si è trasformato in una nuova molla di successo.
Il 15 settembre 2005, il quotidiano inglese The Daily Mirror pubblicava in prima pagina delle foto della modella che stava sniffando cocaina mentre in uno studio di Londra attendeva il suo fidanzato Pete Doherty, che stava registrando con la sua orchestra Babyshambles.
Il primo effetto di queste immagini, riprese da giornali di tutto il mondo, era stato disastroso. Anche se nessuno ignora che negli ambienti delle top model (e, del resto, anche in altri più compassati) la coca più diffusa non è certo quella imbottigliata, i clienti della Moss si erano dichiarati stupiti e indignati; stupore e indignazione seguiti da una serie di rescissione di contratti: tra i primi a tirarsi virtuosamente indietro vi era stata la società svedese H&M, la catena di abbigliamento più grande d’Europa, che aveva cancellato la bella Kate dalla campagna pubblicitaria per una collezione di vestiti disegnati da Stella McCartney.
Per la Moss si prospettava forse un prematuro viale del tramonto?
Niente affatto. Già nel novembre 2005 la rivista W le ha dedicato la copertina, seguita un mese dopo da Vanity Fair, mentre l’edizione francese di Vogue ne ha fatto l’ospite d’onore di un intero numero.
A gennaio del 2006 Kate Moss era più “top” di prima, e nel suo paniere poteva contare contratti per le campagne di Virgin Mobile, Dior, Roberto Cavalli, CK Jeans, Longchamp, Burberry.
“Questo dimostra quanto lei sia importante”, ha commentato giuliva Jenn Ramey, la sua agente americana, presentando la nuova campagna della Nikon per la nuova macchina fotografica digitale Coolpx S6, una campagna costruita su una serie di fotografie di Kate che indossa la macchina in questione (un modello di ridotte dimensioni), e poco altro. “Parte del suo fascino sta nell’essere davvero un durevole simbolo di stile. Lei piace alla Nikon perché ha carattere”, ha sentenziato Marie Bakker, direttrice per la comunicazione dell’azienda.
Evidentemente l’aura peccaminosa conferitale dallo scandalo ha aggiunto un tocco di suggestiva perversione al fascino leggermente protervo della Moss. E i clienti si sono accorti che le “cattive ragazze” piacciono, e fanno vendere. Del resto Kate aveva già acquisito il rango di “icona” di artisti come il pittore Lucine Freud e lo scultore Marc Quinn: quest’ultimo l’ha immortalata in una scultura in bronzo dipinto, presentata come opera principale di una mostra inaugurata in aprile alla Mary Boone Gallery di New York. “La sua immagine ha una vita a sé”, ha sentenziato l’artista.
Un segno dei tempi? Un altro indizio della rilassatezza della pubblica morale? E’ probabile che, più semplicemente, il trionfo di Kate Moss, per la quale un “incidente di percorso” si è trasformato in un vistoso spot pubblicitario, sia solo un aspetto del consumismo imperante. Consumismo dei prodotti, del piacere (inteso in senso lato), della bellezza (purché piccantemente condita, “alla diavola” potremmo dire).
Dice il dottor Michael Brody, presidente del Comitato per i media dell’Accademia americana di Psichiatria infantile: “Se nella nostra cultura ossessionata dalla fama si vuole vendere una macchina fotografica, tanto vale servirsi di una persona famosa che è stata colta con le mani nel sacco”.
Verrebbe quasi il dubbio che le foto del Daily Mirror siano state una montatura accortamente orchestrata. Non osiamo crederlo, ma se fosse così, complimenti al regista.
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