Se si chiedesse, alle donne italiane di immaginare la peggior condizione femminile nel mondo, la stragrande percentuale si riferirebbe al mondo musulmano ed in particolare all'Afghanistan. Avrebbero ragione. A cinque anni dalla cacciata dei talebani, icona mondiale di soprusi contro le donne, la condizione femminile, nonostante alcuni evidenti miglioramenti e gli sforzi di donne coraggiose, non sembra uscire dalle profondità in cui giace. Tanto per chiarire: le donne in Afghanistan portano ancora il burqa. I giornalisti occidentali, in pieno delirio da liberazione (statunitense dai talebani), hanno scritto, su quest'indumento tribale, tutto il contrario di tutto. C'è chi affermava che era un'imposizione dei talebani, chi alla cacciata di quest’ultimi, ne decretava l'uscita di moda, chi si lanciava in spiegazioni psico-sociologiche poco verosimili. La realtà ci conferma che, in Afghanistan, quello del burqa è l'ultimo dei problemi. Sono secoli che il lenzuolo azzurro con la grata ricopre le donne afghane, con periodi di maggiore e minore frequenza, più nelle zone rurali che nelle grandi città. Gli anziani fanno notare che, la capitale Kabul, non era poi così differente dalle grandi città europee, negli anni a cavallo tra il ’60 e il ’70, le donne seguivano mode occidentali e il burqa era ad appannaggio di poche tradizionaliste, soprattutto dell'etnia “pashtun”, che vivevano nei paesini rurali. La moda del burqa rinasce come contrapposizione culturale delle donne nel Paese occupato dall'esercito russo, quasi un modo per ribadire una barriera fisica, oltreché ideologica, ai soldati stranieri.
Cacciati i russi ed arrivati i talebani, il burqa non è stato più riposto. Stupisce, soprattutto l'opinione pubblica occidentale, il fatto che, nonostante la maggiore libertà, assicurata dalla presenza di un governo democratico, con la cooperazione delle forze della missione multinazionale Nato autorizzata dall’Onu, il velo con da grata, sia rimasto a ricoprire le afghane. Tutti erano convinti che fosse stato imposto per via di qualche legge islamica, talebana e sostanzialmente rifiutato dalle donne. Tuttavia, il burqa non è un indumento di derivazione religiosa ma etnica e di conseguenza, c'entra poco con i dettami coranici. Le donne (maggiormente quelle di etnia pashtun) si sentono a loro agio più vestendo il burqa che non altri abiti, e per tradizione i loro uomini vengono considerati rispettabili solo quando le mogli sono coperte dalla testa ai piedi.
Insomma, il burqa è l'ultimo dei problemi. I matrimoni combinati, il suicidio, il “prezzo del sangue”, le violenze domestiche, le incarcerazioni per procura e l'analfabetismo sono gli ostacoli che le donne devono affrontare.
Le donne in Afghanistan rappresentano per le loro famiglie un ottimo affare: il prezzo di una buona moglie si aggira intorno ai 1000 - 2000 dollari che, in un Paese poverissimo, rappresentano una fortuna.
Le ragazze vengono vendute già da giovanissime. L'organizzazione non governativa afghana “Voice of women”, si sta prendendo attualmente cura di una dodicenne trovata tre anni fa in un ospedale di Herat, una provincia ad ovest della capitale, paralizzata dalle gambe in giù, a causa dei rapporti sessuali avuti con il marito di almeno 50-60 anni più vecchio (l’età in Afghanistan non è mai certa), che l'aveva comprata per 1800 dollari dalla famiglia (i calcoli che avete fatto frettolosamente a mente, sono giusti, quando la bambina è stata comprata e costretta a sposarsi, aveva solo nove anni). Matrimoni combinati e suicidi sono strettamente correlati, le ragazze che si sposano, mediamente intorno ai 16 anni, sono spesso costrette a prendersi un marito non voluto e per questo, a volte, cercano di togliersi la vita, perlopiù dandosi fuoco. Sono 400, in tutto l'Afghanistan, le donne che si sono suicidate o sfigurate con il fuoco nel 2005. Coloro che maggiormente utilizzano il suicidio, come sistema per fuggire dal matrimonio sono quelle più alfabetizzate, in quanto, forse, più consapevoli dei loro diritti e di conseguenza più visceralmente avverse ad usanze contrarie al loro modo di essere e di percepire.
Le giovani donne rappresentano anche un modo di appianare le controversie tra le famiglie e le tribù, rappresentano il cosiddetto “prezzo del sangue”, in pratica vengono scambiate per ripagare di un torto (quasi sempre da un omicidio), un'altra famiglia. Verranno sposate dal capofamiglia o da uno dei suoi figli e considerate delle mogli di serie B, delle schiave per tutta la vita.
La vita di una moglie può essere costantemente in pericolo: quelle che noi definiamo “violenze domestiche” non sono percepite all'interno della cultura afghana come comportamenti devianti, ma come una legittima forma di controllo sociale e familiare. Solamente nel 2005 una associazione non governativa, in collaborazione con il Dipartimento governativo femminile (minister of Women Affairs), ha iniziato dei corsi professionali per la Polizia ed altri Enti pubblici che riguardano le violenze in famiglia, l’accesso alle strutture pubbliche ed i diritti civili.
Alcune Ngos locali, formate perlopiù da donne che hanno studiato all’estero, in Europa soprattutto, aiutano l’anello debole della società; in un posto tenuto segreto, è sorto un campo di rifugiate, provenienti da tutto l'Afghanistan, che scappano per vari motivi dai mariti e dalle famiglie. Alcune si sono unite in cooperative, per gestire dei piccoli ristoranti con il fine di riscattarsi, almeno economicamente, dai mariti.
Quando i problemi familiari sono gravi e reiterati, le donne avendo difficolta a chiedere il divorzio, concesso solo se il marito risulti dichiaratamente impotente, o se non garantisca alla famiglia una sufficiente copertura economica, la quale, considerando gli standard dell’Afghanistan, è spesso al di sotto della soglia di povertà (stabilita a meno di un dollaro al giorno), chiedono supporto al ministero degli Affari Femminili prima di presentarsi innanzi al giudice. Ricorrere al giudice è un’arma a doppio taglio, poiché le donne possono essere a loro volta accusate di reati contro la morale, quali l’adulterio, come giustificazione maschile delle violenze agite e finire poi anche imprigionate. Il reato di adulterio non esiste ovviamente per gli uomini che possono essere poligami e addirittura si possono sposare anche per un tempo determinato (usanza tipica degli sciiti che in pratica legalizza la prostituzione, in quanto una donna può essere “sposata” anche per un paio d’ore e fino a sei mesi). Qualche volta le donne sono incolpate di un crimine commesso dal marito e costrette alla prigione insieme ai figli che necessariamente, da piccoli, sono obbligati a seguire la madre.
Le prigioni maschili afghane non seguono standards occidentali, quelle femminili neanche. La prigione di Herat, ospita 40 detenute, meno di 5 hanno passato i 35-40 anni mentre le altre sono giovanissime, 16-18 anni in maggioranza, secondo il responsabile della prigione, sono accusate perlopiù di adulterio e qualcuna di omicidio (spesso i reati fittizi che servono per scontare la pena altrui). Queste 40 donne, accompagnate da 19 bambini, vivono in 3 celle di circa 40 mq con 12 letti, chi rimane fuori, dorme per terra, mentre i bambini dormono con le madri nello stesso letto singolo. I bagni sono all’esterno della struttura, una luce per cella e plastica invece del vetro come copertura delle finestre. Li dove il termometro, d’inverno, raggiunge spesso le temperature negative, non esiste il riscaldamento. Le detenute durante il giorno si “riabilitano” tessendo tappeti e cucendo vestiti in altre due stanze, senza luce: i proventi dei loro lavori, neanche a dirlo, vanno alla prigione.
Se per le donne sposate la vita non è idilliaca, per le vedove è peggio, i pashtun hanno la tradizione che un uomo debba sposare la vedova del fratello e mantenerla, come per tradizione faceva il profeta Maometto, per le vedove non pashtun l’unica speranza è una qualche associazione caritatevole, i figli che lavorano o la fame.
Il governo sta dando un grande impulso al miglioramento della condizione femminile, sia dal punto di vista degli interventi strutturali, permettendo l’accesso a scuole ed università, con la rivalutazione professionale di alcune categorie di lavoratrici (medici, avvocati) e l’assunzione di donne nel pubblico impiego, sia dal punto di vista culturale approntando specifici programmi educativi che possano cambiare la percezione del ruolo della donna nella società. Questi programmi pare stiano dando i risultati voluti e addirittura qualcuno ha iniziato a fare dei regalini alla moglie in occasione dell’otto marzo.
Anche le Forze militari internazionali della missione Nato - Isaf (International Security Assistace Force) e quelle italiane miste (Forze armate/ministero degli Affari Esteri) del Provisional Reconstruction Team in particolare, stanno dando un aiuto concreto alla rivalutazione dei settori dove le donne sono impegnate o coinvolte. Ad iniziare dalla scuola e dalla sanità, dove, secondo il responsabile italiano per la ricostruzione sanitaria di Herat, ogni 100.000 puerpere, 1900 muoiono a causa di problemi legati al parto.
Sembrerebbe la strada sia avviata. La condizione femminile migliora ogni giorno, ora le donne (spesso indossando il burqa) possono guidare e lavorare ma prima di arrivare a standards accettabili dovrà passare del tempo. Un’attivista per i diritti delle donne dice alla giornalista di Isaf News il giornale delle forze Nato: “come può cambiare la situazione femminile se al contrario di quello che fanno i capi di stato esteri, Karzai non mostra mai in pubblico sua moglie?” E’ un fatto che non avevo notato, avevo preso in considerazione che il primo Ministro afghano fosse single ed invece non lo è.
Usando il modo di percepire occidentale non avevo escluso che un uomo potesse non sposarsi ma non è il caso di Karzai. Allora si scopre che è difficile usare la propria percezione culturale nei confronti di un Paese come l’Afghanistan. Però si capisce che l’otto marzo, dall’altra parte del mondo, non rappresenta una festa per un risultato raggiunto ma uno sforzo per una battaglia ancora da combattere. Le donne lottano per la loro sopravvivenza ed in fondo, quell’attivista aveva ragione.
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