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novembre-dicembre/2005 - Contributi
I valori (oscurati) della 121
di Rita Parisi - Segr. Prov. Siulp - Bologna

Negli anni ’80, oltre alla legge 121 gli apparati di sicurezza hanno conosciuto due altre grandi riforme, quella che ha istituito la Polizia Penitenziaria, riconoscendo ai lavoratori di quel settore pieni diritti sindacali, e quella del Codice di procedura penale.
Gli anni ’90 invece hanno cominciato a prefigurare nel Paese elementi di controtendenza che mai avrebbero però fatto pensare a quella riforma strutturale, sia nei principi che nei modelli organizzativi, che si sarebbe venuta a determinare negli anni a seguire che di fatto, anche sotto l’elemento simbolico, andavano completamente ad intaccare i principi e la filosofia stessa della legge 121/81.
Riflettere, capire come sia stata possibile questa modifica culturale e di approccio alle questioni relative alla sicurezza, può servire a comprendere le distanze che ormai ci separano da quegli obiettivi riformistici per cogliere ancora gli elementi fecondi di quella stagione e riproporli per cercare nuove aggregazioni.
In particolare la discussione odierna, nei suoi limiti congiunturali e temporali, deve servire ad innescare nel mondo della cultura, del diritto ma in particolare tra i lavoratori di Polizia, una riflessione che sia fruibile da parte della politica, degli operatori pubblici e dell’informazione per avviare una riflessione sull’orientamento culturale e professionale delle Polizie o di quelli che una volta venivano chiamati, con una certa diffidenza, “Corpi separati”.
I profondi mutamenti dell’assetto economico e sociale delle nostre realtà metropolitane, le nuove povertà, l’abitudine ad affrontare in maniera emergenziale il cambiamento come un perenne e costante pericolo, continuano ad alimentare incertezze e paure che a loro volta favoriscono risposte d’ordine, risposte che quasi in via esclusiva si sovrappongono a qualsiasi altro percorso tra quelli già sperimentati invece in altre realtà europee.
Ma la risposta d’ordine, quale soluzione immediata ai bisogni e alle aspettative di sicurezza dei cittadini di fronte alla invivibilità o alle difficoltà di vivibilità di determinate zone urbane o extraurbane, quale inevitabile ricaduta, crea un’area franca, una sorta di “zona di confine” oltre la quale nessuno tra i soggetti interessati a vario titolo ai temi della sicurezza e governo del territorio, si spinge per leggere tra le pieghe dei modelli organizzativi.
Dall’altra parte le aspettative di sicurezza tutte concentrate sulle Forze di polizia sospingono i vertici organizzativi ad accelerare in maniera abnorme e ansiosa gli sforzi operativi, acuendo i meccanismi interni autoritari e i sacrifici dei lavoratori di Polizia. […]
Il rapporto di lavoro del poliziotto si sviluppa ancora all’interno di aspetti organizzativi e simbolici che più di altri sono capaci di evocare e consolidare un sistema di relazioni gestionali tutto incentrato sull’uniformità e sulla gerarchia, spesso percepita non come necessario strumento di gestione delle risorse umane ma come controllo delle stesse, “ti ordino di star bene” è la risposta data di recente ad un collega che accusava sintomi di intossicazione.
Le scuole di Polizia dove avviene il primo indelebile approccio con il significato del ruolo che il poliziotto andrà a ricoprire, per molti anni sono state quasi tutte dirette non dai dirigenti provenienti dai ruoli civili, ma da ex ufficiali del disciolto Corpo delle Guardie di Ps (coloro che apppunto prima della riforma erano preposti alla gestione del personale soprattutto all’interno delle caserme), quasi a garantire una sorta di continuità con un mondo, quello militare, in cui figure nuove come il sindacato e allora anche la donna, non sono neppure contemplati. L’omogeneità per così dire “di genere” è stata di fatto il filo conduttore dell’arruolamento dei lavoratori di Polizia. Dal 1981 ad oggi con l’eccezione degli unici due concorsi che hanno consentito l’accesso anche alle donne, tutti i restanti agenti sono stati immessi nei ruoli attraverso il meccanismo che consentiva sino alla recente riforma dell’Esercito, di svolgere il servizio militare nella Polizia di Stato ove il dipendente conserva comunque lo status giuridico di militare, con possibilità dopo due anni di essere ammesso definitivamente nei ruoli, in mancanza di rilievi disciplinari gravi.
Un sistema di arruolamento che almeno tendenzialmente crea le condizioni per un rapporto di lavoro inficiato, per ovvi e comprensibili motivi, dal timore reverenziale di perdere la fiducia del superiore, un sistema di arruolamento infine che rallenta almeno di un anno la sindacalizzazione del lavoratore di Polizia.
Tenere i lavoratori lontani dal sindacato è un esercizio che non risparmia neanche i dirigenti di Polizia: è noto l’impegno del Siulp per contrattualizzare questa delicata e importante categoria, ma altrettanto nota è la resistenza pervicacemente opposta dagli apparati. La parte più importante della Polizia dal punto di vista delle strategie organizzative e gestionali, non è contrattualizzata ed è collocata all’interno di un meccanismo di progressione di carriera dipendente in massima parte da valutazioni discrezionali espresse dai vertici del Dipartimento.
Ma è anche da questa categoria che giungono inequivocabili e positivi segnali sulla possibilità di aprire in maniera unitaria e consapevole una riflessione per uscire dal rischio dell’isolamento. […]
Non possiamo e non dobbiamo sottacere la vicenda della “Uno bianca” di cui l’Amministrazione non parla mai ai giovani lavoratori di Polizia. Ripensare dopo oltre dieci anni a certi passaggi di quel periodo si vedono alcune cose con più chiarezza, altre con più dubbi. L’espressione “debordante sindacalismo di base” ricorreva troppo spesso per non apparire oggi come un segnale tutto da decodificare.
Fu all’improvviso rilanciato un modello organizzativo tutto incentrato sul controllo formale del personale come se questo fosse sufficiente a prevenire fenomeni di tale portata.
Significativa da questo punto di vista è l’enfasi attribuita alla riforma del sistema di valutazione dei lavoratori di Polizia (una sorta di annuale pagellina che prevede una valutazione anche della morale del poliziotto) sollecitato addirittura nella cosiddetta relazione “Serra”, dal nome del Prefetto che presiedette la Commissione di inchiesta ministeriale all’indomani dell’arresto dei terroristi della “Uno bianca”. Compito della Commissione era innanzitutto individuare le cause del tremendo fenomeno che tutti conosciamo ma si spinse ben oltre e indicò in meno di un mese persino le linee direttrici su cui apportare cambiamenti rilevando, tra l’altro, che le valutazioni annuali dei lavoratori di Polizia erano troppo appiattite verso l’alto. Cosa c’entrava tutto ciò con la Uno bianca e con la scia di terrore che aveva seminato in questa regione?
La “riforma” dei rapporti informativi è datata 6/5/1996 ma già qualche mese prima, il 14 febbraio 1996, sale da quattro a dieci il numero degli Uffici ispettivi oggi confluiti nelle Direzioni interregionali, sette strutture che assorbono svariate centinaia di lavoratori di Polizia con finalità ispettive e di controllo su tutti gli Uffici periferici della Polizia di Stato, comprese le questure, e una serie di altre competenze talmente vasta da costituire un vero e proprio filtro tra periferia e Ministero senza assorbire alcuna competenza in via esclusiva: nessun decentramento quindi, ma solo un rallentamento delle funzioni. Alla loro direzione sono preposti i sette dirigenti appartenenti alla qualifica creata in analogia a quella rivestita dal generale di Corpo d’Armata. Sulle loro avutovetture è prevista in futuro l’applicazione di apposite bandierine, mentre dal Dipartimento giungeva pochi mesi fa l’indicazione, fortunatamente rientrata, di affiggere la foto del Capo della Polizia in tutti gli Uffici dei dirigenti. […]
Saremmo però miopi se cogliessimo solo in questi aspetti le difficoltà di integrazione del lavoratore di Polizia, il modello totalizzante oggi non ha più il consenso dei lavoratori che invece cercano sempre di più fuori dalle caserme, spazi di cittadinanza ove esprimere la propria personalità, vivere una vita affettiva e migliorare la propria professionalità ma è quasi impossibile anche questo: un giovane lavoratore di Polizia nei primi due anni di servizio potrebbe aver cambiato anche quattro diverse città a causa di un perverso meccanismo di mobilità attraverso cui viene impiegato meccanicisticamente e solo dopo due anni può provare la soddisfazione di una sede definitiva che in genere però non può essere né la provincia di residenza né una provincia con essa confinante.
Nella migliore delle ipotesi i nuclei familiari del poliziotto, figli minori compresi, rimangono smembrati per almeno cinque anni considerando che prima di quattro anni di servizio non può neanche inoltrare istanza di trasferimento. In occasione della celebrazione del patrono della Polizia di Stato è stato promosso il “family day”, altro fuorviante messaggio simbolico, un invito rivolto alle famiglie dei poliziotti ai quali però, in nome della specificità professionale si negano i diritti che a tutela dei minori sono stati riconosciuti a tutto il pubblico impiego, come l’aggregazione nella città ove risiede il figlio minore sino a tre anni di età, prevista da una recente modifica del Testo Unico sulla maternità.
Il divieto di prestare servizio nella propria città ed in quelle confinanti (istituito di nuovo nel 1998) ha creato sul territorio innumerevoli situazioni di difficoltà familiari, di frustrazioni e demotivazioni tutto ciò mentre il Ministero approva l’uniforme di gala per dirigenti.
La formazione professionale del poliziotto finisce anch’essa, con le dovute eccezioni, per ruotare intorno ad una visione tutta interna: nessun finanziamento è previsto per le lezioni di aggiornamento che quindi per la stragrande maggioranza è tenuta da appartenenti alla Polizia di Stato.
Grazie ad un meccanismo attivato da una legge Finanziaria tutti i corsi frequentati dai lavoratori di Polizia all’interno delle nostre Scuole rappresentano un credito formativo che accelera il conseguimento della laurea e molti sono i colleghi che si avvalgono di questa opportunità per progredire culturalmente, ma mai vedremo il percorso inverso: sono infatti sempre più numerosi i colleghi che si laureano in materie giuridiche o si diplomano frequentando con sacrificio le scuole serali, portano un valore aggiunto alla professione e migliorano la qualità del servizio reso al cittadino, ma i saperi delle scuole pubbliche non hanno alcuna forma di riconoscimento ufficiale ai fini della progressione di carriera di poliziotto.
E’ forse una filosofia analoga quella che spinge il Ministero a mantenere, a costi ormai insostenibili per finanze già ridotte ai minimi livelli, enormi caserme amministrate con le tasse dei cittadini e quindi anche dei poliziotti, per un costo quantificato in circa 50 milioni di euro all’anno. Non è stato mai possibile avviare una politica alloggiativa meno onerosa per l’Amministrazione e più rispondente ai bisogni del poliziotto.
La contraddizione culturale profonda tra i nuovi obiettivi prefissati dalla smilitarizzazione della Polizia di Stato e la resistenza di un modello organizzativo che fa ancora fatica ad affrancarsi completamente dalle vecchie logiche ed anzi le rilancia, ha impedito nei fatti la valorizzazione del ruolo tecnico: nato anche per una più razionale utilizzazione delle competenze professionali, non è mai veramente decollato e gli appartenenti a questi ruoli vivono una stagione che rasenta la letterale rimozione.
Se la riforma del modello di difesa avviata nel 1991 poteva in astratto costituire l’occasione per avviare una forma di arruolamento nella Polizia di Stato più somigliante a quella di qualsiasi altro settore del pubblico impiego, consentendo a tutti i cittadini e le cittadine pari opportunità di accesso, è avvenuto esattamente l’inverso.
Con la legge 23/8/2004 n. 226 vengono disciplinate le modalità di reclutamento di volontari nell’Esercito. Il volto dell’Esercito di oggi sarà il volto della Polizia di domani.
Solo ai militari di fatto sarà riservata l’assunzione nei ruoli della Polizia di Stato. Il silenzio dell’opinione pubblica, dei media e il consenso quasi unanime delle rappresentanze politiche ci preoccupa ma non ci sorprende. Troppi fattori hanno inconsapevolmente concorso a creare le premesse di quella che possiamo definire la conclusione di un percorso involutivo che toglie diritti ai lavoratori di Polizia, riduce le opportunità delle donne e nel tempo consegnerà al Paese una Polizia sempre più isolata dalla società civile e diversa da essa: una sorta di “servitù” militare. La riforma di Polizia prendeva forma alla fine degli anni ’70, nel momento più difficile del nostro Paese, quello degli anni di piombo, dei depistaggi e dello stragismo, la domanda di sicurezza dei cittadini di allora, per la portata e la gravità dei fatti che insanguinavano le nostre città non è neanche paragonabile a quella che oggi attraversa le realtà metropolitane, ma veniva coniugata con i diritti dei lavoratori come un unico e indivisibile obiettivo. Libertà e sicurezza democratica dei cittadini vanno di pari passo con il grado di cittadinanza dei lavoratori di Polizia.
L’unico processo di stampo inquisitorio in questo Paese è il procedimento disciplinare a carico del lavoratore di Polizia, di cui si parlerà più diffusamente nel prosieguo dei lavori, che senza alcuna parità delle parti si presta sin troppo facilmente a punire la persona e non il comportamento contestato.
Non sarà certo un caso che in questi anni l’unico tema su cui è stato sin troppo facile aprire un confronto con l’Amministrazione sia stato il riordino delle carriere, piatto prelibato per alimentare le spinte corporative di certi settori e forse unico argomento su cui difficilmente si può coinvolgere la società civile, ma indubbiamente un comodo espediente per segregare le organizzazioni sindacali dentro una virtuale incubatrice, distogliendo l’attenzione da temi ben più complessi, mentre quotidianamente i lavoratori di Polizia affrontano, oltre alle peggiori forme di criminalità organizzata, come ci ricorda l’omicidio di Franco Fortugno, nuove realtà, nuovi bisogni e una società in rapido cambiamento entro la quale occorre recuperare i valori di quella sicurezza democratica e di quella Polizia civile che ha ispirato la riforma del 1981.

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