Incontro con Felice Casson,
ex magistrato
già “candidato alternativo”
alla carica di sindaco di Venezia. E’ urgente
realizzare un incontro tra l’esigenza di giustizia
sociale e quella dell’efficienza del sistema
produttivo per dare all’Italia una nuova identità
fuori dallo stallo attuale
Incontro Felice Casson a Ca’ Farsetti, sede del Consiglio Comunale di Venezia, per uno scambio di idee sulla situazione italiana. Gli echi non si sono ancora del tutto spenti, ma la vicenda della candidatura alternativa Casson – Cacciari alla carica di sindaco di Venezia, che l’anno passato ha creato una pericolosa frattura nel centro sinistra non solo a livello locale, va ora considerata un segno della difficoltà del processo di unificazione tra i due principali partiti di centro sinistra, che pure l’esigenza di offrire un’alternativa stabile al berlusconismo richiede.
L’unità del centro sinistra e il “partito unico” sono il passaggio decisivo per la creazione del fulcro di un assetto politico “normale” e stabile in Italia, il punto di approdo della lunga transizione aperta dopo la fine della “prima repubblica”, agli inizi degli anni ’90. Una tale stabilizzazione nel centrosinistra non potrebbe non avere ripercussioni positive anche sugli assetti dello schieramento di centrodestra, una volta che sarà conclusa la parabola berlusconiana.
Un’alternativa al processo di unificazione nel centrosinistra – concordiamo Casson e io - non c’è: lo scenario sarebbe dominato da una crescente frammentazione delle forze politiche e da una endemica ingovernabilità, da una irrecuperabile incomunicabilità, pericolosa per la democrazia, tra politica e società reale. Tutto ciò aggraverebbe la crisi di un Paese come il nostro che mostra oggi segni evidenti di difficoltà a tenere il passo con il mondo.
Gli chiedo il suo punto di vista sul cosiddetto “declino italiano”, ma lui mi risponde che preferisce partire dai problemi concreti.
Il problema della sicurezza, per esempio. Anche grazie alla sua lunga esperienza di magistrato, Casson può dire che questo problema è stato per molto tempo sottovalutato dalla sinistra. Eppure quello della sicurezza è punto di riferimento irrinunciabile di ogni strategia politica. Il concetto di sicurezza – osserva Casson - va inteso a tutto campo, non solo come protezione dal crimine. Vuol dire anche sicurezza sul lavoro, è problema di “morti bianche” e di infortuni, ma anche di inquinamento ambientale, di traffico, ecc.
Mi pare interessante questa concezione larga della sicurezza. Mi stimola a riflettere sulla parola, che proviene dal latino “securus” (secondo l’etimo, “sine – cura”, cioè “senza cruccio”, senza ansie).
La sicurezza in senso essenziale è certezza di sé, della propria identità, delle prospettive, il dialogo non disturbato con se stessi che consente di attingere il meglio dal fondo delle proprie potenzialità. Questa condizione di non essere impediti o disturbati da altro, estraneo, ma di poter essere secondo se stessi, è la libertà stessa nel suo reale attuarsi.
E’ questa sicurezza a tutto campo che oggi deve essere ricostruita nel nostro Paese dopo il disorientamento seguito al cambiamento epocale dell’inizio degli anno ’90, della fine della cosiddetta “prima repubblica”, della globalizzazione.
Da allora il senso di insicurezza e di incertezza generalmente diffuso nella nostra società ha disturbato il senso della nostra identità, ha contribuito a creare l’immagine sfocata che, come Paese, abbiamo oggi di noi stessi, ha generato incertezze e chiusure che hanno avuto effetti negativi sulla nostra vitalità economica e sociale, che ci hanno fatto perdere colpi sulla scena internazionale.
Talvolta, artificiosamente alimentato, il senso di insicurezza ha stimolato la comparsa di atteggiamenti irrazionali, per esempio verso gli extracomunitari che vengono da noi, come in tutti gli altri paesi europei, per trovare condizioni di vita migliori che nei loro paesi di origine, ma che portano con sé anche qualcosa che serve a noi. In primo luogo la loro forza lavoro che è - come nota Casson - indispensabile ormai in molti settori della produzione, per esempio, del Veneto. Ma anche il loro dinamismo, le loro culture d’origine, il loro contributo demografico, in un Paese in cui le morti sono più numerose delle nascite. La immigrazione in atto non può essere impedita, è l’effetto e il contraccolpo “geologico” degli immensi squilibri prodottisi nel mondo in questi ultimi secoli di industrializzazione e di globalizzazione delle relazioni e degli scambi.
Sta avvenendo una gigantesca transazione tra paesi ricchi e paesi emergenti: questi ci mandano una parte delle loro risorse umane migliori, noi delocalizziamo da loro investimenti, tecnologie, interi settori delle nostre attività produttive. Come in un sistema di vasi finalmente comunicanti, è un immane riequilibrio quello che sta avvenendo, tra parti dell’umanità e del mondo. E’ inevitabile ed irreversibile, sostanzialmente positivo, ma va governato con lungimiranza in tutte le sue fasi, perché potrebbe, per la sua stessa immensità, nel suo attuarsi incontrollato avere alti costi umani ed ambientali.
E’ovvio che in questa situazione, in cui il panorama del mondo cambia in modo vertiginoso, un Paese deve avere un punto di riferimento stabile, che non può essere che una sicura visione di sé, di ciò che vuole essere nel futuro, per tenere la rotta.
Ma il mondo, prima che intorno a noi, sta già tra noi. Gli immigrati extracomunitari ce lo hanno già portato dentro. Uno dei problemi più urgenti è quello di inserirli adeguatamente nella nostra società. Bisogna avere chiaro che la fase iniziale dell’inserimento è quella più importante. Noi abbiamo bisogno che l’integrazione riesca da subito, perché un’integrazione ritardata è già di per sé mal riuscita. E una integrazione mal riuscita può avere effetti negativi di lunga durata sulla società, costituire una “cura” che rende più difficile alla nostra società di essere “sicura”, cioè libera di esprimere la sua indole profonda.
Non siamo in una situazione analoga a quella della Francia, dice Casson. Lì l’immigrazione è più antica, i giovani delle banlieues protagonisti delle rivolte dell’anno scorso sono nati in Francia da genitori spesso anche loro nati in Francia. Non hanno più una terra d’origine di riferimento. Ma il Paese che a tutti gli effetti è il loro Paese non li considera ancora dei cittadini a pieno titolo. Si sentono fuori da tutto: non più magrebini, non ancora francesi.
La nostra situazione è diversa, prima di tutto perché l’immigrazione da noi è più recente. I nostri immigrati si sentono ancora “ospiti”, hanno ancora legami forti con i loro paesi d’origine e sono principalmente preoccupati di farsi accettare. Bisogna evitare che i legami con le loro madrepatrie si affievoliscano prima che siano diventati robusti e definitivi quelli con la nostra comunità nazionale. Il nostro ritardo nell’esperienza di dover fare fronte ai problemi dell’immigrazione potrebbe tradursi per noi in un vantaggio, potendo far tesoro delle esperienze e degli errori altrui.
In ogni caso – mi pare - risolvere questo problema non è una cosa semplice, come non lo è mai quando si deve lavorare sulle identità. La nostra concezione dell’appartenenza è legata all’idea di nazione. La “nazione” è un prodotto tipicamente europeo, solo tardi e a fatica esportato dal nostro continente nel mondo.
In Europa – a differenza, per esempio, degli Stati Uniti o dell’Australia, l’identità nazionale è stata creata da una storia secolare, da una cultura comune, da almeno un millennio di continuità e relativa stabilità etnica. Per farvi entrare veramente gruppi consistenti provenienti da altre etnie, tradizioni e storie bisogna ripensare a fondo questa identità nazionale, nel senso che, senza perdere la radice della sua memoria deve farsi più progettuale, più aperta al futuro. Il passato è compiuto, i nuovi arrivati non possono entrare a farvi parte, ma possono entrare a far parte della nostra identità nazionale dalla parte della sua proiezione al futuro. Bisogna farlo, perché la questione dell’integrazione degli extracomunitari non è di natura semplicemente morale - filantropica, ma è questione strategica nazionale.
Fin da ora si decide se la società italiana del futuro, grazie ad una integrazione riuscita degli immigrati, sarà più forte, più dinamica, più aperta e “mondializzata”, oppure solo più cristallizzata, frammentata, “insicura” e incattivita.
Bisogna dunque fare da subito le mosse giuste. Il problema ha dei risvolti culturali, morali, psicologici, ma ha anche un robusto fondamento economico. Non si risolve tutto assicurando agli extracomunitari casa e lavoro, ma certo - dice Casson - questa è la condizione da cui è possibile affrontare le complesse sfide sugli altri piani.
La “sfida dell’integrazione” si vince o si perde fin dalle sue prime battute. Vincerla vuol dire dare al Paese del futuro una chance essenziale. Da come un Paese accoglie ciò che viene da fuori si evince il come esso sa farsi accogliere, la sua fortuna nel mondo.
Anche il problema della mafia, altra secolare spina nel fianco del nostro Paese, non è un problema esclusivo di ordine pubblico. Certamente – come riafferma Casson - si affronta sul piano del risanamento economico, ma anche sul piano culturale, della definizione di una forte moralità pubblica, sulla quale ci si è in passato poco impegnati. E qui emerge un altro elemento di storica “insicurezza” della nostra società: la tradizionale debolezza del senso della moralità pubblica nel nostro Paese. Questa debolezza spiega in parte la ragione per cui il problema della mafia è ancora oggi ben lungi ancora dall’essere risolto.
La questione morale torna di attualità solo quando scoppiano degli scandali. Quando il caso esplode, ne parlano i mezzi di comunicazione. L’informazione dell’opinione pubblica, la denuncia della corruzione e degli abusi è assolutamente necessaria, ma è dubbio che questo sia sufficiente per creare una sensibilità morale comune più forte e diffusa. Anzi, al contrario, se non è seguita da una robusta azione di risanamento e di moralizzazione permanente della nostra vita pubblica, la rivelazione continua di episodi di corruzione e malaffare può perfino produrre assuefazione, rassegnazione, qualunquismo.
In realtà troppo poco si è fatto per sensibilizzare i cittadini sulla necessità di una moralità pubblica generalmente condivisa e praticata. Eppure questo è uno dei compiti primari della politica. La moralità pubblica ha alla sua base la moralità privata. Comportamenti corretti del cittadino comune, che rispetta i beni pubblici, non evade le tasse, non chiede raccomandazioni, non assume in nero, ecc. Certo, la corruzione e gli scandali ci sono ovunque, ma da noi, pare, con frequenza e con gravità forse maggiore che nei paesi a noi omologhi. Questo configura l’esistenza di un “gap morale” a nostro svantaggio che vuol dire concretamente minore affidabilità, maggiore dispersione delle risorse e delle energie, minore efficienza del nostro sistema.
La “questione morale” non è solo morale. E’ problema strategico del corretto funzionamento di un sistema Paese. Bisogna che sia chiaro a tutti che in un Paese moderno l’efficienza (e dunque il benessere) dipende in larga misura dal suo livello di moralità economica ed amministrativa.
In questo campo, della moralità pubblica, afferma Casson, questo governo ha fatto i guasti più profondi. Non solo non ha dimostrato alcun interesse ad elevare la moralità pubblica e ad estirpare il fenomeno delle mafie (affermando addirittura che “bisogna conviverci”), ma - e questo è davvero gravissimo - ha mostrato di non avere compreso l’inscindibilità della moralità pubblica dalla efficienza del sistema. Peggio che non averlo compreso, ha favorito una pericolosissima controtendenza - con i condoni, con una serie di leggi come quella che stabilisce la depenalizzazione del reato di falso in bilancio - che rischia di sospingerci su livelli di moralità pubblica (e quindi di efficienza economica ed amministrativa) da terzo mondo.
Riguardo alla pretesa diminuzione dei reati nel Paese rivendicata dal governo - osserva Casson - bisogna fare delle distinzioni. Alcuni reati sono diminuiti, ma altri invece sono aumentati di numero. I numeri, combinati in modi diversi, possono servire a sostenere tesi diverse.
Anche a me pare che in un Paese – come è il nostro - dove gli squilibri territoriali e sociali sono aumentati in questi ultimi anni (tra zone, tra categorie e gruppi sociali) e dove la politica di integrazione degli extracomunitari non ha ancora strumenti legislativi ed economici adeguati, è difficile pensare che vi sia un’autentica, strutturale diminuzione della criminalità. Il governo del centro sinistra, se vincerà le elezioni, dovrà riprendere in mano seriamente la questione della criminalità, in termini non propagandistici (le operazioni spettacolari sostanzialmente ad usum TV) ma sostanziali, partendo dal dato di fatto che intere regioni del Paese sono quasi sottratte alla sovranità nazionale e legando la politica dell’ordine pubblico a quella del risanamento economico e della definizione di strategie di recupero di zone, gruppi ed individui a rischio di emarginazione e di esclusione.
Un altro elemento di insicurezza è costituito dalla minaccia del terrorismo internazionale. Essa non va affrontata – dice Casson – a prezzo di una alienazione della sovranità nazionale (che è il fondamento stesso della “sicurezza”, della libertà), come pare sia avvenuto anche di recente, con la conduzione di operazioni illegali (rapimenti di cittadini stranieri sul nostro suolo nazionale) da parte di agenti della CIA americana. Oltre tutto, ricorrere alle stesse modalità di azione del nemico (operazioni clandestine, pratiche illegali, immorali e ripugnanti come la tortura) indica di per sé una subordinazione culturale e psicologica ad esso, segnala che esso è riuscito a farci affondare al suo livello morale, ad omologarci a sé. Ma noi vinciamo solo se riusciamo a mantenere su di esso una superiorità, un “vantaggio” morale.
La gestione dei nostri Servizi risente di una legislazione inadeguata. La loro legge istitutiva risale al 1977 – osserva Casson - ad un’epoca in cui c’era ancora la guerra fredda e la divisione Est – Ovest, nella quale dunque la situazione mondiale era completamente diversa da quella attuale. Andrebbe perciò rivista alla luce delle esigenze di oggi.
Passiamo a temi più generali. E’ abbastanza un luogo comune mettere in dubbio la capacità di tenuta al governo del centrosinistra. Ed effettivamente questo è un punto delicato per uno schieramento che si propone come alternativa alla gestione del Paese compiuta in questi anni da Berlusconi e dai suoi alleati.
La maggiore difficoltà di aggregazione nel centrosinistra deriva in primo luogo dal fatto – credo - che nel confronto politico in questo schieramento pesano di più le idee, ed è di per sé più difficile conciliare idee che interessi; tra di questi si può quasi sempre arrivare a dei compromessi, a delle transazioni, specie quando a fare da perno e “mètron” di tutto è l’interesse di uno solo, come è accaduto al governo in questi ultimi anni. Tuttavia l’unità del centro sinistra – va ribadito - è imposta dalla realtà. Se lo schieramento si sfarinasse poco dopo essere giunto alla responsabilità di governo sarebbe una sciagura gravissima per il Paese, sarebbe il segno che il faticoso processo di transizione iniziato all’inizio degli anni ’90 verso un assetto stabile e “normale” di questo Paese è fallito. Ci troveremmo completamente allo sbando. Viceversa una tenuta del centrosinistra al governo avrebbe certamente un effetto normalizzatore anche sullo schieramento opposto, dandogli il tempo di smaltire in qualche modo la ingombrante eredità berlusconiana e di trasformarsi in una “normale” moderna destra europea.
Un riferimento alla spaccatura avutasi nell’ultima elezione del sindaco nel centrosinistra è a questo punto inevitabile. La divisione non ha fatto bene a nessuno, dice Casson, ma bisogna guardare avanti. Il “partito democratico” del centrosinistra è un obiettivo molto impegnativo e complesso, ma da perseguire con forza e convinzione, senza nasconderci che si deve compiere una sintesi tra sensibilità e storie, insomma tra identità consolidate, diverse. Ci vuole un forte senso della realtà, una grande elaborazione di pensiero, l’uso di nuovi schemi mentali, insomma una nuova cultura politica, che però non deve negare le radici etiche e sociali su cui è cresciuto il movimento dei lavoratori in Italia.
L’ispirazione “armonizzatrice”, interclassista dei liberaldemocratici dovrebbe sintetizzarsi con quella “dialettica” della sinistra di derivazione marxista. Se è fallito il modello dell’economia pianificata applicato nei paesi ex socialisti non si può dire che abbia avuto successo il modello liberista, ispirato al darwinismo sociale. Non solo per il prezzo che impone, in termini di devastazione sociale ed ambientale, ma anche per i rischi di instabilità e di crisi violente ad esso connessi.
Il punto di incontro ideale tra le diverse tradizioni va trovato nella stretta connessione tra l’esigenza di giustizia sociale e quella della efficienza del sistema Paese, nella comune azione per dare all’Italia una nuova identità e guidarla fuori dallo stallo in cui è stato cacciato dal lungo periodo della “leggerezza” craxiana - berlusconiana.
In fondo l’esigenza armonizzatrice e quella di giustizia sociale nell’azione politica ed amministrativa concreta si incontrano. Ma di questo incontro il corollario sta nella riforma della concezione della politica. L’idea della politica come pratica di partito, maturata nella resistenza e nel primo dopoguerra si è esaurita nei primi anni ’90. Un’idea diversa ha cominciato faticosamente a concretizzarsi con l’affermazione nel nostro Paese del bipolarismo. Ma la riforma elettorale introdotta a fine legislatura dalla attuale maggioranza va purtroppo nel senso di invertire la tendenza alla semplificazione della politica, rende più lunga, complicata ed incerta la mediazione, torna ad attribuire un ruolo centrale proprio agli apparati di partito, ciò che rischia di soffocare la partecipazione dal basso, afferma Casson.
Anche a me pare essenziale opporsi ad un sistema elettorale che colpisce al cuore la libera esplicazione della politica, tornando ad assegnare un ruolo centrale agli apparati di partito, alle loro miopi astuzie di corrente, alle manovre autoreferenziali dei loro vertici, alle loro tentazioni oligarchiche. Tutto il contrario di quanto hanno dimostrato di volere gli elettori del centro sinistra che gran numero hanno partecipato alle primarie nazionali e locali.
Bisogna tornare a riflettere sull’essenza della prassi politica. Ogni vera prassi ha un fine “teoretico”, contemplativo. Quale è il fine contemplativo della prassi politica? E’ – secondo me- quella visione del popolo “sicuro”, cioè “felice”, che induce Faust, che non lo ha fatto davanti a nessun altro piacere o spettacolo della vita, a chiedere, all’attimo di fermarsi.
Credo che si debba dire – rovesciando un luogo comune fortemente radicato – che la politica non è cosa “da professionisti”, ma “da visionari”. Anche se poi accade a chi la fa di farlo per tutta la vita, non si deve mai dimenticare che la politica – come afferma Platone nel libro VII della Repubblica – bisogna farla “controvoglia”, pagando un prezzo privato (munus) a ciò che è comune (cum – munus), cioè richiede al singolo individuo di pagare un prezzo.
In Italia non vi è mai stata un’autentica “moralità comune”, ma solo una morale religiosa o di partito. La moralità è stata mezzo per guadagnarsi il paradiso, o per attuare un disegno di conquista del potere e di alternativa di sistema. Ma la moralità comune è il modo con cui una comunità concretamente coopera a realizzare ciò in cui può rispecchiarsi soddisfatta, ed essere nel senso più profondo“sicura”. La moralità comune evita la cura, l’infelicità della doppiezza, della incongruenza tra quello che publice si dice, e quello che privatim si fa.
La sinistra – osserva Casson – sul tema della moralità è di gran lunga più sensibile, tanto da farsi un cruccio – a differenza della destra - della minima ombra che possa cadere sulla moralità dei suoi esponenti. Ma anche la sinistra – aggiungo - deve fare dei passi in avanti. La sua è stata a lungo una moralità “antagonistica”, volta cioè ad affermare una diversità da usare come chance politica, e per non prestare il fianco all’avversario, piuttosto che intesa a rinforzare il nucleo di un’etica civile universalmente condivisa.
La prova di ciò è che quando si esce dal mondo ideologicamente “protetto” – come è avvenuto di recente con la vicenda Unipol, per entrare nel “grande mare” del mercato capitalistico, si corre il rischio, lasciando le proprie radici, di diventare “come gli altri”, perché non c’è più la morale di partito, ma non c’è nemmeno un’etica comune, civile universalmente condivisa.
Ma, se in Italia la moralità civile è carente, è perché non è stata - dopo quella retorica e bugiarda del fascismo - elaborata un’idea di nazione a cui poterla ancorare e finalizzare. Questo è il compito principe della nuova politica.
Con il tramonto dell’utopia abbiamo rinunciato a realizzare la perfezione ideale, l’ottimo in assoluto. Abbiamo iniziato un processo di laicizzazione e di “pragmatizzazione” della politica. Ma ciò non può comportare l’intorbidamento del suo nucleo ideale, la perdita della meta contemplativa “faustiana” della prassi politica.
Se la pratica politica perde il suo anelito contemplativo - mi pare - la società non sa dove andare. Ma questo vive solo contestualizzandosi, nutrendosi di problemi pratici. La politica italiana sarà tanto più idealmente viva quanto più sarà sprovincializzata, fortemente incardinata e contestualizzata nel mondo, nei mutamenti epocali che esso sta subendo.
L’interdipendenza globale che si va attuando pone a chiunque voglia svolgere un ruolo attivo nel mondo dei compiti decisivi. Il degrado ambientale che minaccia l’equilibrio del mondo è prodotto in parte - e lo sarà sempre più - dalla miseria e dall’emarginazione di buona parte dell’umanità. Sono problemi immensi, che ci riguardano direttamente. L’obiettivo di battere la povertà e la fame nel mondo entro tempi certi, di elevare in modo significativo il livello culturale medio delle masse escluse dal benessere dei paesi avanzati, di salvaguardare la diversità delle culture, non è meramente filantropico, corrisponde ai nostri interessi strategici nazionali. Chi lavora di più su questo piano, chi conquista prestigio e consenso grazie a questo impegno, avrà un ruolo primario non solo morale, ma anche economico e politico nel mondo.
Lo schieramento di centro sinistra ha avuto in passato nella politica estera uno dei suoi punti di frizione interna più forti. Entro un quadro che abbia nelle Nazioni Unite il suo punto di riferimento essenziale è possibile – concordo con Casson – realizzare una convergenza che consenta al Paese di avere una politica estera dinamica, ma di pace, coerente con gli interessi strategici del Paese, ma allo stesso tempo rivolta alla tendenziale creazione di un ordine mondiale caratterizzato da momenti e forme di crescente concertazione e di governo mondiale (per esempio nel campo ambientale, energetico, della cooperazione economica, dei diritti umani, ecc.).
In conclusione, ciò che traggo da questa conversazione con Casson è che l’idea di una società nel senso più profondo “sicura”, cioè non assediata dalle cure, non indebolita e tormentata da spine nel fianco, libera di essere secondo se stessa, può divenire il fondamento di una “nuova politica” capace di suscitare l’adesione e l’entusiasmo delle giovani generazioni, ora distaccate e diffidenti nei confronti di ciò che è comune. Ad esse va ricordata l’indicazione del finale del Faust goethiano: non c’è visione più bella ed appagante, che dia senso alla vita di un uomo, di quella offerta da una comunità che egli ha contribuito a rendere prospera e sicura.
FOTO: Felice Casson
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