Il giovane Bozano fu subito sospettato
per la morte di Milena, a causa di una serie
di riscontri, fra i quali preminenti quello
di un’auto sportiva rossa e altri indizi che
per gli inquirenti apparivano concordanti
Maggio 1971: una vicenda sconvolge l’Italia e in particolare la Liguria. Una graziosa e ricca ragazza di tredici anni - Milena Sutter - e il suo presunto assassino, un rampollo di una famiglia benestente, Lorenzo Bozano. Lei è figlia di un industriale svizzero della cera: Arthur Sutter. Lui invece, è imparentato con gli armatori Costa. Suo padre, pensionato, ha un pessimo rapporto con il figlio.
I motivi sono da ricercare in una precocissima sensualità del giovane che da ragazzino insidia una amichetta, tanto da essere sorpreso dal padre della ragazzina durante un rapporto con essa. Ovviamente il padre della fanciulla si rivolge a papà Bozano lamentandosi dell’accaduto; il signor Bozano, stanco di tante malefatte del figlio lo denuncia ai Carabinieri. Lorenzo per qualche mese finisce al riformatorio. Appena uscito viene fermato perché in possesso di una pistola. Ma non è tutto. Insidia la sorellastra, nata dalla relazione di sua madre (separata) con un convivente. Riuscirà ad evitare la galera perché la madre ritirerà la denuncia. In questo quadro, non certo esaltante, di miseria morale va inserito il caso Milena Sutter.
Lorenzo Bozano, secondo le carte istruttorie, la rapisce il 6 maggio del 1971. Quattordici giorni dopo il mare restituirà i resti della povera ragazza sulla spiaggia genovese antistante via Priaruggia; il corpo riaffiora nonostante sia appesantito da una cintura di piombo da sub. Sarà quest’ultimo l’elemento fra i più importanti dell’impianto accusatorio.
Sono passate pochissime ore dal ritrovamento del corpo e la Polizia è già sulle tracce di Bozano, che racconta di aver passato il tempo in giro per grandi magazzini. Viene perquisito il suo alloggio, nel quale viene trovato un appunto su un foglio di carta: tre sole parole, ma esplicite: “affondare, seppellire, murare”.
La Polizia rintraccia due testimoni che avrebbero visto Bozano alle 17, davanti alla scuola privata che Milena frequenta. Si indaga sui suoi hobby, sulla contorta personalità del biondino, come ormai viene chiamato dagli inquirenti. Altre persone confermano un indizio importante: nelle settimane precedenti Bozano è stato notato davanti alla villa dei Sutter.
Nei tre giorni successivi Bozano commette il primo degli errori fatali che lo perseguiteranno: si taglia i baffi. Dice agli amici di essere disperato, chiede di confermare l’alibi che si è costruito.
Alla Polizia che lo interroga, contestandogli la presenza, in casa, di appunti molto compromettenti, contenenti strani riferimenti a orari, fornitura di prove, pagamenti e riscatti, risponde che si tratta di fantasie. Nonostante tutto, dopo un breve fermo, viene rilasciato. La speranza della Polizia è che Bozano si tradisca e porti i suoi pedinatori alla prigione dove si presume che sia tenuta nascosta.
L’illusione cade drammaticamente il 20 maggio, quando due pescatori a mezzo chilometro dalla riva, ripescano i poveri resti della ragazza. L’autopsia stabilirà che la ragazza è stata uccisa per strangolamento non più tardi di un’ora dopo il suo rapimento.
Nel frattempo molte testimonianze avvalorano le ipotesi degli inquirenti: la spider rossa di Bozano è stata notata molte volte vicino la villa dei Sutter e vicino la scuola in cui studiava.
Al momento dell’arresto, sulle mani di Bozano ci sono delle escoriazioni: lui dirà di essersele procurate piantando rose per lo zio, che però lo smentirà clamorosamente. Viceversa, in seguito al racconto di due persone che dicono di averlo visto sul monte Fasce, la sera del 6 maggio verrà rinvenuta una fossa scavata di fresco: accanto gli attrezzi usati, che risulteranno essere quelli scomparsi dalla casa di suo zio. Era intenzione dell’assassino seppellirla in quella zona?
L’indizio più pesante tuttavia è la cintura da sub: lui racconterà di averla ceduta con tutta l’attrezzatura subacquea, ma mentre degli altri pezzi si riesce a stabilire la destinazione, rimarrà ignoto l’acquirente della stessa.
Bozano così finisce in carcere, con una montagna di semplici indizi.
Lorenzo Bozano si comporta da detenuto modello, mentre studia una linea difensiva che possa portarlo ad affrontare il processo, che verrà celebrato due anni dopo, con un collegio di difesa di prim’ordine, a capo del quale c’è un penalista eccezionale, Giuseppe Sotgiu.
Bozano è cambiato: l’uomo dallo sguardo freddo e dal comportamento ambiguo si è trasformato in un uomo sicuro di sé. Rilascia interviste, attacca le accuse che gli sono rivolte.
In carcere riceve decine e decine di lettere di ammiratrici.
Durante il processo contrattacca colpo su colpo, aiutato dalla bravura del collegio difensivo. Nega tutto, non ammette nulla. Sarcastico e ironico nei confronti dei testimoni, riesce a instillare il ragionevole dubbio nella corte.
“State credendo a tutti i testimoni che mi accusano. Perché non credete a nemmeno uno di quelli che li smentiscono?”, urla dalla sua gabbia. Nonostante non piaccia a nessuno, per quella naturale antipatia che ispira nei confronti di tutti, riesce a seminare dubbi. l’avvocato Sotgiu, con un’arringa strepitosa, fa il resto: “Non si può giudicare un uomo dalla sua simpatia. E del resto non dimenticate che quest’uomo è entrato in un collegio a sette anni. Cosa poteva aver spinto i genitori ad un gesto così grave?”
Dopo oltre venti ore di Camera di Consiglio, Lorenzo viene assolto per insufficienza di prove.
Nei due anni successivi Bozano vive un’esistenza normale. sposa una ragazza ligure, Eleonora, che gli aveva scritto in carcere. Si sono incontrati e a lei è piaciuto quel giovane dall’aria dura, pur con una fama sinistra. Aprono assieme una boutique, che però è gestita quasi integralmente dalla moglie. A lui interessa dedicarsi alla pittura, un hobby che ha scoperto e coltivato in carcere.
Arriva così maggio del 1976. Bozano sa che il clima attorno a lui, nel processo di appello, non gli sarà favorevole. Cerca di ricusare il giudice Romanelli, che condurrà il processo, revoca il mandato all’avvocato Sotgiu, che lo aveva fatto assolvere, commettendo così un errrore decisivo.
L’altro errore lo commette sottraendosi al processo e scappando in Francia. Dichiarato contumace, viene difeso da un altro grande penalista, il professor Grammatica. Questa volta l’accusa riesce ad ottenere la sua condanna. Ergastolo, e questa volta sono bastate otto ore di Camera di Consiglio. La sentenza è accolta dalle ovazioni del pubblico presente in aurla.
Per tre anni il latitante Bozano gira la Francia. Incappa in un posto di controllo della Polizia e viene arrestato. Le autorità francesi negano l’estradizione, ma espellono l’omicida inviandolo in Svizzera. Qui le autorità elvetiche decidono velocemente di liberarsi dello scomodo personaggio. E lo restituiscono all’Italia.
Per lui sono pronte a spalancarsi le porte del carcere, dove deve scontare quell’ergastolo che anche la Cassazione ha confermato.
All’interno del penitenziario, l’uomo si comporta in maniera irreprensibile. Si diploma e avvia una nuova attività: crea un allevamento di polli. Ma è destino che debba incorrere nuovamente nei guai giudiziari. La sua attività và tanto bene che “dimentica” di dichiarare al fisco guadagni per mezzo miliardo. La Finanza gli contesterà una multa di sei miliardi.
Usufruisce di permessi premio, fino al giorno in cui sembra abbia avuto l’idea di palpeggiare una ragazzina, cosa che gli costa la revoca della semilibertà nel 2001.
I suoi precedenti spingono i giudici a negargli ogni tipo di beneficio. Questa è la storia in sintesi.
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Gli anni terribili dell’ergastolo
Questo che segue è uno stralcio dell’articolo che Lorenzo Bozano scrisse per il giornale dell’istituto di pena di Porto Azzurro “La grande promessa”, nel 1984.
“Sotto cieli di luna, oltre i bastioni della fortezza spagnola, il penitenziario allinea i suoi muri giallastri e le sue cinte rettilinee, mai macchiate dalla massa nera di un albero, turbate solo dal passo cadenzato delle sentinelle armate.
Nella notte la cittadella del carcere non è altro che un complesso di cubi massicci ed inerti, silenziosi, tra i quali le figure taciturne degli ergastolani che vi sono confinati siedono sole, coi loro visi di pietra, ad evocare quello che è stato l’uomo. Agli angoli, lungo un perimetro più vasto, verso il mare, alte garitte troneggiano come idoli mediocri sotto un cielo eccessivo e di un blu profondo come tutto l’universo. I blocchi delle costruzioni insensibili, con le trecento finestrelle fitte di sbarre incrociate, ben raffigurano l’immobile regno in cui sono stato condotto. O almeno il suo ordine estremo, quello di una necropoli in cui l’ergastolo, la pietra e la notte avrebbero finito col far tacere ogni cosa...
Nel ricordo di tutti coloro che li hanno vissuti, gli anni terribili dell’ergastolo, i suoi giorni infiniti, immobili e sempre uguali, non figurano come grandi fiammate interminabili e vividamente crudeli, ma piuttosto come un ininterrotto calpestio che tutto schiaccia e tutto distrugge al suo passaggio. No, l’ergastolo non ha nulla a che vedere con le grandi ed esaltate immagini grondanti retorica suscitate con parole di fuoco da un pubblico ministero nell’aula di una Corte d’Assiste. No. Più che altro l’ergastolo può essere paragonato ad una pena di morte senza plotone di esecuzione, una condanna a vivere nel vuoto e nella sospensione di tutto, in una condizione di vita vegetativa nella quale interviene nell’uomo un progressivo spegnimento della coscienza. E’ una macchina lenta che genera sofferenza, che gira monotona, senza incepparsi mai; che calpesta, dilania, esilia, separa, uccide...”
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