Chi si ricorda più del Kosovo a quasi sette anni dall’inizio di quella guerra? Dico dall’inizio per enfatizzare il momento in cui il mondo, l’Europa e l’Italia hanno puntato i riflettori su una casella della grande scacchiera della politica internazionale fino a quel momento trascurata. Nel marzo del 1999 era divampata la guerra “calda”, immediatamente seguita dalla ripresa della gestione politica e diplomatica di quella crisi. Tale fase continua ad impegnare ancora oggi gli addetti ai lavori: per loro quel fatto non è mai finito.
E la pubblica opinione? La gente comune, cosa ricorda del Kosovo? Poco.
Sviluppare il ricordo di certe vicende non è compito demandato alla gente comune. Certo non alla moltitudine che ogni giorno deve affrontare i problemi pratici della famiglia, del lavoro, della politica di casa nostra. Non spetta più a chi deve fare i conti con le nuove “incombenti paure del terrore”, più attuali e minacciose rispetto a quel “lontano 1999”, allorquando, nel cuore della notte, in diverse parti d’Italia (sicuramente nel nord-est), si sentiva il rombo cupo dei jet che ad altissima quota, in formazioni serrate, si dirigevano verso le coordinate di sgancio.
Eppure, anche a tanto tempo di distanza, sarebbe saggio tenere uno “spioncino” aperto e puntato con una certa attenzione su uno scenario dove nostri concittadini, in uniforme e no, continuano a lavorare ed operare per un fine che deve essere giusto e di altro profilo per forza di cose, considerando i notevoli sforzi, umani ed economici, che il nostro Paese (e più in generale la comunità internazionale) continua a riversarvi.
Per logica, la disquisizione (solo questo vuol essere), prende spunto dall’arrivo in “teatro di missione” del primo contingente della Polizia di Stato: settembre 1999. A quel punto l’Italia (in compagnia di parte “del resto del mondo”), aveva già un suo posto in prima fila nel contesto della crisi balcanica e le Forze armate rivestivano ruoli di primo piano nella apposita struttura Nato denominata Kosovo-Force. Con i Carabinieri già presenti in forze e la Guardia di Finanza che veniva ad affiancare la Polizia nell’Unmik Police, lo sforzo dell’apparato statale risultava pressoché completo; la ciliegina sulla torta si avrà alla fine del 2003, allorquando anche le Poste Italiane forniranno il loro contributo nella gestione di un apposito Ufficio all’interno della nostra Base militare. A quel punto c’eravamo proprio tutti.
Per il personale in funzione di Polizia che andava a servire sotto la bandiera blu dell’Onu si dischiudeva “un mondo del tutto sconosciuto”, fatto di lingua ufficiale inglese (per dialogare con quella albanese e serba), con regole e regolamenti nuovi da applicare ad un contesto ancora ufficialmente classificato “di guerra”. Il servizio, 24/7 - “twentyfourseven”, formula utile ad indicare che sei considerato “on duty”, 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, viene svolto spalla a spalla con nuovi colleghi provenienti da mezzo mondo: va da se che la comprensione reciproca (nel senso più ampio del termine) è la prima impresa titanica da superare. Ce n’era abbastanza per iniziare a porsi una domanda: E’ moh; e adesso? Il quesito, come logico, viaggiava dalla base verso il vertice (e fin qui tutto normale). Quando però la stessa rimbalzava dall’alto verso il basso si aveva l’impressione che la situazione, definita formalmente “fluida”, avesse in realtà un consistenza assolutamente liquida.
Al tempo sorridevo ripensando ad un divertentissimo libro di “Carpiteri & Faraguna” dove, con ironia, era descritta una scena di grottesca umanità. Faceva così: “durante la grande guerra un soldato semplice viene assegnato quale autista di Sua Altezza Reale l’Arciduca, comandante le Forze Austro-Ungariche sul fronte orientale. Considerato il suo particolare incarico, il fantaccino viene sollecitato dai commilitoni a chiedere al comandante supremo “quando sarebbe finita quella sanguinosa guerra”, domanda alla quale, dall’alto della sua posizione, il reale avrebbe sicuramente dato risposta. Nonostante le continue pressioni il soldato non trova mai il momento giusto per porre il quesito; frattanto le vicende belliche proseguono con logiche sanguinose, che sfuggono alla comprensione della truppa. Passano i mesi e le battaglie. Un pomeriggio di calma nella lotta, sulla vettura da campo l’Arciduca sembra assorto in pensieri sognanti che inducono il soldato a ritenere propizio il momento. Sta per trovare il coraggio di parlare quando il comandante, con occhio distratto lo guarda e, quasi parlando a se stesso, dice: “soldato, secondo te, quando finirà questa sanguinosa guerra?”. Ricordando tale racconto tragicomico la situazione in “teatro” di missione risultava meno incredibile e più consona all’andare delle cose. Uguali, sempre e dappertutto.
Umorismo a parte (qualità peraltro mai mancata agli italiani), la situazione “sul campo” risultava decisamente difficile, sotto tutti i punti di vista: la sicurezza della popolazione (ove la ex maggioranza serba, ora minoranza, e una moltitudine di altri gruppi etnici e culturali invisi alla nuova maggioranza, si trovavano esposti a sanguinose ritorsioni), la situazione delle infrastrutture (disastrosa al punto che la fornitura di luce, riscaldamento ed acqua altalenavano “dallo scarso al nullo”), nonché tutti gli altri aspetti della civile vita quotidiana, che da noi non vengono più posti in discussione ma che rivelano tutta la loro importanza e fragilità in situazioni di vera crisi (qualcuno, anche in Italia, sa cosa significa lacune nel servizio di smaltimento dei rifiuti. Immaginate se invece di giorni la lacuna si protrae per mesi….).
La situazione che vive la popolazione è la stessa che tocca al personale in servizio, legato nel bene e nel male alla qualità della vita dei locali (come del resto si confà ad un servizio di polizia democratico). Fortunatamente la solidarietà nazionale non è mai venuta meno e la generosità delle varie strutture nazionali poneva una “toppa solidale” nei frangenti più duri. Solidarietà nazionale: sembra che tutte le qualità umane che risplendono sul campo trovino, invece, una certa antipatia ai vari piani superiori, allorché la cooperazione tra soggetti appartenenti a diverse amministrazioni risulta “ufficialmente auspicabile” ma, in realtà, viene “ufficiosamente e decisamente sgradita”. Chissà perché? E pensare che i miei ricordi più cari sono legati a foto di gruppo dove tutti i colori delle diverse uniformi italiane si amalgamano a formare una mirabile sinergia di professionalità e compattezza. Boh?! L’operare sparsi sul territorio, isolati da “centri di gravità” che aiutano a formare pensieri “politically corrects”, porta a valutare i fatti con occhi critici. Risultava allora difficile capire come mai i nuovi referenti locali della politica internazionale fossero gli stessi personaggi che spiccavano negativamente nei rapporti di intelligence in qualità di mandanti di efferati delitti o sostenitori di politiche spregiudicate che minacciavano la stabilità dell’intera area. O perché alcuni soggetti, sempre gli stessi, venivano indicati dalla stampa locale come “graditi ospiti serali” di alcune importanti delegazioni diplomatiche, quando gli stessi, “di giorno”, venivano additati all’unisono quali fomentatori di un odio etnico che sarebbe stato invece necessario seppellire per sempre…? Ciò fa parte di un livello di gioco che rimane necessariamente interdetto a pedoni e cavalli, dischiudendosi forse a partire dall’alfiere o pedine superiori.
Lavorare “on the field” riduce necessariamente l’orizzonte e restringe il “campo di tiro”. Però consente di soppesare meglio i risultati nefasti della realtà. Se i “riot”, le rivolte scatenate dagli albanesi contro i serbi nel marzo 2004, hanno impetuosamente riacceso, per un attimo, i riflettori dei mass media internazionali sul Kosovo, altri episodi eclatanti sono passati quasi in sordina. Uno per tutti: la strage di bambini serbi che giocavano sulla riva del fiume nei pressi del Villaggio di Gorazdevac. Alcune raffiche di Kalashnikov e la tragedia si aggiunge alla tragedia, in una spirale senza fine.
A proposito: come procedono le indagini di Polizia che devono risolvere gli atroci delitti e consegnare i responsabili alla giustizia? Non troppo bene. Pochi dei casi più sanguinosi vengono risolti. Le ragioni sono molteplici ed abbastanza comprensibili: la situazione sul campo è veramente bollente e la popolazione locale non vuole o non si arrischia ad aiutare le indagini della Polizia (la paura di una ritorsione violenta è tutt’altro che campata in aria); inoltre gli strumenti a disposizione non sono abbastanza affilati.
In pratica si tratta di operare in un difficile contesto in “stile mafioso” senza poter però disporre degli strumenti d’investigazione appropriati, quali le intercettazioni telefoniche (fattibili ma date con il contagocce) o ambientali (praticamente impossibili da installare). E con scarse probabilità di successo in caso di pedinamento. E senza capire veramente ciò che i locali “intendono dire”. E... e… e...:basta! Abbiamo già capito che le peace keeping operations devono mirare a stabilizzare la situazione, puntando poi ad aiutare la popolazione locale a rialzarsi in piedi prendendosi carico delle proprie responsabilità. C’è un sassolino che voglio togliermi dalla scarpa. Il management dell’Unmik Police, gli International Police Officer arrivati ai vertici della struttura, qualche volta sembrano “disorientatati” sulla direzione da prendere e “confusi nel gestire quello che l’Unmik Police ha”. Niente paura: fra i responsabili dei piani superiori non ci sono italiani. Sfortunatamente. Si, perché l’impressione professionale che maturano tra i connazionali è che, se ci fosse qualche nostro funzionario al posto giusto a gestire le cose, forse molte cose andrebbero meglio. La solita presunzione italiana? D’accordo, un po’ di amor patrio ce lo metto, ma non è solo questo. A guardare i top brass dell’Unmik Police ci si trova a confrontare “quelle scuole” con le nostre, quei gentlemen con i nostri. A valutare il loro operato con quello dei nostri. Alla fine la conclusione è che “uno dei nostri”, alcune situazioni le gestirebbe meglio. Sul campo i nostri funzionari dimostrano agli altri internazionali che a risolvere i problemi “noi ci sappiamo fare”, se solo “ci lasciate lavorare”. Forse proprio per questo non li lasciano fare. Anzi, a certi livelli, dove il fair play è solo una delle facce di Giano, si guardano bene dal lasciare spazio ai nostri funzionari, che devono così accontentarsi di ruoli importanti ma non decisivi.
Da soli, senza la dovuta copertura politico-strategica di “alto profilo” (quella che arriva prima dell’inizio di una missione e se ne va solo dopo la fine della stessa), anche i migliori commissari devono mordere il freno. Non che vada meglio negli altri settori della “grande gestione aziendale”: Al cambio di Srsg (Special Representative of the Secretary General, il responsabile dell’intera missione) l’Onu dichiara di preferire ad un nostro ambasciatore (definito “con scarsa esperienza”) un ex ministro finlandese (che dimostrerà, lui si, nessuna esperienza). Inutile dire che dietro c’era dell’altro…!
Ho citato i funzionari; e gli altri? Operatori rappresentanti di tutti i ruoli e gradi definibili “outstanding” (ossia, assolutamente notevoli dal punto di vista professionale ed umano), ve ne sono molti. Bravi e meritevoli tantissimi altri, quasi tutti. In questa “no rank mission”, dove cioè il grado rivestito nella propria amministrazione non è vincolante ai fini dell’assunzione di responsabilità ed incarichi, l’Unmik Police questo l’ha già riconosciuto. Pochi esempi per tutti. Vi sono degli agenti scelti che si sono proposti e sono stati scelti per reggere le sorti di Police Stations o, addirittura, di intere strutture provinciali di Polizia (in pratica, con le intuibili differenze di contesto, un lavoro da questore, anche se decisamente semplificato sotto l’aspetto burocratico). E lo fanno con polso fermo ed intuito illuminato, sì che gli encomi da parte degli altri colleghi di mezzo mondo sanciscono una promozione sul campo difficilmente concepibile in situazioni normali. Ora, sarebbe una dimostrazione di signorilità se la nostra dirigenza (quella che più conta per gli interessati) rendesse merito “agli altri”, ai sottoposti, riconoscendogli meriti e pregi.
Il Kosovo non è solo vicende di uomini e donne, singoli o riuniti in reparti operativi, civili o militari, nazionali o internazionali. Anzi, principalmente non lo è affatto. E’ la realtà della grande strategia politica che viene giocata senza sosta a sostegno di questo o quel “grande disegno”, con scale di misura che vanno dal “livello regionale” a quello “globale”. I piccoli numeri contano poco. Le buone intenzioni ancora meno.
Chi ci ha guadagnato e chi rimesso nel contesto del Kosovo? Io questo non lo so. Solo una ragioneria di stato può fare certi conti, bene sapendo quanto pretende “l’oste” di turno. Vero è che personalmente mi sono tolto certi dubbi. Per esempio: nel 1992 o giù di li, sentendo di sfuggita al telegiornale che una “certa Potenza” aveva fortemente patrocinato l’indipendenza della Macedonia dalla Jugoslavia, installandovi già alcune basi militari, mi ero chiesto: ma dov’è la Macedonia. Andando poi in missione ho capito dov’e la Macedonia: attaccata al Kosovo. Inutile dire che anche qui l’avveduta politica della proiezione di potenza ha posto solide basi. Militari.
Il Kosovo è, più che mai, in una situazione di transizione: è un Paese in mezzo al guado: “tra un passato certo ma quasi tutto da dimenticare, ed un futuro ancora da costruire”. La complessa realtà delle sue etnie e le ragioni che ognuna di esse detiene non verranno sanate da miracoli, ma solo da una instancabile ed illuminata diplomazia di compromesso. A ciò dovrà pensarci l’Unione Europea che, a breve, subentrerà alle Nazioni Unite al difficile timone dell’imbarcazione kosovara. E l’Italia? Noi saremo per forza di cose sulla barca, probabilmente vicino al timoniere di turno (quanto vicino, si vedrà), con molte responsabilità e oneri.
Auspicabilmente tale impegno verrà compensato dal corale riconoscimento al nostro Paese di un ruolo di primo piano nella partecipazione alla gestione della grande politica internazionale: forse è questo il servizio più rilevante che gli uomini e le donne inviati “in missione” rendono ai loro Paesi. In un certo senso anche il nostro Paese, dopo “sette anni in Kosovo”, è in mezzo al guado della grande politica.
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