L’esistenza dello Stato ebraico è sempre
stata indicata dai governi,
più o meno dittatoriali,
mediorentali come la causa di tutti
i mali: ma lo Stato palestinese
non fu mai creato quando quei territori
erano occupati da Giordania e Egitto
Alla fine del 1947 l’Assemblea generale dell’Onu aveva deciso la spartizione della Palestina (ex provincia dell’impero ottomano, dal 1920 sotto mandato britannico) in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo: i confini dei due Stati venivano definiti sulla base della dislocazione dei due gruppi etnici, assegnando a Gerusalemme uno statuto di “città aperta” posta sotto controllo internazionale.
La decisione dell’Onu veniva accettata dall’Agenzia Ebraica, ma respinta dai Paesi Arabi (uniti nella Lega Araba), che rivendicavano il possesso dell’intero territorio palestinese. Prima ancora che, il 15 maggio 1948, le truppe e i funzionari britannici lasciassero la Palestina, reparti giordani attaccavano i quartieri ebraici nella città vecchia di Gerusalemme.
Il 14 maggio a Tel Aviv un governo guidato da David Ben Gurion dichiarava la nascita dello Stato di Israele, e l’Haganah sosteneva l’attacco sferrato su tutti i fronti dagli eserciti di Egitto, Giordania, Siria, Libano, Iraq. Il 16 maggio Israele chiedeva l’ammissione all’Onu, accettata da Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e molte altre nazioni, respinta dai Paesi Arabi, con l’astensione della Gran Bretagna. Dopo un breve armistizio (durante il quale l’Haganah, inizialmente dotata prevalentemente di residuati bellici, era stata rifornita di armi e di aerei dalla Cecoslovacchia), le ostilità erano riprese: in questa seconda fase le forze arabe erano state nettamente sconfitte, e con un nuovo, e definitivo, armistizio una commissione internazionale stabilì sulla base delle posizioni raggiunte dai rispettivi eserciti i confini dei due Stati.
Due Stati, uno solo dei quali esisteva: l’altro, quello Palestinese, venne diviso tra la Giordania - che inglobò la Cisgiordania, compresa la città vecchia di Gerusalemme, mentre i quartieri occidentali e meridionali restavano ad Israele, e l’Egitto, che occupò militarmente la striscia di Gaza. Né i due governi, e neppure quelli delle altre nazioni arabe, si preoccuparono di dare vita a uno Stato Palestinese, ipotesi del resto già respinta due anni prima.
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Per quanto riguarda la popolazione araba il problema più grave che venne a crearsi fu quello dei profughi, circa 800.000 persone che avevano abbandonato la loro terra per rifugiarsi al di là dei confini di Israele. In parte si trattava di abitanti che avevano accolto l’invito della Lega Araba a un temporaneo esilio, a volte dopo aver venduto le loro proprietà agli ebrei, in vista di un prossimo vittorioso ritorno, e in parte l’esodo era stato provocato con la forza dagli stessi israeliani, in particolare dalle due formazioni di estrema destra Irgun e gruppo Stern, molto attive anche se considerate “illegali” dall’Haganah. Nascevano così nei Paesi Arabi i campi profughi, nei quali centinaia di migliaia di uomini, donne, bambini, vegetavano senza altra speranza che quella del rovesciamento di una situazione che li aveva privati di tutto.
Comunque, la fine del conflitto non aveva portato una vera pace. “La distruzione di Israele – scrive Robertt J. Donovan nel suo libro Israele – Sei giorni per sopravvivere – era divenuta articolo di fede del credo arabo: non vi era capo arabo che potesse sperare di mantenersi al potere senza tenere conto della pretesa delle masse, che gli israeliani fossero buttati a mare. Le Forze armate del nuovo Stato dovevano così rimanere con l’arma al piede: Israele era circondato da tutti i lati da vicini ostili, apparentemente ben decisi a cancellarlo dalle carte geografiche”. In realtà, la presenza di Israele diventava un comodo capro espiatorio per dirottare il malcontento dei popoli arabi, sistematicamente sottoposti a regimi dittatoriali e corrotti, sulla prospettiva dell’eliminazione dell’“entità sionista”. Una prospettiva che per molti anni avrà prevalentemente connotati di nazionalismo arabo, priva di riferimenti marcati al fondamentalismo islamico, che del resto era visto con diffidenza, e spesso duramente represso, proprio dai governi arabi più intraprendenti nella campagna anti-israeliana. Non a caso i Fratelli Musulmani – antesignani dell’attuale terrorismo islamico di ispirazione wahabita – dovranno lasciare l’Egitto e rifugiarsi in Arabia Saudita, perseguitati da Nasser, che nel 1966 aveva fatto impiccare il loro leader carismatico Al Qutb, un intellettuale che incitava alla creazione di una nazione rigidamente confessionale.
Conclusa la guerra guerreggiata, tra Israele e i suoi vicini ha inizio un lungo periodo di scontri di frontiera, di incursioni di commandos, di ritorsioni: dalle alture del Golan, le artiglierie siriane bombardano periodicamente i villaggi israeliani della Galilea.
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Nel frattempo la situazione in Medio Oriente, si evolve, fortemente condizionata da una Guerra Fredda che – con varie sfumature, contraddizioni e giochi più o meno coperti – divide il mondo in due schieramenti opposti. “Fecero la loro apparizione sulla scena politica – scrive Donovan – nuovi capi, portatori di concezioni inedite e di nuovi, ambiziosi, piani; nell’odio per Israele, costoro vedevano l’elemento fondamentale per la costruzione di un’unità araba, per quanto deleterie potessero essere le conseguenze. Forse sarebbe stato possibile giungere a una nuova confederazione, una riedizione del sogno del trionfo islamico, che aveva cessato di essere di attualità da quando, nel 1193, il Saladino era morto”.
Il Saladino, ovvero Yussuf bin Ayyub Salah-al-Din, sultano d’Egitto e di Siria, il conquistatore di Gerusalemme, il sovrano guerriero che respinse la Terza Crociata, pur essendo curdo, è rimasto attraverso i secoli l’eroe arabo per eccellenza. E come una sorta di nuovo Saladino volle presentarsi Gamal Abdel Nasser, colonnello dell’esercito egiziano che nel 1952 aveva pilotato la cacciata dell’inetto re Faruk, e due anni dopo aveva assunto il potere assoluto. Convinto di dover compiere una scelta netta sullo scacchiere internazionale, Nasser si schiera con l’Unione Sovietica, che gli garantisce cauti finanziamenti per la sua opera di modernizzazione dell’Egitto, almeno in parte riuscita. Nasser si dichiara vagamente socialista, ma perseguita i (pochi) comunisti egiziani, ed è tutt’altro che un democratico: anzi, durante la guerra è stato attivamente filonazista. Nel 1956 il rais nazionalizza il Canale di Suez, e ne vieta il transito alle navi israeliane, il che sarà lo stesso anno motivo di un conflitto, che vede nuovamente battuto l’esercito egiziano, sedato di comune accordo da Stati Uniti e Unione Sovietica.
Nonostante la sconfitta, la popolarità di Nasser cresce tra le masse arabe, ed egli stesso sembra convincersi di essere il leader destinato a distruggere Israele. Oppure, tesi sostenuta da alcuni, il rais punta su una serie di bluff in un rischioso gioco al rilancio che alla fine non sa più controllare. Le frontiere con Israele nel Sinai e nella striscia di Gaza dal 1956 sono controllate dai caschi blu dell’Onu, e questo schermo gli serve insieme da protezione e da alibi nei confronti degli altri Paesi arabi che lo invitano a riaprire le ostilità. Intanto, l’Unione Sovietica, che ritiene conveniente aumentare la forza di questo focoso alleato, gli invia ingenti forniture di armamenti, centinaia di aerei e di carri armati, artiglieria, munizioni, e consiglieri militari per addestrare le truppe del nuovo Saladino. Attento a tenere desto il rancore dei palestinesi – ai quali però non concede l’indipendenza nel territorio sotto controllo egiziano – Nasser, nel 1962, sponsorizza la creazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), guidata dall’avvocato Ahmed Chukairi (poi uscito di scena), che annuncia “la cancellazione di Israele dalla faccia della terra”.
Il 1967 comincia con segnali di guerra imminente che si fanno sempre più precisi. Egitto e Siria stabiliscono uno stretto coordinamento delle loro forze armate, coinvolgendo in questa “santa alleanza” anche la Giordania, che dai territori che occupa al di là del fiume Giordano è, teoricamente, in condizione di raggiungere rapidamente la costa israeliana e la capitale Tel Aviv. E infine Nasser e i suoi alleati, questa volta sicuri della loro schiacciante superiorità, vanno rapidamente verso il disastro. Il 14 maggio il rais invia nel Sinai, verso la frontiera israeliana, le sue divisioni corazzate nuove di zecca, e il 16 maggio chiede al generale indiano Indar Jiy Rikhye, comandante delle forze dell’Onu di ritirare i caschi blu dalle loro postazioni, che sarebbero state occupate dagli egiziani. Il 18 giugno, il segretario generale dell’Onu U Thant ordina il ritiro totale dei caschi blu dalla regione, senza consultare il Consiglio di sicurezza. Il 23 maggio l’Egitto annuncia il blocco del golfo di Aqaba, sul Mar Rosso, unico accesso al porto israeliano di Elat: secondo il diritto internazionale, e nella logica degli eventi che si succedono, questa misura equivale a una dichiarazione di guerra. Il primo ministro israeliano Levi Eshkol, succeduto qualche tempo prima a Ben Gurion, nomina ministro della Difesa il popolarissimo generale Moshe Dayan, che concorda rapidamente un piano strategico con il comandante in capo Yitzhak Rabin. Tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno in alcune città europee dei volontari si iscrivono per andare a combattere per la difesa di Israele (a Parigi saranno migliaia, di tutte le nazionalità), e Dayan ringrazia ma dichiara di non volere che persone di altri Paesi “vengano qui a farsi ammazzare per la nostra integrità”. E chiede anche ad americani e britannici di tenersi in disparte.
Nasser pensa di aver fatto bene i suoi calcoli, ma ha trascurato un fattore essenziale: Israele, a differenza dei suoi avversari, data l’esiguità del territorio (poco più i 20.000 kmq) e la mancanza di difese naturali, non può permettersi di perdere nemmeno una battaglia. Una sola sconfitta significherebbe la scomparsa dello Stato ebraico, un nuovo Olocausto. Così, all’alba del 5 giugno 1967 alle qualità dei piloti e dei soldati israeliani, si aggiunge la molla dell’istinto di sopravvivenza.
Poi, è la cronaca, ormai storia, della Guerra dei Sei giorni. Alle 8.36 Radio Tel Aviv trasmette un comunicato ufficiale che annuncia l’inizio di violenti combattimenti tra le forze israeliane e quelle egiziane in seguito alla penetrazione di carri armati egiziani in territorio israeliano con l’appoggio dell’aviazione. Alle 9.06 Radio Il Cairo annuncia che gli israeliani hanno attaccato e gli egiziani stanno resistendo. Alle 11.15 Radio Damasco annuncia che aerei siriani stanno bombardando città israeliane. Alle 11.40, a Amman, re Hussein ordina alle artiglierie giordane di aprire il fuoco contro il settore israeliano di Gerusalemme; aerei giordani bombardano villaggi, kibbutz, e Nathanya, a nord di Tel Aviv. “Siamo un piccolo Paese – dichiara Moshe Dayan nel suo ordine del giorno alle truppe – L’attacco di sorpresa egiziano è un‘aggressione contro di noi e noi risponderemo all’aggressione. Soldati voi siete la nostra speranza. La battaglia aerea e terrestre continua, il risultato finale non è noto, ma noi siamo sicuri di vincere. Non abbiamo conquiste territoriali da fare, ma vogliamo solo difendere la nostra sicurezza”. “Mai un Paese ha fatto uso delle armi per un motivo più giusto e legittimo di quello che costringe Israele a combattere”, afferma Abba Eban, ministro degli Esteri israeliano, in una conferenza stampa tenuta il pomeriggio del 5 giugno. Eban aggiunge che le ostilità sono cominciate con il blocco del golfo di Aqaba, seguito dal concentramento di forze arabe alle frontiere. E precisa che Giordania e Siria hanno attaccato Israele nonostante l’invito del governo di Tel Aviv a tenersi fuori dal conflitto. In serata l’Iraq annuncia di considerarsi in guerra con Israele. A Washington, alle 20.03, il portavoce del Dipartimento di Stato, Robert McCloskey, dichiara che l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del conflitto è “neutrale nei pensieri, nelle parole e nelle opere”. A Mosca, alle 1.10 del 6 giugno, una dichiarazione ufficiale afferma che l’Unione Sovietica “in linea con la sua politica di aiuto ai poli vittime di aggressioni, e a quelli da poco liberatisi dall’oppressione colonialista”, appoggia risolutamente i governi egiziano, siriano, giordano, iracheno, e gli altri Stati Arabi, e condanna “l’aggressione israeliana”. Al termine della prima giornata di scontri, i consiglieri militari sovietici hanno comunicato al Cremlino che i loro alleati egiziani apparivano già destinati a una sconfitta tanto più clamorosa quanto erano state altisonanti le loro bellicose intenzioni: quanto al costosissimo materiale bellico fornito a Nasser, gli stupendi Mig erano stati in gran parte distrutti sulle piste degli aeroporti, e i carri armati ultimo modello restavano abbandonati dagli equipaggi egiziani nel deserto del Sinai, con i cannoni vanamente protesi verso il territorio israeliano. Logicamente, l’Unione Sovietica doveva cercare di salvare la faccia puntando sul vittimismo degli aggressori trasformati in aggrediti.
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Obiettivamente, va detta una cosa: se i sovietici nell’intricato labirinto mediorientale avevano messo tutte le loro puntate sui cavalli sbagliati, gli americani non si erano comportati con maggiore avvedutezza, seguendo con “logica petrolifera” puramente mercantile, che avrebbe dato (e sta ancora dando) risultati perlomeno sconcertanti.
In sei giorni di guerra Israele realizza un clamoroso “en Plein”: conquista il Sinai fino al Canale di Suez, occupa l’intera Gerusalemme, Betlemme, Gerico, e tutti i territori sulla riva destra del Giordano ricacciando l’esercito di Hussein oltre il fiume, respingono i siriani fino alle porte di Damasco, e si impadroniscono delle alture del Golan. In un primo tempo Nasser tenterà di attribuire la sconfitta araba all’intervento degli Stati Uniti, che in realtà non avevano alzato nemmeno un dito in difesa di Israele. I protagonisti della vittoria erano stati i riservisti israeliani, uomini e donne, che avevano combattuto con la determinazione di chi sa di non avere altra scelta: e gli aerei che avevano battuto i Mig, e spesso li avevano distrutti al suolo, volando pericolosamente a bassa quota e a velocità ridotta, erano i Mirage e i Mystère francesi della Dassault. Complessivamente gli egiziani persero 450 aerei, gli israeliani 19: il pilota di un caccia abbattuto, atterrato col paracadute nella cittadina di Zagazig, era stato linciato dalla folla.
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Trentanove anni dopo, è ancora difficile tirare le giuste somme delle conseguenze della Guerra dei Sei Giorni. Israele aveva ancora una volta vinto, ma per molti aspetti era una vittoria “avvelenata”. L’odio espresso esplicitamente dai Paesi arabi con propositi di distruzione totale era, se possibile, aumentato. E in campo internazionale le simpatie per il piccolo Stato ebraico non erano certo in ascesa: “piccolo”, sì, ma “ingombrante”. E poi, si diceva, perché questi israeliani sono così forti? Insomma, suggeriva un’opinione sempre più diffusa, non potrebbero difendersi con maggiore discrezione?
A parte questo, il primo problema diventava quello dei territori, la striscia di Gaza e la Cisgiordania, occupati alla fine della guerra, con i loro abitanti arabi e i profughi rimasti per diciotto anni ammassati nei campi. Quello che non avevano mai fatto, e mai avevano mostrato l’intenzione di fare, gli occupanti arabi (Giordania e Egitto), cioè “dare uno Stato ai palestinesi”, ora dovevano farlo gli israeliani.
Per essere chiari, Israele avrebbe dovuto consegnare la striscia di Gaza e la Cisgiordania all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che aveva nel suo statuto l’eliminazione della stessa Israele. Un assurdo? Certamente, ma, assurdo per assurdo, oggi, con il senno di poi, è lecito opinare che avrebbe fatto meglio a farlo, a, diciamo, “inghiottire il rospo”. Ritirandosi subito sulle frontiere del 1949, Israele si sarebbe risparmiato il nodo spinoso degli “insediamenti”, le sanguinose intifade, il terrorismo che da “panarabo” è divenuto insidiosamente “panislamico”, e altro ancora.
Ma con il senno di poi non si scrive la storia, e sarebbe assurdo pretendere di leggere un diverso presente in un ipotetico passato. Comunque, ristabilire la verità su ciò che è veramente accaduto dovrebbe essere sempre utile, a tutti. In primo luogo a quei popoli arabi convinti da una lunga opera di propaganda, politica e religiosa, che l’esistenza di Israele, l’unico Stato veramente democratico in tutto il Medioriente, è la causa di tutti i loro mali.
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Il presidente dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, negli ultimi due mesi del 2005 ha pubblicamente alternato minacce ed insulti nei confronti di Israele, sostenendo che dovrebbe essere “cancellato”, e che l’Olocausto del popolo ebraico da parte dei nazisti è una “leggenda” inventata dai Paesi occidentali per giustificare la presenza di uno Stato ebraico in Palestina. Le parole del presidente iraniano sono state condannate dai capi di Stato e di governo dell’Unione Europea come “assolutamente inaccettabili ed estranee a un dibattito politico civile”. L’eurodeputata verde tedesca Angelika Beer ha proposto di lanciare un segnale forte di riprovazione per questi proclami deliranti l’esclusione dell’Iran dai prossimi Mondiali di calcio. La proposta in Italia è stata accolta da Furio Colombo, ex direttore de “l’Unità”, e tuttora editorialista di questo giornale, perché sarebbe “un segnale di fermezza, mentre troppe persone continuano a far finta di nulla”, e precisando che il bersaglio “non è la squadra ma colui che malauguratamente rappresenta quello splendido Paese. Della stessa opinione sono stati Amos Luzzatto, presidente della Comunità ebraica italiana, Umberto Ranieri, Ds, vicepresidente della Commissione esteri della Camera, e il sociologo di origine algerina Khaled Fouad Allam, il quale ha definito l’esclusione “uno strumento valido, dato che non si possono lasciare passare parole tanto gravi in un contesto internazionale tanto difficile”. A questi e ad altri pareri favorevoli a un segnale forte nei confronti delle più volte ripetute dichiarazioni di Ahnadinejad, si è opposto il rifiuto categorico della Federazione calcistica internazionale (Fifa): “La Fifa non prende nemmeno in considerazione la possibilità di escludere l’Iran dai Mondiali. Sport e politica non devono confondersi”. Buona partita!
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