Permane un clima d’incertezza in merito al problema dell’applicabilità dell’accordo intergovernativo tra Italia e Slovenia.
ra casi di Covid-19 e l’attività senza scrupoli dei passeur, nel corso dell’estate la “Rotta Balcanica” ha continuato ad alimentare il problema dei flussi migratori sul fronte nord orientale, in particolare quello che interessa tutta la provincia di Trieste. Un problema che necessita di una soluzione “operativa” ma che, nella pratica, non ha ancora sbocchi. In particolare resta in ballo il molto criticato accordo intergovernativo bilaterale stipulato da Italia e Slovenia nel 1996 che prevede la riammissione dei migranti nei rispettivi paesi di provenienza.
Questo tipo di procedura trova fondamento in due provvedimenti normativi. Il primo è il testo cardine che regolamenta la vita del cittadino straniero all’interno del territorio nazionale, dal suo ingresso, lungo la fase della permanenza, fino all’uscita dallo Stato, ovvero il d.lvo 286/98 che all’art. 13, comma 14 ter stabilisce: «In presenza di accordi o intese bilaterali con altri Stati membri dell'Unione europea entrati in vigore in data anteriore al 13 gennaio 2009, lo straniero che si trova nelle condizioni di cui al comma 2 può essere rinviato verso tali Stati».
Il secondo alberga in un provvedimento sovranazionale ovvero la cd: “Direttiva Rimpatri” la quale, prevede espressamente all’art. 6, paragrafo 3 che: «Gli Stati membri possono astenersi dall'emettere una decisione di rimpatrio nei confronti di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare qualora il cittadino in questione sia ripreso da un altro Stato membro in virtù di accordi o intese bilaterali vigenti alla data di entrata in vigore della presente direttiva. In tal caso lo Stato membro che riprende il cittadino in questione applica il paragrafo 1».
Oltre a tale normativa di diritto positivo viene in evidenza altresì che: «Nessun limite il diritto internazionale consuetudinario prevede per quanto riguarda l'ammissione e l'espulsione degli stranieri: in questa materia rivive in pieno la norma sulla sovranità territoriale la quale comporta la piena libertà dello Stato di stabilire la propria politica nel campo dell'immigrazione, permanente o temporanea che sia, e di ordinare a stranieri o gruppi di stranieri, di abbandonare il proprio territorio».
Sono state mosse molte critiche circa l’efficacia e l’applicabilità dell’accordo intergovernativo, in particolar modo a seguito di una recentissima risposta del Sottosegretario all’Interno Variati, posta in essere lo scorso 24 luglio, a seguito di un’interrogazione parlamentare urgente dell’Onorevole Riccardo Magi. Risposta che di tutta evidenza non ha soddisfatto né il proponente, né l’ASGI, l’Associazione di Studi Giuridici sull’Immigrazione, che da un punto di vista mediatico si sta ritagliando un ruolo chiave sull’intera vicenda.
Da quanto premesso, però, si può ragionevolmente ritenere che l'accordo intergovernativo Italia-Slovenia, da un punto di vista squisitamente giuridico non sia – in ipotesi – censurabile. In primis perché le stesse norme di diritto positivo nazionali (TUIMM.) e sovranazionali (Direttiva Europea 115/2008) lo consentono attraverso una deroga esplicita.
In seconda battuta, seguendo un ragionamento logico, anche laddove si volesse applicare giustamente il regolamento Dublino III, considerato che la regola generale attuale riposa nella disamina della posizione afferente la Protezione Internazionale in capo al primo paese di contatto aderente allo spazio di Schengen, l'epilogo non cambierebbe affatto nella sostanza. La disamina in Italia della posizione del migrante richiedente asilo, rimarrebbe ferma in attesa della pregiudiziale verifica dello Stato competente alla trattazione.
É indubitabile che le persone vulnerabili in transito attraverso la “Rotta Balcanica” arrivano dalla Slovenia e che la Slovenia dovrebbe essere, alla luce dell'attuale normativa, il primo paese di "approdo" e perciò Stato membro di instaurazione della procedura amministrativa finalizzata alla disamina della domanda di Asilo.
L'accordo intergovernativo tra i paesi limitrofi – da un punto di vista giuridico – altro non fa che diminuire drasticamente i tempi burocratici, rendendo la procedura di riammissione più snella senza sottrarre le giuste garanzie al cittadino straniero.
Su un diverso piano poggia ciò che accade dopo, ovvero il discorso delle riammissioni a catena. Su questo punto però la soluzione politica e non giuridica deve necessariamente passare da tavoli ben più importanti di quello locale e coinvolgere istituzioni sovranazionali a tutto campo.
Il giudizio etico e morale è assolutamente censurabile, ma non verso la Slovenia. Se l'Italia con 60.000.000 di abitanti, fatica grandemente ad assorbire l'impatto sociale, economico, sanitario, di ordine pubblico di un'immigrazione di massa incontrollata che sfugge al progetto di gestione e governo dei flussi migratori che aveva animato il d.lvo 286/98, a fortiori non si può pretendere di scaricare questo immane fardello sulle spalle di un Paese che di abitanti ne conta solo 2.000.000.
Va da sé che la soluzione va ricercata in un contesto molto più ampio a cui devono rivolgersi tutti i soggetti preposti al governo del fenomeno migratorio, i quali devono porsi con atteggiamento costruttivo nei confronti di un problema di eccezionale gravità umanitaria.
Va recuperata la massima sinergia tra tutti gli attori, sia istituzionali che non governativi attraverso dei tavoli di consultazione e confronto il cui telos è la ricerca di una soluzione fattuale che contemperi le reali esigenze e necessità di tutti, nessuno escluso; Con un approccio che coinvolga anche e soprattutto le comunità stanziali che sono il punto di impatto di una situazione estremamente difficile e delicata.
Infine, non deve essere sottovalutato il profilo sanitario in costanza di un'emergenza Covid-19 che non tende a rallentare, investendo le giuste ed opportune risorse in termini di prevenzione che ancora stentano ad arrivare, rendendo obbligatorie talune buone pratiche che alcuni (pubblici e privati) hanno messo in atto tra cui, la misurazione della temperatura in ingresso (Palazzo di Giustizia – Decathlon) ed i tamponi rapidi da estendere nel modo più ampio possibile.
A Trieste i tamponi, quale screening preventivo di routine sui migranti in ingresso, non sono stati effettuati e ciò ha esposto ed espone il personale della Polizia di Stato ad un rischio costante. Quanti migranti sono risultati positivi a Udine? Quanti lo saranno stati a Trieste duranti i numerosissimi rintracci? Dati che non sapremo mai. Il tutto si realizza in un contesto globale ove le regole sono poco chiare, piene di lacune, contraddittorie e che, spesso, scaricano su chi deve gestire fenomeni di portata planetaria, responsabilità che invece sono ubicate in ben altre sedi. Non sarà Trieste, il Friuli Venezia Giulia, l’Italia e nemmeno l’Europa a risolvere il fenomeno delle migrazioni che si data dalla notte dei tempi.
Ciò che però diviene non più procrastinabile è la netta presa di posizione pubblica da parte degli organi centrali dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza – che sono stati peraltro anche sollecitati ad un approfondimento tecnico-giuridico – in ordine alle censure poste in essere.
Un approfondimento in cui, certamente, non deve mancare la dotta ermeneutica di chi applica il diritto, attraverso un parere scritto che possa fugare qualsiasi dubbio sull’applicabilità o meno dell’accordo intergovernativo in commento.
Il SIULP triestino chiede principalemente chiarezza in merito alle procedure da attuare per fronteggiare il problema della frontiera e dei flussi migratori, nel rispetto delle leggi e dei diritti delle persone coinvolte. Unitamente a questo, sempre dalle Istituzioni deve giungere un protocollo sanitario univoco per tutti, posto che l’attuale spostamento della “Rotta Balcanica” (si prenda ad esempio la zona di Udine), deve trovare dal punto di vista sanitario una risposta univoca, che tenda alla massima tutela possibile per tutti i lavoratori del comparto sicurezza.
Fabrizio Maniago
Segretario Provinciale SIULP
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