Il capo villaggio ci accoglie in una casa fatta di fango e paglia, con una lampadina collegata ad una batteria, una stufa a legna, con tappeti e i cuscini tutto intorno. Una dimora povera, mi accorgo che la camicia che indosso vale più di tutta la casa. Un pò me ne vergogno.
La chiacchierata è cordiale, conduce Fausto de “Il giornale”, uno che le guerre le ha viste e descritte tutte. Un triestino chiuso ma in fondo simpatico. Teniamo vivo il tono della conversazione parlando di “made in Italy”, della pizza e del mandolino scopriamo, con sorpresa, che il capo e gli altri uomini del villaggio, dell'Italia non conoscono proprio nulla. Sanno però che quei soldati che gli stanno costruendo, una piccola opera di convogliamento idrico (allo scopo di permettere l'irrigazione delle colture), sono italiani.
Non contento dell'ignoranza a proposito dell’Italia, tiro fuori il mio argomento interculturale di contatto preferito: il calcio. Sono convinto che il football sia universale e se dici calcio, dici Italia. Niente da fare. Qui nessuno conosce né Baggio, né Del Piero, non conoscono neanche Totti e consorte. Neanche le barzellette più raccontate d’Italia sarebbero efficaci.
Sorseggiando il tè, chi quello più chiaro e meno costoso, chi quello più scuro e più pregiato, ci buttiamo sul generico e scopriamo di cosa è fatta la loro esistenza, tra le capre che vivono praticamente in casa e le galline coccolate dai bambini, come mio figlio coccola Giulia, la mia Scottish Folder. Coltivano riso, bevono il latte delle capre, fanno il pane che ogni tanto mangiano con carne di montone. Nascono e muoiono, si sposano, se sono fortunati con la persona che amano, vivono in un tempo che per certi aspetti si è fermato al Medio Evo ma che vede sfrecciare pulmini Mitsubishi su strade polverose come nei film western.
Il capovillaggio è orgoglioso di farci vedere il pozzo e tra bambini ed animali, mi accorgo di essere circondato solo da uomini, le donne sono ben attente a non farsi vedere. Nel descrivere le attività economiche del villaggio, il capo, un anziano signore che per me potrebbe avere ottant'anni ma che realtà ne ha meno di 50, si ricorda improvvisamente di una coltivazione non marginale e c’indica che qualche centinaio di metri più in là coltivano dell’oppio. Lo dice sorridendo, mentre noi non troppo sorpresi lo salutiamo, si è fatto tardi e ci aspettano altre tre ore di viaggio per percorrere i 60 chilometri che mancano per arrivare a Herat.
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