Alle Scuderie del Quirinale, una mostra
con opere di Alberto Burri, e di artisti che, nella seconda
metà del secolo scorso spinsero
la loro ricerca oltre le frontiere dell’informale
“Rosso plastica” del 1962 campeggia nella campagna immagine della mostra “Burri. Gli artisti e la materia 1945 –2004” in corso fino al 16 febbraio alle Scuderie del Quirinale. In quella plastica bruciata, nelle sue colate dolorose e accecanti, sta anche la poetica dell’artista umbro. Ma sta pure nei suoi sacchi di juta ricuciti, nel suo cellotex screpolato, nel fuoco-ricordo dei legni combusti, nel bianco imperfetto e nel nero infernale dei cretti. Alberto Burri arroccato nel suo silenzio. Burri, reduce dalla prigionia di un campo di concentramento americano, Burri cacciatore, Burri generoso, Burri silente. Sono dieci anni che Burri non c’è più. Questo il motivo, uno dei motivi, dell’omaggio romano. Ma non solo. Se Burri è oggi giustamente riconosciuto e apprezzato (alle varie aste le sue opere si battono per cifre considerevoli), è stato anche ormai riconosciuto come l’iniziatore di un’epoca, la scintilla che ha dato il via ad altri fuochi che hanno preso, a seconda delle circostanze geografiche e culturali, strade diverse ma partendo da un comune assunto. La tela e il pennello non bastavano più. La forma, già indagata e ribaltata in astrattismi, impressionismi, aveva sì lasciato il figuratismo, ma anche quella era insufficiente. Era la materia del dipingere, e la materia del vivere, era il segno, oltre che il simbolo che reclamava la sua identità e la sua forza. E in questo Burri ha davvero segnato un’epoca. Perfino l’ultimo dei grafittari gli è in un certo senso debitore. Ben lo si capisce visitando la mostra, curata da Maurizio Calvesi e Italo Tomassoni con il fondamentale apporto di Maria Grazia Tolomeo, Rosella Siligato, Chiara Sarteanesi e Lorenzo Canova. Insomma Burri è stato il punto di riferimento a cui guardare, anche se a volte, come nel caso di Rauschenberg, i padri vengono misconosciuti o riconosciuti solo quando non ci sono più. Nessuna altra, in effetti, tra le ricerche pittoriche degli anni Cinquanta in Occidente, è paragonabile all’opera di Burri per radicalità d’innovazione linguistica e per ampiezza di influssi esercitati.
Se oggi le emozioni corrono veloci e arrivano a destinazione è forse anche per il mutare dei tempi. Quando Burri espose i suoi sacchi, nella seconda metà del secolo scorso, l’impatto fu fortemente provocatorio sulla società dell’epoca. Alla Quadriennale del 1955 o alla Biennale del 1958, lo scandalo fu autentico e violento; molto perplessi rimasero persino i fautori dell’astratto. E quando, verso il 1960, un “sacco” apparve nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna, si ebbero interpellanze parlamentari e persino denunce all’Ufficio di Igiene. Ma al di là dei clamori scandalistici, cosa era veramente successo in quel decennio e cosa stava succedendo nel mondo dell’arte?
Un passaggio cruciale
Si era verificato uno dei passaggi cruciali dell’arte del XX secolo. L’Informale fu l’autentica frattura che aprì il nuovo corso dell’arte nella seconda metà del secolo.
Non un movimento, l’Informale, ma una tendenza dai molteplici aspetti, che comincia a maturare nei tardi anni Quaranta, ma si definisce e acquista sempre maggior forza nel corso dei Cinquanta, estendendosi a tutto l’Occidente. Se in precedenza la materia era stata il veicolo fisico della forma, o per così dire la sua ancella, ecco che il rapporto tende ora a invertirsi; la forma è subordinata alla materia, che insieme al segno e al gesto, ovvero all’esibita e spesso brusca azione del dipingere, assume un ruolo protagonistico, aprendo la via a ulteriori strappi nella concezione tradizionale del quadro.
Gli artisti presenti in mostra accanto e con Burri si succedono in un percorso che è in parte cronologico e geografico, e in parte di assonanza professionale.
Fautrier, Dubuffet e Fontana
La poetica di Fautrier non è quella della terra ma, con le sue tonalità più chiare, canta segretamente presagi e struggimenti della carne destinata alla terra.
Rispetto alla levitante materia di Fautrier, che resta soffice anche nei suoi tratti più scabrosi, le stratificazioni e poi gli “assemblages” di Dubuffet mimano piuttosto la rozzezza della materia bruta: non già, dunque, un’efflorescenza della pittura, ma un suo imbarbarimento, materia pittorica uguagliata alla mota.
I francesi Fautrier e Dubuffet sono tra i più tipici informali, ma negli anni Cinquanta altri in Europa compivano ricerche sulla materia. Soprattutto Antoni Tàpies in Spagna, Burri e Lucio Fontana, in Italia, presenti in mostra come pure Afro Basaldella, Conrad Marca-Relli e Ben Nicholson, le cui ricerche sono strettamente contemporanee a quelle di Burri negli anni Cinquanta.
Il Nouveau réalisme
Viene invece dopo Burri, ma con una impressionante contiguità di esperienze, il grande pittore francese Yves Klein, scomparso a trentaquattro anni nel 1962, noto soprattutto per i suoi straordinari monocromi blu. Intorno a Yves Klein si riunì nel 1960 il movimento del cosiddetto “Nouveau Réalisme”, nel quale la breccia aperta da Burri si allargò ad abbracciare “il mondo” e di fatto assunse materiali e oggetti tra i più svariati, grazie ad artisti drasticamente innovativi come lo scultore César e come Arman le cui “accumulazioni” propongono alla rinfusa non solo pennelli, spatole e tubetti di colore, ma anche oggetti tra i più vari, come ferri da stiro o violini, spesso sezionati.
Nel “Nouveau Réalisme” militò anche Mimmo Rotella, un artista attivo tra Roma e Parigi, noto per i suoi “Manifesti strappati” (comuni anche a colleghi francesi come Jacques Villeglé), nella cui genesi, a partire dal 1954, è trasparente l’influenza burriana. A Roma, dove Burri viveva, la suggestione del suo modello operò largamente, come naturale, e nelle più varie forme, già negli anni Cinquanta. A cominciare dallo scultore Ettore Colla, da Gino Marotta che, tra i giovani pittori, è tra i primi a registrare l’influenza del maestro di Città di Castello nelle sue composizioni di lamiere saldate, da Scarpitta, con le sue strisce di stoffa robustamente intrecciate fino alle sofferte ceramiche di Leoncillo, di un naturalismo astratto ma esistenzialmente partecipato, dove il ricordo di Burri emerge dai tagli inferti nel vivo e dai grumi neri di materia.
Alla fine degli anni Cinquanta risalgono i primi “Cementarmati” di Uncini, animati dal gioco dei ferri che creano allineamenti, griglie, variazioni nella materia porosa e assorbente la luce. Negli anni Sessanta, poi, la Scuola romana di piazza del Popolo si contraddistingue per l’uso originale delle più svariate materie, che nella città di Burri e nella sua scia sdrammatizzata, ormai si moltiplicano. Ceroli intitola significativamente a Burri una scultura “ambientale”, mentre Pascali sviluppa l’idea burriana dei “Gobbi” (quadri aggettanti) e impiega materie tra le più inedite, paglia, lana di ferro o terriccio, acqua colorata. Sottolinea la propria discendenza da Burri Jannis Kounellis, come qualificandosi suo erede diretto.
In Spagna, un attento e qualificato osservatore di Burri è Manolo Millares, che, nel 1957 aderisce al gruppo “El Paso”; altri componenti dello stesso gruppo sono il fondatore Saura, un espressionista astratto che talvolta, anche se non spesso, introduce inserti di spaghi o corde, e Rapahel Canogar, impegnato in una sua personale ricerca materica.
L’arte povera
Protagonista e “stratega” dell’Arte Povera è Michelangelo Pistoletto, dopo una fase iniziale in chiave Pop, quella degli “Specchi”. L’impiego da lui fatto, tra le diverse materie e oggetti, di cenci colorati come nella celebre Venere degli stracci, è quello che lo avvicina al modello burriano. In artisti come Mario Merz e Gilberto Zorio si innesta una dialettica tra materie naturali e strumenti primordiali. Giuseppe Penone, raccogliendo il messaggio “verde” di Beuys, lavora intorno al proprio rapporto con la natura, i suoi materiali sono, fin dall’inizio, soprattutto vegetali: alberi e rami, tuberi, o anche argille, su cui egli esercita “azioni” destinate, non di rado, a interferire con processi naturali.
New Dada e Pop Art
Si torna a un dialogo più serrato con la matrice burriana se ci si sposta dall’Europa agli Usa, dove ormai da più di un decennio era maturata l’eccezionale esperienza New Dada di Jasper Johns, Robert Rauschenberg, e Cy Twombly, seguita poi dalla nascita della Pop Art.
Mostre intitolate alla Pop Art (abbreviazione di Popular Art, termine coniato in Gran Bretagna nel 1955 per designare il mondo creativo dei mass-media) cominciano ad aver luogo nel 1963; ma prima di confluire in questo movimento Rauschenberg e Johns erano stati i protagonisti di un clima variamente connotato sia in America sia in Europa, che aveva come caratteristica comune la riscoperta e il recupero linguistico del Dadaismo, sia pure interpretato secondo nuove poetiche: “New Dada”, per l’appunto, negli Stati Uniti. A questa corrente fu inizialmente riferita anche la poetica leggerezza delle indecifrabili “scritture” di Cy Twombly, segni dal profumo infantile sposati a una squisita orchestrazione di materia pittorica.
Altri praticano l’impiego di materiali e detriti del consumo, immettendoli in un flusso informe, al tempo stesso coinvolgente e dispersivo.
E’ il caso di Robert Rauschenberg, che su una rivisitazione di Hanna Höch innesta la potente visione di Burri, da lui conosciuto a Roma nel 1952.
Rauschenberg accende negli Stati Uniti una miccia, come Burri l’aveva accesa in Europa. Tuttavia la distanza che separa i due è pronunciatissima .
Dopo gli anni Sessanta
Anche quando non reca l’impronta di una diretta influenza burriana, l’arte degli anni Sessanta ha avuto il proprio baricentro nelle diverse tipologie di questa corposa integrazione tra pittura e materiali extrapittorici che fu Burri ad inaugurare, e di cui la sua arte si è fatta ovunque veicolo, diretto o indiretto.
Ma si tratta poi di una pratica che non è tramontata, né ha perduto la propria attualità pur nel succedersi, fino ad oggi, di tante e così diverse tendenze, dall’arte concettuale all’espressionismo dei Nuovi Selvaggi, dalla Body Art alla Bad Painting, dalle Perfomances alla video-arte, all’invadenza della fotografia e alle più ibridanti installazioni ai margini di altre discipline. Tre artisti emersi con forza negli ultimi decenni, il raffinato Schnabel, il travolgente Kiefer e il trasgressivo Hirst, chiudono la mostra con opere dove il ricorso a elementi tessili, vegetali, naturali concorre più che mai vitalmente all’energia espressiva dell’opera.
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