Le immagini riprese da un videoamatore militare, della battaglia dei ponti di Nassirya, susciterà nei mass media il solito scontro tra pacifisti e sostenitori dell'intervento italiano a fianco degli americani in Iraq. Lasciando per un attimo da parte la legittimità o meno dell'intervento militare e focalizzandosi solo esclusivamente sul video che, non è stato trasmesso su "Le Iene" ma disponibile su Internet, vengono alla ribalta delle realtà che fanno della guerra un fenomeno meno ipocrita di quanto politici, militari e qualche giornale voglia farci credere.
Per capire quanto quel video amatoriale mostri della guerra così com’è, bisogna ritornare indietro, con i fatti, ad alcune dichiarazioni inventate dai sociologi militari e riferite in più occasioni dai segretari generali delle Nazioni Unite ovvero: il peacekeeping è un'attività da civili ma che sono militari possono fare. Grazie a questa che sembra essere una verità immutabile, il peacekeeping dagli albori delle prime missioni è sempre stato condotto da militari. I governi nazionali infatti preferiscono di gran lunga fornire personale militare alle missioni delle Nazioni Unite, un pò, perché effettivamente i militari possiedono la logistica adeguata, un po’ perché i militari senza le guerre rappresentano per le casse dello Stato e agli occhi di qualcuno, dei disoccupati che percepiscono uno stipendio. In Europa non si combattono guerre da più di 60 anni e la funzione tipicamente militare di controllo dei mari e dello spazio aereo non è stato evidentemente considerato uno sforzo sufficiente. Allora, da una parte per convenienze di politica estera, dall’altra per convenienze economiche sociali, appena possibile l’Italia ha spedito i suoi soldati ovunque ci fosse necessità di pacificatori. Gli italiani sono diventati talmente bravi a fare il peacekeeping che in molti considerano il “metodo italiano” degno di essere studiato e copiato.
Il peacekeeping primordiale, quello definito di prima generazione, vedeva osservatori disarmati in zone neutrali (di cessate-il-fuoco) ed è stato da subito appannaggio del personale militare. La prima missione di questo tipo ed in assoluto, è stata la United Nations Truce Supervision Organization (Untso), svolta 1948, serviva a controllare la tregua tra il neonato Stato d’Israele e i paesi arabi dopo la prima guerra arabo-israeliana.
I tempi cambiano e ci si è accorti che difficilmente le nazioni o le fazioni paramilitari si spaventano di soldati disarmati sotto la bandiera dell’Onu, così è nato il peacekeeping di seconda generazione che vede ancora una volta i militari ma stavolta, armati, con alcuni compiti esecutivi come la facoltà di arresto dei criminali di guerra, che tuttavia non possono usare le armi se non sono minacciati direttamente. Un peacekeeping che ha fallito miseramente nelle notti di Sebrenica, sommerso dagli echi dei cecchini di Saraievo, o dalle razzie dei signori della guerra in Somalia.
Nasce così il peacekeeping di terza generazione. Questo tipo di operazione possiede più spiccate possibilità proattive, poteri di polizia e capacità di peace-enforcement ed è quella che ha dato risultati migliori, poiché rappresenta un reale deterrente contro quelle forze armate o paramilitari di un qualsiasi paese aggressore, che si disinteressano degli accordi internazionali o che bersagliano civili innocenti. Un esempio di questo tipo di peacekeeping è quello della “guerra” Nato in Kosovo. Questo peacekeeping è diventato anche “multifunzionale”, che sta a significare che i militari, per gestire l'emergenza, si sono assunti alcuni compiti tipici delle amministrazione civili. E’ quest’ultimo fattore che differenzia il peacekeeping di III generazione, dalla guerra sotto l’egida dell’Onu, come: quella di Corea in cui un contingente delle Nazioni Unite aveva respinto le truppe del Nord fino al 38mo parallelo, per poi finire nel gioco dei veti del Palazzo di Vetro; o, le operazioni definite di “Polizia Internazionale” come la prima guerra del Golfo che ha liberato il Kuwait, ma non ha risolto il problema Saddam.
In Kosovo invece, si è vista un'inversione di tendenza rispetto alle missioni di peacekeeping precedenti, ossia una componente civile, con compiti esecutivi, ha preso il posto e più tardi la primacy alla componente militare. Da questa esperienza, le Nazioni Unite, hanno tratto le linee guida fondamentali per un nuovo tipo di peacekeeping totale: la pacificazione forzata e la gestione dell'emergenza affidata militari, il mantenimento dell'ordine e della sicurezza pubblica affidato alle polizie civili ed ai giudici internazionali e la gestione dell'amministrazione affidato ai funzionari civili.
In Iraq, a seconda del punto di vista politico, si parla di peacekeeping o missione di guerra ma nella realtà, qualunque sia l’operazione non cambia l'essenza della missione, è comunque un’operazione militare.
Un’operazione militare di peacekeeping, sotto mandato delle Nazioni Unite, prevede tra le prime cose l'uso minimo della forza, quando invece, l'operazione è portata avanti da quella che in gergo si chiama Multinational Joint Task Force, l'uso della forza è a discrezione dei singoli comandi militari.
Anche se con divergenze significative, dal punto di vista del diritto internazionale e dello svilupparsi della missione, le due operazioni Mjtf più famose sono state quelle del Libano negli anni '80 e quella irachena. Le differenze sostanziali tra le queste operazioni sono due: in Libano la Mjtf era essenzialmente super partes e prevedeva un uso minimo della forza; in Iraq invece, una parte della Mjtf (americani e inglesi) sono considerati a tutti gli effetti occupanti ed una parte (tutti gli altri, italiani compresi) una forza di stabilizzazione e di natonal-building. Il fattore comune importante delle due missioni è invece, la possibilità di ricorrere alle armi. Questa possibilità non deve ingannare, ricorrere alle armi, non significa solo deterrenza, vuol dire, alla bisogna, uccidere e distruggere.
Questo ci riporta al video girato Nassirya in cui dei militari italiani, verosimilmente dei carabinieri, portano a compimento una legittima operazione militare. Esercito e carabinieri, tentano, nel corso dell'operazione, di liberare dagli insorti di Al Sadr i ponti di Nassirya.
Che sia peacekeeping di terza generazione o guerra, il video mostra esattamente e senza ipocrisie quello che succede quando due gruppi di uomini fanno uso di armi.
Il video mostra, in maniera frammentaria e confusa un po di tutto, dall’inceppamento di una mitragliatrice al lancio di un missile guidato, ma il fatto emblematico e la ripresa di un “resistente” nemico ferito e qualcuno tra le fila italiane, probabilmente un carabiniere, che consiglia di “annichilirlo”.
“Annichilire” è il termine, in gergo militare, che sta per “rendere inoffensivo” e, rendere inoffensivo, vuol dire uccidere. Non c'è nessuna illegittimità in quello che è successo, è tutto assolutamente normale, è la normalità delle operazioni belliche.
Che siano operazioni di peacekeeping od operazioni di guerra, il ricorso alle armi causa morte e distruzione. Senza giri di parole come: “danni collaterali” cioè la distruzione di obiettivi civili o di civili innocenti dovuti ad errore o necessità militari, o “annichilire” che vuol dire uccidere. Questo è quello che succede quando i soldati fanno ricorso alle armi, nel dualismo storico e sempre vero di soldato e sistema d’arma.
Il “soldato di pace”, checché ne dica una certa propaganda calendaristica, non esiste.
Non si può non essere d'accordo con il Generale Chiavarelli quando da "Pagine di Difesa", chiarisce che: "Il soldato dovrebbe essere un cittadino che si è arruolato perché è disposto a combattere per il proprio paese. Di conseguenza è errato ammettere l'esistenza di soldati di pace e soldati di guerra. I soldati sono soldati e basta e come tali devono saper fronteggiare situazioni di guerra, questo è il loro compito istituzionale" - ed ancora - "I soldati devono essere buoni soldati, non è necessario che siano anche soldati buoni. Se lo sono meglio, purché questa bontà non ne riduca la capacità operativa. Devono essere addestrati, coraggiosi, aggressivi ed efficaci".
Dalle parole del generale, si arriva al problema, le forze armate, carabinieri compresi, sono giustamente impegnati a in operazione di peacekeeping quando il ricorso le armi è probabile, tuttavia, il portare la pace non si esaurisce in operazioni belliche, continua con operazioni di mantenimento della sicurezza pubblica, svolto dalle polizie civili e dagli amministratori civili, con il compito di ristabilire le condizioni che possono portare alla democrazia, in paesi che escono da crisi profonde dove la “democrazia” è solo una parola ed anche semi-sconosciuta.
Il peacekeeping che non prevede il ricorso ai civili si è dimostrato fallimentare. Da qui la necessità di affiancare ai militari, dei civili ma purtroppo, se lo sforzo italiano rispetto alla fase militare del peacekeeping è notevole, quello rispetto alla fase civile è quasi inesistente.
La situazione internazionale richiede sempre più spesso una funzione di supporto civile che curi aspetti sociali della vita che, garantiscono il ritorno alla normalità, quali l'amministrazione dei servizi pubblici essenziali, quella dell'ordine e la sicurezza pubblica e dell'amministrazione giudiziaria, a cui i militari non si possono e non si devono sostituire. In quest’ultimo settore, l'Italia non fa ancora sforzi adeguati a colmare il gap che vede i militari a lottare con problemi non propri.
Soldati che regalano dolci, ricostruiscono strade e supportano progetti di sviluppo, come normali Ong; carabinieri, instancabili tuttofare, che prima fanno la guerra, poi l'Msu (multi specialized unit - entità ibrida a metà tra forza di polizia e forza militare), poi la Polizia Militare e poi ancora la polizia civile. Viene da chiedersi perchè in Italia, allora, abbiamo una polizia civile visto che l'Arma può fare di tutto.
Il peacekeeping se deve essere fatto, lo si deve fare bene, con compiti attinenti che restituiscano maggiore identità ai militari, che impegnino le compagini civili a fianco di quelle con le stellette, e con scopi politici precisi. Solo così e possibile il ritorno alla normalità di paesi che escono dalla guerra, altrimenti si “annichilisce” solo la speranza dei popoli che voremmo aiutare.
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