Ringrazio Rita Parisi, Luigi Notari e gli altri dirigenti del Siulp per l’invito a questo convegno. Sono lieto di essere qui con voi, ma il mio animo è turbato perché nell’indifferenza generale, si è compiuto un altro strappo alla Costituzione, attraverso l’approvazione in terza lettura, da parte della Camera dei Deputati della controriforma della Costituzione.
Come magistrato, io sono un funzionario pubblico, come voi. E come voi, da quando ho preso servizio (ormai sono trent’anni) la mia unica ambizione ed il mio unico onore professionale è stato quello di perseguire il bene pubblico, di realizzare i beni pubblici tutelati dall’ordinamento democratico della Repubblica italiana.
Ora se andasse in porto questo sciagurato progetto di riforma l’ordinamento democratico, non esisterebbe più, sarebbe sostituito da un altro ordinamento che trasformerebbe quel che resta dell’Italia, dilaniata dalla devolution, in una sorta di principato fondato sulla dittatura del Primo Ministro.
E tuttavia noi che ogni giorno testimoniamo col nostro lavoro la nostra fedeltà all’ordinamento democratico della Repubblica, dobbiamo continuare a difendere questo ordinamento attraverso la rigorosa testimonianza del nostro impegno professionale in difesa dei beni pubblici repubblicani.
Per venire all’argomento della mia relazione, dobbiamo prendere atto che nel 1991 con il cosiddetto “Nuovo Modello di Difesa” è stata compiuta la scelta strategica di smobilitare l'Esercito di leva e di costruire nuovi Reparti operativi basati esclusivamente su volontari, cioè su personale utilizzato in modo professionale, sulla base di bandi di arruolamento a tempo determinato.
L'eliminazione della leva è avvenuta in modo graduale, soprattutto per le difficoltà di bilancio, ed è stata sancita dalla legge legge 14 novembre 2000, n. 331, con la quale è stata disposta – in via di principio - la sospensione della leva obbligatoria ed è stata affidata la delega al governo per disciplinare la graduale sostituzione dei militari in servizio obbligatorio di leva con volontari di truppa e con personale civile del ministero della Difesa. La delega è stata esercitata con il d.lgs 8/5/2001 n. 215, che ha dettato le disposizioni necessarie per realizzare la progressiva riduzione a 190mila unità dell’organico complessivo delle Forze Armate, attraverso la progressiva sostituzione dei militari di leva con volontari di truppa, in parte in servizio permanente ed in parte in ferma prefissata. Questo processo è stato accelerato con la legge 23 agosto 2004 n. 226 con la quale è stata disposta la sospensione anticipata del servizio obbligatorio di leva, che è cessato a partire dal 1 gennaio 2005. Con la stessa legge è stato ulteriormente messo a fuoco l’organico dei volontari di truppa, prevedendosi per il 2005 un tetto di 33.176 volontari in servizio permanente effettivo e di 58.209 di volontari in ferma breve. Lo strumento è stato ulteriormente messo a punto con il d.lgs 19 agosto 2005 n. 197 (G.U. del 23/9/2005).
Il percorso di trasformazione dello strumento militare, da un Esercito di leva ad un Esercito basato su Corpi professionali non ha trovato grandi ostacoli politici. Anzi è stato sostenuto e propiziato anche dalle principali forze politiche democratiche che si sono battute per raggiungere questo "traguardo", senza preoccuparsi troppo che l'obiettivo dell'Esercito professionale era stato concepito nel quadro di un pensiero strategico che puntava a creare uno strumento funzionale alle guerre del futuro, cioè all'uso della guerra come strumento al servizio della politica.
Non a caso, già nel modello del 1991 si fa cenno al fatto che il nuovo volontario deve essere una sorta di professionista della guerra, poiché deve avere una motivazione che non sia semplicemente occupazionale, ma deve avere una sorta di vocazione al combattimento. Il modello richiede, infatti, "Una migliore immagine del volontario, prevedendone l'impiego in tutti i ruoli propri del combattente, al fine di indirizzare le scelte della vita militare per motivazioni diverse da quelle semplicemente occupazionali."
Insomma il volontario deve avere una motivazione al combattimento, deve essere una specie di “Rambo”, un uomo che si realizza combattendo.
A spiegare meglio questo concetto ci ha pensato il gen. Canino, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito (all’epoca della Somalia), autore nel 1997 di un inserto speciale sui volontari, dove è scritto: “quello di cui abbiamo bisogno e, per così dire, un volontario da combattimento e non da caserma, con la prospettiva non legata alle discoteche di S. Marinella o di S. Severa, ma ai tuguri albanesi o alle macerie di Mogadiscio, con il rischio molto alto di rimetterci la pelle, mitigato soltanto da un addestramento continuo, intenso, nel rispetto completo ed assoluto delle regole, della gerarchia, degli ordini... persone addestrate a difendersi per difendere interessi collettivi senza incertezze o dubbi morali e con i mezzi adatti per farlo”.
Per chiarire meglio il concetto, il gen. Canino in una intervista sull'addestramento dei volontari al Corriere della Sera (14 giugno 1997) spiegava che: "ridotto all'osso il compito è insegnare ad uccidere bene e a farsi ammazzare poco".
Cancellata la leva, il "servizio militare" ha cessato di essere un "servizio" ed è diventato una professione: la professione delle armi.
Tuttavia malgrado le suggestioni dannunziane dei vertici militari, il modello americano del guerriero "born to kill", non può essere importato nel nostro sistema politico.
E' fuori dalla cultura, dalla storia e dalla sensibilità del popolo italiano, ma - soprattutto - non è applicabile nell'ordinamento giuridico italiano che, malgrado tutto, continua ad essere quello di uno Stato democratico di diritto, che si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Costituzione), non può accettare la guerra come strumento della politica, dal momento che la ripudia (art. 11) e non tollera la pena di morte.
Le vicende belliche che hanno visto coinvolte le nostre forze armate, soprattutto con l’intervento operato in Iraq, dimostrano che c’è un certo scarto fra la realtà e la retorica bellicosa del modello di difesa e che, anche in versione professionale, le Forze armate italiane sono – fortunatamente – pochi inclini alla guerra, mentre la motivazione principale dei volontari rimane di natura meramente occupazionale.
Cionondimeno rimane il fatto che l’addestramento dei volontari di truppa è un addestramento che, per finalità istituzionale, mira a costruire quel modello di combattente di cui abbiamo parlato.
Resta il fatto che il battesimo del fuoco che, in talune circostanze si è verificato, costituisce una sperimentazione in vivo di questo addestramento che insegna ad “uccidere bene ed a farsi ammazzare poco”. A questo punto ci troviamo dinanzi ad una biforcazione del problema dei guasti creati da questo Nuovo Modello di Difesa. Nella prospettiva di un cambiamento del governo e della maggioranza politica si può facilmente immaginare, seguendo l’esempio di Zapatero, che non ci saranno più missioni belliche delle Forze Armate italiane.
Sul piano internazionale, pertanto, il mutato scenario politico porterà a dei cambiamenti rilevanti che ridimensioneranno il peso negativo della scelta di un esercito professionale.
Sul piano interno, però, la messa a regime del nuovo strumento militare continuerà a produrre dei guasti nel tessuto democratico delle istituzioni, se non si interviene drasticamente per un cambiamento di rotta.
Per la messa a regime di questo nuovo strumento militare lo scoglio principale da superare è quello di indurre i giovani all’arruolamento in ferma breve. Infatti solo una parte (circa 1/3) dei militari di truppa può essere assorbita e transitare in servizio permanente. Per la maggior parte dei volontari, la ferma è un impiego a tempo determinato, per svolgere un lavoro faticoso, penoso, pericoloso ed obiettivamente poco appetibile. Poiché i giovani italiani non hanno ancora acquisito la vocazione al combattimento, ma chiedono di arruolarsi nelle Forze armate esclusivamente per risolvere un problema occupazionale, i bandi per l’arruolamento dei volontari rischiavano e rischiano ancora di andare deserti.
Bisognava fare dei sacrifici per raggiungere quest’obiettivo. Il Nuovo Modello di Difesa, i sacrifici li fà fare alla Polizia e agli altri Corpi armati dello Stato e persino degli enti locali.
Per incentivare l’arruolamento, il modello prevede che i volontari, al termine del servizio debbano essere assorbiti nelle carriere iniziali delle Forze di Polizia ad ordinamento civile e militare e nel Corpo militare della Croce Rossa.
Con il decreto del 2001 è stata prevista una riserva di posti, che variava a seconda dei Corpi. (vedi decreto, art. 18).
Con la legge sulla sospensione anticipata della leva (23/8/2004), questa riserva è stata elevata al 100%.
Infine con l’ultimo decreto legislativo è stato previsto che deve essere introdotta una riserva di posti anche per l’assunzione nei Corpi di Polizia Municipale e Provinciale.
In questo modo per soddisfare un’esigenza tutta interna alla logica del Nuovo Modello di Difesa, si viene ad incidere pesantemente sui servizi pubblici forniti dalle Forze di polizia, di cui viene pregiudicata profondamente la composizione e snaturata la qualità del servizio reso.
In questo modo si torna all’indietro rispetto ad un processo democratico che aveva portato alla smilitarizzazione della Polizia di Stato, al riconoscimento dei diritti sindacali, all’ingresso delle donne nella Polizia di Stato e negli altri Corpi armati di Polizia.
Le donne, infatti, sono ammesse alla ferma breve nelle Forze Armate, soltanto nei limiti delle quote fissate dai vertici militari. (controllare quote). Pertanto la composizione dei Corpi di Polizia con questo meccanismo è destinata a tenere le donne fuori dalla porta, annullando il valore della differenza di genere.
Questo sistema di reclutamento del personale delle Forze di polizia è assolutamente inaccettabile in quanto contrasta con il principio costituzionale secondo cui tutti i cittadini, dell’uno o dell’altro sesso, possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza (art. 51 Costituzione), e con il principio costituzionale secondo cui i pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (art. 97).
In effetti l’addestramento e l’educazione del personale di questo corpi dovrà scontare l’handicap di un precedente addestramento professionale diverso ed inconciliabile con la funzione che devono svolgere le Forze di polizia in uno Stato democratico. Quando noi pensiamo ad eventi come quello di Genova del luglio 2001, non possiamo pensare ad un incidente di percorso. C’è un rischio grave di militarizzazione e degenerazione dei Corpi di Polizia, sulla base di modelli che vengono importati d’oltreatlantico.
La rimilitarizzazione dei servizi di Polizia comporta un loro inevitabile degrado sotto il profilo della qualità ed efficienza dei servizi resi ed espone i cittadini a rischi di arbitri e brutalità che sembravano ormai appartenere al passato.
E’ giunto il momento di levare alta la voce per far comprendere a chi ha la responsabilità delle scelte politiche che questa situazione non è più accettabile.
(Intervento svolto al Convegno di Bologna del 21 ottobre 2005, organizzato dal Siulp e dal titolo “Bologna Capoluogo d’Europa”)
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