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Aprile/2006 - Articoli e Inchieste
Afghanistan - Missione a Kabul e dintorni
Appunti di viaggio - Il dottor Cairo
di Leandro Abeille


Un paio d’anni fa, i miei genitori mi hanno fatto sapere che avrebbero mandato dei soldi per il centro del dottor Alberto Cairo in Afghanistan. Volevano un consiglio ed io li ho sconsigliati. Pensavo che quei soldi si sarebbero persi nei meandri del sistema internazionale dell'aiuto umanitario.
Dopo aver visitato il centro di riabilitazione del dottor Cairo a Kabul, ho capito di aver perso una buona occasione per stare zitto.
Cairo non mi ha fatto una buona impressione sulle prime, assomiglia troppo ad un collega conosciuto durante la missione Unmik in Kosovo, e quest’ultimo, proprio non lo ricordo con simpatia; a peggiorare le cose, vengono entrambi dal Piemonte ed hanno in comune l'intercalare e l'accento. Una simpatia impossibile.
Iniziando l'intervista di rito, scopro invece che Cairo è una persona simpatica, s’impegna sul lavoro e non ha voglia di complimenti o adulazioni. E’ un italiano che lavora con successo per la Croce Rossa internazionale, assumendosi le responsabilità in prima persona, come se dirigesse l’impresa di famiglia. Solo che non produce suolette per scarpe, produce speranza. La speranza di una vita meno disperata di quanto potrebbe sembrare: il suo centro si occupa della riabilitazione di amputati ed handicappati, della manifattura delle protesi e del sostegno economico di chi non ha più nulla.
Passeggiando per la clinica, si vedono persone in camice bianco che aiutano bambini ed adulti a reggersi in piedi, o a camminare. Alcuni dipendenti lavorano al computer, altri fanno fisioterapia, altri ancora puliscono sale e lettini. E’ curioso, sia il personale della clinica che i pazienti hanno qualcosa in comune: sono tutti handicappati.
Cairo mi spiega che gli handicappati in Afghanistan, non potendo lavorare come manovali o contadini, sono “carne morta”. Se non lavorassero per il centro della Croce Rossa, dovrebbero elemosinare, ed elemosinare in un paese povero come l’Afghanistan, è un’impresa impossibile.
I pazienti sono tanti, divisi tra uomini e donne, mentre i bambini sono un po’ dappertutto. Soffrono d’ogni genere di amputazioni, le gambe sono le più colpite, sempre meno dalle mine, sempre più da incidenti civili. C’è chi è paralizzato, dalla schiena in giù, da un colpo di fucile ricevuto per una faida tribale, e chi è ormai ridotto come un vegetale. Tra bambini schiamazzanti e gente che non emette un lamento, un rumore sovrasta tutto, quello delle officine meccaniche, il punto nevralgico della clinica, il luogo dove vengono costruite le protesi.
Ci sono protesi di tutti i tipi: di gamba, di mano, per grandi e per piccini, Cairo ne spiega la costruzione ed il funzionamento, a vederle viene quasi da dire: belle! Poi pensandoci con un minimo di empatia, l’unica cosa che viene in mente è: “terribile”.
Il dottor Cairo e lì, nel centro di tutto, come un “barotto” in mezzo all'Afghanistan; tra un sorriso, un rimbrotto ed una battuta all’italiana (tradotta in inglese), rende la vita migliore agli “invisibili” più visibili che esistono al mondo.
Spero di consigliare i miei genitori in maniera migliore, la prossima volta.

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