In questo numero di Polizia e Democrazia dedichiamo largo spazio all’Afghanistan. Perché proprio l’Afghanistan?, sarebbe legittimo chiedersi. Perché, restando nel campo delle situazioni conflittuali, non l’Iraq? Un primo motivo è che dell’Iraq, giustamente, si parla e si scrive molto, e dell’Afghanistan relativamente poco. Eppure sarebbe opportuno non dimenticare che fu in questo Paese che nacquero i primi segnali di un terrorismo di segno islamico in seguito diffusosi un po’ ovunque.
L’inizio, l’elemento scatenante, fu l’intervento dell’Armata Rossa in sostegno del regime filosovietico di Kabul, seguito da una accanita guerriglia che chiamava alla lotta contro i “comunisti atei” i musulmani di ogni regione e continente, dal Marocco all’Indonesia: un’impresa validamente sostenuta, con armi e finanziamenti, dall’Arabia Saudita, dagli Emirati del petrolio, dal Pakistan, e dal governo statunitense, attraverso la Cia e i suoi Corpi speciali. Erano ancora gli anni della Guerra Fredda (gli ultimi, ma questo nessuno lo immaginava), e logicamente agli americani non dispiaceva mettere nei guai il rivale di Mosca, che del resto aveva agito nello stesso modo nella guerra in Vietnam. Con la differenza che in questo caso il “gioco” sarebbe sfuggito di mano a tutti.
La storia è nota. Nel 1989 i sovietici si ritirano, dopo qualche anno di guerra civile i talebani prendono il potere, e intanto i volontari “afgani” di tutte le nazionalità tornano alle loro terre predicando il sacro verbo della nuova jihad: “Gli infedeli possono essere vinti!”. E non si limitano a predicare, uccidono con ogni mezzo, dal coltello alla dinamite. Uccidono militari e civili, cristiani, ebrei, “atei”, e tanti musulmani che non vogliono accettare la loro dottrina di morte. Fra i più attivi si manifesta un saudita che durante la guerra ai russi aveva creato una struttura, al-Qaeda (la Base), molto apprezzata per il suo dinamismo: un certo Osama bin Laden, già noto per appartenere a una famiglia di imprenditori plurimiliardari con interessi finanziari in mezzo mondo, America compresa.
Poi, il tragico 11 settembre 2001, le stragi alle Twin Towers e al Pentagono, l’attacco all’Afghanistan dove Osama bin Laden si è rifugiato impiantandovi le basi logistiche di al-Qaeda, e, con il concorso dei “signori della guerra” del nord, la rapida sconfitta dei talebani. Nel dicembre 2001 i delegati delle etnie afgane, riuniti a Bonn, nominano un governo provvisorio guidato da Hamid Karzai. Nel gennaio 2004 la Loya Jirga, assemblea dei capi tribali, approva una nuova costituzione che decreta la nascita della Repubblica islamica dell’Afghanistan, e in ottobre le elezioni confermano Hamid Karzai alla presidenza.
Mentre “Enduring freedom”, come erano chiamate le primo forze di intervento americane, si sposta verso sud, attorno alla frontiera con il Pakistan, per dare la caccia a Osama e ai resti dei suoi alleati talebani, nel resto del Paese si installa l’Isaf, una forza multinazionale di cui l’Onu affida la gestione alla Nato, con il compito di aiutare la ricostruzione e di garantire la sicurezza. Un compito vasto e complesso, al quale gli italiani, militari e civili, hanno dato e continuano a dare un forte contributo.
Detto questo, su quale sia veramente la situazione in Afghanistan non si sa molto. O, piuttosto, i riflettori dell’attualità sono essenzialmente puntati altrove, in Iraq, dove ogni giorno si susseguono scontri e attentati micidiali: a Kabul e dintorni, invece, sembra regnare un clima pacificato, nel quale si inseriscono timide versioni del diritto e della democrazia. Anche se questo quadro relativamente confortante viene talvolta smentito dalle testimonianze di esperti, come Gino Strada, e da episodi inquietanti, quale il rapimento, lo scorso anno, di Clementina Cantoni, operatrice di Care International.
Insomma, si pongono vari interrogativi, dovuti soprattutto a una carenza di informazione. Così, il nostro inviato Leandro Abeille, forte della sua preparazione accademica di sociologo, e anche della sua esperienza sul campo in Kosovo, è andato a vedere, a informarsi, appunto, e a cercare di capire. Diciamo subito che ha potuto farlo grazie alla collaborazione dei nostri militari, dallo Stato Maggiore della Difesa ai comandi distaccati in quella terra lontana, che hanno dato tutto l’appoggio possibile, senza nemmeno accennare a una eventuale “supervisione” del materiale raccolto sul posto e su quello che avremmo pubblicato.
Il nostro inviato, dopo un soggiorno di una settimana, è tornato in Italia due giorni prima che si avesse notizia del caso dell’afgano convertito al cristianesimo, minacciato da una condanna a morte per apostasia, e infine rifugiato in Italia. L’8 aprile vi è stato l’attacco kamikaze contro la base italiana di Campo Vianini, a Herat, una città nei pressi del confine con l’Iran: uccisi sul colpo due afgani, un poliziotto e un soldato di guardia, e qualche ferito, tra i quali, colpito a un braccio da schegge di vetro, un architetto italiano che lavora al team di ricostruzione provinciale. L’attentato è stato rivendicato dal mullah Daddullah, un comandante talebano, che dichiara l’obiettivo di colpire il contingente internazionale presente nel Paese. Il giorno prima a Helmand, a sud di Kabul, un’auto bomba nella base di un altro team di ricostruzione provinciale ha ucciso tre americani, due militari e un civile.
Ecco, anche se non se ne parla molto, dopo più di quattro anni l’Afghanistan resta un Paese a rischio. A rischio di cosa? Prima di rispondere bisognerebbe sapere, o, meglio, comprendere qual è il problema. E non è semplice farlo proprio mentre si parla di un ritiro dall’Iraq: forse graduale, forse non totale, ma comunque la voglia di sganciarsi è nell’aria da tempo, e non è solo italiana.
Certo, i due scenari sono diversi. L’Iraq era un Paese industrializzato, ricco di petrolio, e, sia pure sotto la feroce dittatura di Saddam Hussein, con un tessuto sociale nel quale erano presenti delle correnti laiche, “occidentali”: ora è un puzzle inestricabile, un labirinto nel quale nessuno sa trovare la via di uscita. L’Afghanistan, fino al 2001, era nel Medioevo, e poi lì è rimasto. Poverissimo, privo di risorse, tranne una: il papavero, l’oppio, una produzione che si cerca di estirpare, ma che andrebbe sostituita da altre, difficilmente altrettanto redditizie, anche se al contadino afgano restano le briciole delle briciole del traffico di droga. Una società tribale dove la religione è più legata agli usi tradizionali che al Corano, la donna è merce di scambio, e la legge più sentita è la vendetta.
Forse è vero che i talebani sono stati sconfitti solo in parte, ma è anche probabile che questo sia solo un aspetto di un problema che andrebbe risolto, o almeno meglio compreso, prima di commettere altri errori.
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