Il 18 dicembre scorso la Giornata Internazionale dei Migranti è stata – o almeno avrebbe dovuto essere – l’occasione per riflettere con serietà, intelligenza, e coscienza civile sul problema – spesso costituito da tanti drammi individuali – degli esseri umani che lasciano la loro terra alla ricerca di lavoro, di libertà, di una vita che meriti di essere vissuta. Nel dicembre 1990 l’Onu approvò la Convenzione Internazionale che riconosce i diritti fondamentali dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, senza distinzione, naturalmente. Quella Convenzione, entrata in vigore dal 1° luglio 1993, non è stata ancora firmata e ratificata dal nostro Paese.
Non si può certo dire che la situazione appaia in via di miglioramento. Mentre si conferma la presenza di una autentica “imprenditorialità schiavista” gestita dalla criminalità organizzata, la legge Bossi-Fini attualmente in vigore produce risultati che solo una totale indifferenza permetterebbe di accettare: l’aumento di una massa di “clandestini”, ricattati e sfruttati in varie forme, e l’esistenza di cosiddetti “centri di accoglienza” che di fatto diventano dei ghetti legalizzati.
Non dovrebbe essere necessario ricordare che l’Italia è stata, a suo tempo, una terra di migranti.
Ma certo è utile non dimenticare che la mala bestia del razzismo è sempre in agguato quando si disattendono i principi fondamentali della democrazia e della civile convivenza. Un razzismo bieco nella sua stupidità, che ostacola quegli scambi umani e culturali che sono la materia prima di ogni forma di progresso.
Abbiamo chiesto, su questo tema, un intervento a Nichi Vendola, Presidente della Giunta regionale della Puglia, una regione situata in prima linea sul fronte dell’immigrazione.
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Noi abbiamo il dovere dell’accoglienza. Abbiamo anche il dovere di non dimenticare la nostra storia di emigranti, il pane amaro di intere generazioni di lavoratori e di famiglie sradicate dalla propria terra, partite spesso nella clandestinità della stiva di una nave a cercar miglior sorte.
Per questo noi chiediamo, fuori dalla polemica contingente, di voltar pagina sui nodi difficili delle politiche migratorie, chiediamo di rendere effettivo ed esigibile il diritto d’asilo, chiediamo al governo di chiudere i Centri di permanenza temporanea in funzione e di non procedere all’inaugurazione dei Cpt in costruzione, a cominciare da quello di Bari. Non si può chiamare accoglienza un contenitore cinto dal filo spinato, nel quale si viene reclusi senza alcuna imputazione di reato, nel quale spariscono persino i diritti minimi dei penitenziari veri, nel quale talvolta una ottusa burocrazia della contenzione pensa sia naturale segnare i bambini con dei numeri scritti sulla pelle.
Come si vede, qui precipitano tutti i nostri precetti garantisti, come se lo stato di diritto fosse un codice per conterranei, possibilmente ricchi. Ma qui inciampiamo anche nell’irrazionalità di ridurre a questione di “ordine pubblico” l’arrivo di chi sta viceversa diventando sempre più indispensabile alla nostra economia e alla nostra vita.
Insomma, una violazione amministrativa non può essere risucchiata nel cono d’ombra della privazione della libertà personale; e le garanzie dei cittadini non possono essere barattate con le campagne d’ordine o con i fantasmi della xenofobia.
Costruire strutture e politiche di accoglienza è utile anche per liberare tanti migranti dal peso della clandestinità.
Per la parte nostra cercheremo di attrezzarci a questa sfida con strumenti di conoscenza e di monitoraggio dei flussi migratori, ma anche favorendo l’auto-organizzazione degli stranieri presenti sul nostro territorio, e investendo in percorsi di integrazione e di interculturalità: e quindi camminando verso un orizzonte che prefiguri il pieno godimento dei diritti di cittadinanza anche per chi è nato lontano da casa nostra.
Qui c’è una delle radici più robuste e più antiche della nostra vicenda identitaria, di una Puglia crocevia di scambi e frontiera aperta, di una regione che mescolò i punti cardinali e i popoli, dentro quel Mediterraneo che torna ad essere molto più di un mare, ma uno sguardo sul passato e una prospettiva di futuro. Questa Puglia profonda noi la vogliamo immaginare come spazio in cui si invertono i processi di militarizzazione territoriale, aprendo una rinegoziazione sulle servitù militari presenti, ma soprattutto agendo la nostra realtà regionale come un laboratorio concreto di processi di pace>>.
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