A guardare i punteggi formulati
nel nostro Paese dei maggiori istituti
di ricerca e di osservazione internazionali, è difficile
non lasciarsi prendere dallo sconforto. La ridefinizione
della nostra identità politica e morale come nazione
sarà molto difficile, ma forse possiamo avere
qualcosa di più di una semplice speranza
Se l’Italia fosse una persona, si potrebbe dire che è in crisi di identità. Il mondo, cioè il quadro entro il quale eravamo abituati a pensarci, sta cambiando a ritmi velocissimi: è in atto una gigantesca ridistribuzione dei pesi economici, dei ruoli e delle influenze politiche su scala planetaria. L’Italia stenta a farsi un’idea precisa di ciò che vuole essere, come Paese, nel nuovo scenario globale che si va profilando, e dunque rischia di trovarsi, in questo cambiamento, tra quelli che lo subiscono. Non è questo un problema solo italiano: tutta l’Europa sta vivendo una fase opaca riguardo alla sua identità. Da noi però un senso di vertigine da sprofondamento si fa sentire maggiormente. Con qualche fondata ragione.
Diversi settori industriali sono in crisi e una sensazione di impoverimento investe larghe fasce di popolazione. Ancora oggi – e forse più di qualche anno fa - intere regioni del nostro Paese sono di fatto sottratte alla sovranità nazionale e soggette ad un potere criminale pervasivo e spietato che, attraverso la pratica del terrore e dell’intimidazione, nega ai cittadini che vi abitano il diritto alla democrazia, alla libertà e alla sicurezza. Sul piano economico, a detta degli esperti, difficilmente nel prossimo futuro potrà esservi qualcosa di più di qualche segno di passeggera ripresa: la prospettiva resta persistentemente grigia e piatta. In un mondo che è comlessivamente salito di un gradino, rischiamo di restare più piccoli ed insignificanti su quello più in basso. Il fatto è che non si può oggi essere protagonisti senza avere un’idea di quello che si vuol essere, senza un progetto, una proiezione di sé nel mondo. Insomma, senza un’identità.
L’Italia non è una superpotenza, ma non è nemmeno un Paese trascurabile. Ha avuto una storia plurisecolare che ha dato un contributo determinante alla civiltà europea – e dunque, attraverso di questa, al mondo. Custodisce immensi tesori di cultura e di arte. Sa fare bene alcune cose. Potrebbe perciò avere qualche chance nel nuovo scenario globale, offrire qualcosa di suo, originale, al processo di formazione dell’identità europea e alla inedita realtà mondiale che si sta formando. Avrebbe dovuto lavorare per costruire una propria identità globale, non pretenziosa, fuori della portata della nostra realtà e dei nostri mezzi, ma armoniosa, fatta di comportamenti rigorosi e credibili, di spirito di iniziativa, di interesse per le cose del mondo, di sensibilità per i problemi umani e dell’ambiente, del nostro proverbiale spirito inventivo e del nostro gusto di vivere. Utilizzando a fondo il fatto che il nostro Paese è da sempre amato dagli stranieri. Ancora oggi l’italiano – pure essendo parlato da non più di 60 milioni di persone, è al quarto posto nella graduatoria delle lingue più studiate del mondo. Avrebbe dovuto… fin dall’inizio degli anni ’90. Viceversa il Paese è rimasto al palo, ripiegato in un provincialismo timoroso e senza prospettive.
Non era difficile, fin da allora, prevedere che il cambiamento repentino degli equilibri geopolitici del mondo - “la svolta”, come lo chiamano i tedeschi (“die Wende”), che sono stati quelli che lo hanno vissuto nel modo forse più intenso - avrebbe aperto un periodo di grande fluidità nei rapporti internazionali che avrebbe richiesto di “pensare il nuovo”, di “pensare in grande”, di prendere un’iniziativa a tutto campo per far svolgere al nostro Paese – entro l’ambito delle sue possibilità - un ruolo di “global player” nella nuova fase.
Ma proprio all’inizio degli anni ’90 l’Italia si trovava a vivere la più grave crisi della sua storia postbellica, con un sistema politico in dissolvimento e con uno Stato sull’orlo della bancarotta. La classe dirigente che aveva guidato il Paese dal dopoguerra aveva fallito, e di questo fallimento il dilagare della corruzione e il dissesto finaziario erano la prova più drammatica. Gli storici probabilmente ricorderanno questo momento come la vera fine del “lungo dopoguerra”, per il nostro Paese.
La storia dell’Italia dopo la Seconda guerra mondiale era stata scandita da tappe ben chiare, ciascuna delle quali ha corrisposto ad una modificazione significativa della identità della nazione. Nella fase della ricostruzione gli italiani sapevano chi erano: poveri, in maggioranza ancora contadini, risvegliati dolorosamente da un sogno catastrofico – quello del fascismo - ma pieni di speranze e lanciati sulla via della conquista del benessere. Questo furono per tutti gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta.
Il tentativo di avviare riforme e le convulsioni del ’68 segnano il primo passaggio di identità. L’Italia è ora un Paese che cova una esigenza ardente ed incontenibile di cambiamento. Si tratta di una passione con forte connotazione utopica. Per questo è eccessiva, difficile da incanalare verso esiti costruttivi e duraturi. L’utopia non va di moda oggi. Ma sarebbe proprio per questo da meditare adesso su di essa: questo è il momento migliore, quando, come un sole subito dopo il tramonto, si può osservare la sua luce senza farsene accecare.
L’utopia indica il non-luogo in cui il pensiero, come un riflettore rivolto verso il cielo, proietta il fascio di luce del desiderio, direttamente fuori dalle condizioni storiche determinate. L’utopia nasce nella storia, ma è proiezione fuori dalla storia. Questo fuori immaginario può essere l’ideale punto d’appoggio archimedico su cui fare leva per sollevare la realtà oltre quella che è. Grazie all’ardore dell’utopia lo spirito umano prende più coraggio e conquista nuove posizioni di forza nei confronti della realtà, tiene fermo sotto di sé il mondo delle cose, altrimenti oscillante nell’ambiguità del mito. L’utopia può essere l’elemento fondativo di un nuovo modo di essere di una comunità umana. Questo essa fu nelle rivoluzioni inglese e francese, l’una nel secolo XVII, l’altra alla fine del XVIII, che hanno segnato le tappe fondamentali della nascita della società moderna, non solo in quei paesi in cui si sono compiute.
Ma il problema dell’utopia è che scatena un’energia immensa, è una sorta di esplosione atomica che è difficilmente controllabile. E in effetti la politica italiana non seppe incanalare il ’68 in modo che il Paese ne traesse giovamento. Nessuno fu capace di utilizzarlo come formidabile motore per disincagliare il Paese dalle secche secolari delle sue debolezze ed arretratezze. L’energia del ’68 si consumò così per un decennio, come un pozzo petrolifero incendiato in mezzo al deserto, sprigionando inutilmente energia, ma lasciando la scia di fumo nero ed acre dello stragismo di Stato, del terrorismo, delle violenze.
La stagione utopica si chiude così, divorando sé stessa in una autocombustione. L’Italia dopo di essa era profondamente cambiata. Ma non sulla base di un’idea, di un progetto di nazione coerentemente elaborato. Quando si ritira di nuovo nel cielo delle idee, l’utopia lascia un grande vuoto di senso.
La cultura politica italiana non elabora seriamente questo vuoto. Lo rimuove, lo mette da parte. Ma l’utopia può davvero dimostrarsi feconda non nel momento in cui scatena l’esplosione “atomica” della speranza, bensì allorché è necessario, per coloro che vi si sono identificati, elaborare la esperienza della sua impossibilità. E’ nel vivere fino in fondo questa impossibilità che gli uomini cambiano davvero sé stessi e il loro rapporto con il mondo. Possono rientrare nella storia più forti, dopo essere passati per il “rovescio” della storia, l’utopia, appunto.
L’elaborazione del vuoto è vivere in esso come se non ci trovasse. In una situazione in cui si può galleggiare nella leggerezza morale, elaborare il vuoto vuol dire tenere comunque i piedi sulla terra di una etica vissuta per sé stessa, infilando i giorni uno dopo l’altro, con pazienza, anche se non se ne ha il senso. Sul piano morale, il corrispettivo della forza di gravità fisica è la pazienza.
Invece al ritiro dell’utopia segue l’impazienza, la leggerezza, l’euforia di un vivere che sembra all’improvviso diventato facile. Vertiginosamente facile. Qui – credo – sta l’errore. Qui, insomma, ci siamo persi.
Negli anni Ottanta - gli anni del disincanto – la leggerezza si può rappresentare parafrasando una celebre frase di un personaggio di Dostoewskij: “se non c’è l’utopia, tutto è permesso”. Se non è possibile costruire un paradiso comune in terra, allora è permesso che ciascuno cerchi in ogni modo di procurarselo per sé.
Era questo il tempo della “insostenibile leggerezza dell’essere”, come diceva il titolo di un romanzo di grande successo di allora, di Milan Kundera, il cui successo si spiega – credo – soprattutto per la icasticità con cui il suo titolo fotografava lo spirito del momento, caratterizzato da un’ebbrezza edonistica procurata dalla “libertà dall’utopia”, intesa come “libertà dall’etica”.
“La nave va” poteva dire allora Bettino Craxi, negli anni in cui fioriva l’Italia dei distretti e i “Condottieri” – come ebbe a chiamare allora la rivista Time, con suggestivo riferimento rinascimentale, gli imprenditori e i finanzieri italiani impegnati ad acquisire nuove posizioni di forza sul piano internazionale – andavano per il mondo animati da sete di conquista. Sul piano culturale, sono gli anni della riscoperta di Nietzsche, della “volontà di potenza” come unico senso. Il mondo sembrava lì, pronto per essere afferrato e goduto. Alla luce di questo nuovo spirito, l’ardore utopico del decennio precedente sembrava ormai lontano, una sorta di furioso moralismo savonaroliano di un medioevo recentissimo, ma diventato di colpo incomprensibile, di cui ci si era finalmente liberati, come ci si libera da un incubo.
A quel moralismo fece seguito, come per contrappasso - l’immoralismo dannunziano di personaggi come Sgarbi. Come notava Karl Marx, che si riferiva ai tedeschi (i quali avrebbero l’attitudine – secondo lui – di vivere le restaurazioni senza avere prima partecipato alle rivoluzioni), anche in Italia sono proprio quelli che avevano meno partecipato alla passione utopica a sentirsene maggiormente liberati, buttando il passato alle spalle, voltando velocemente pagina e gabbana, arraffando in ogni modo – lecito o illecito - tutto ciò che era possibile: carriere, successo, denaro.
Sono gli anni della “Milano da bere” e della vita da godere. Effettivamente sembra che questa effervescenza porti l’Italia ad occupare una posizione invidiabile nel mondo. Quinta – o quarta potenza mondiale, secondo l’allora ministro degli Esteri De Michelis, considerando la cospicua parte in nero del Pil italiano – per la grandezza della sua economia nella graduatoria delle potenze industriali, avendo compiuto il sicuro sorpasso di una Gran Bretagna in crisi e forse anche della Francia - ammirata per il suo “stile” e il suo “belvivere” l’Italia gode una stagione apparentemente felice e spensierata. Perfino i suoi difetti sembrano piacere agli stranieri. Grazie anche a saghe cinematografiche, come quella del “Padrino”, di successo mondiale, appaiono fascinosi anche fenomeni ripugnanti della nostra vita nazionale, come la mafia.
Ma la “leggerezza dell’essere” di questa stagione è – appunto – “insostenibile”. Ben presto lascia emergere un suo contraltare oscuro. Il debito pubblico sale vertiginosamente nel decennio, aumentando in un solo anno anche del 12 o 13%. Fino ai primi anni Ottanta l’Italia aveva un deficit dello Stato – si può dire – normale, corrispondente grosso modo a quello che anche oggi la Ue raccomanda ai suoi membri di mantenere (intorno al 60% del Pil). Ma nell’arco di pochi anni il debito tocca e sfonda la soglia del 100%. E’ l’effetto della sostituzione del denaro come unico senso e motore della politica agli ideali del periodo precedente.
Un sistema di corruttela gigantesco domina la politica, l’amministrazione, l’economia. Scava un baratro che porta nel giro di pochi anni il Paese sull’orlo della bancarotta. La leggerezza euforica si può trasformare, quasi da un momento all’altro, nella angosciosa vertigine dell’abisso.
All’inizio degli anni Novanta si pone la necessità assoluta di un risanamento radicale della situazione finanziaria dello Stato, e, insieme ad essa, di una svolta morale che riporti l’Italia alla realtà.
La sterzata sull’orlo dell’abisso - come si sa - venne impressa dal governo Amato, con la manovra finanziaria più grande della nostra storia nazionale, compiuta in extremis. Ma il sistema politico che aveva retto l’Italia dal dopoguerra crollava. La sua fine era già segnata nel momento in cui era apparsa in tutta la sua enorme gravità la imminenza della catastrofe dello stato. “Mani pulite” fu solo la sanzione formale di questa fine. Insieme ad esso tramontò lo spirito degli anni Ottanta, incarnato politicamente dal craxismo. Questo sistema aveva resistito ancora per vent’anni - con il puntello della corruzione e della dissipazione delle risorse comuni - dopo il terremoto del ’68, come certi edifici lesionati che sembrano intatti dopo un sisma, ma che rovinano all’improvviso, alla ennesima, piccola vibrazione.
Il primo governo Amato fu l’espressione di una sorta di riflesso automatico dell’istinto di sopravvivenza del Paese, che sopportò senza batter ciglio - come se sentisse di meritarsela - la dura frustata del risveglio. Ma l’istinto di sopravvivenza poteva bastare a trattenere il Paese dal cadere nell’abisso, ma non poteva di per sé costituire positivamente una nuova identità. Per questo ci vuole la ragione. Disposti a compiere sacrifici anche molto duri per evitare il disastro, gli italiani non erano ancora disposti a rinunciare alla “leggerezza” .
Il berlusconismo doveva in ogni senso rappresentare la continuazione, sia pure aggiornata, dello spirito “leggero” degli anni Ottanta, all’ombra del quale, della sua espressione politica più organica – il craxismo – aveva sviluppato la sua base mediatica. Dopo il suo primo breve esordio al governo, Berlusconi passa all’opposizione, ma aggrega intorno a sé, con la potenza delle sue televisioni, la parte un tempo moderata dell’Italia, che, rimasta senza la rappresentanza politica della Dc, si lascia coinvolgere in un progetto niente affatto moderato.
La formula di Berlusconi è semplice ed alettante. Si può così riassumere: “lasciate fare a me”. Si capisce che un Paese che è stato appena bruscamente svegliato ed obbligato duramente a ritornare alla realtà non sia insensibile all’idea di delegare l’ostico rapporto con essa ad un uomo che dichiara con convinzione di saperci fare. Non è uno che come imprenditore ha ottenuto un successo strepitoso? Se è riuscito per sé, potrà riuscirci anche per l’Italia.
Non importa che l’uomo scelto come capo del suo governo sia largamente chiacchierato in patria e all’estero. Non importa che sulla sua testa pendano numerose imputazioni, alcune delle quali gravissime (come quella di corruzione di magistrato), non importa che abbia in tasca la tessera della eversiva P2, non importa che il suo impero mediatico sia in grado di condizionare e manipolare l’opinione pubblica.
Berlusconi vince una prima volta le elezioni e governa per alcuni mesi. Troppo poco per dare veramente un saggio delle sue capacità.
Nel ’96 tocca al centro sinistra. Per qualche tempo il Paese si riscuote. Marcia compatto perché ha un obbiettivo chiaro: non farsi scappare l’Europa. Due anni di governo Prodi permettono all’Italia di entrare nell’euro, nonostante il pesantissimo retaggio del dissesto e della corruzione degli anni Ottanta che gli pesa sulle spalle. Un risultato su cui pochi, prima, avrebbero scommesso. Ma raggiunto l’obiettivo, è come se di nuovo il Paese tornasse alla abulia della crisi di identità. La caduta di Prodi fu dovuta al riemergere di stolidi particolarismi all’interno dello schieramento di centrosinistra e preparò il ritorno della “leggerezza” berlusconiana.
All’indomani del successo dell’ingresso nell’euro la classe dirigente del centrosinistra passa allo “stato gassoso”. Lascia prevalere al suo interno gli interessi di potere e di visibilità dei singoli partiti e perfino dei singoli dirigenti su quello strategico del Paese di non interrompere quella stagione di paziente e tenace risanamento economico che era anche di ripresa di contatto con la realtà. La “leggerezza dell’essere” si impossessa anche del centrosinistra. Si interrompe così la appena avviata fase di faticosa ricostruzione dell’identità.
Dal ’98 al 2001 il centrosinistra sopravvive a sé stesso, preparando il ritorno alla grande della suadente leggerezza berlusconiana. Il Paese torna a sognare. Chi ha detto che le cose sono difficili? Il miracolo economico è alla portata, basta sciogliere l’Italia dai lacci dello statalismo. Sembra la riedizione dell’euforia degli anni Ottanta, pare che di nuovo si possa dire che “la nave va”.
Questa volta però la situazione è diversa. L’Italia non può più partire in tutta libertà per la tangente, perché ha degli ancoraggi ben più solidi al mondo che la circonda, è inserita organicamente nell’Unione europea. Non si può alimentare il sogno facendo ripartire a velocità vertiginosa il debito pubblico. Ma qualcosa in questo senso si fa lo stesso.
Il debito italiano - che era sceso al 106% circa del Pil alla fine del governo di centrosinistra - ricomincia a crescere. L’avanzo primario – cioè il risparmio dello Stato per la riduzione del debito, che prima di quest’ultimo quinquennio era di oltre il 5% l’anno, è praticamente scomparso. Il risanamento, iniziato dal governo Amato e proseguito, più o meno faticosamente, negli anni successivi, si è perciò interrotto e ci troviamo di nuovo nel rischio di deriva finanziaria. La nave va, ma già appaiono davanti gli scogli.
A guardare i punteggi formulati sul nostro Paese dai maggiori istituti di ricerca e di osservazione internazionali, è difficile non lasciarsi prendere dallo sconforto. L’Italia è precipitata negli ultimi cinque anni dal ventiseiesimo al quarantasettesimo posto nella graduatoria mondiale della produttività ( penultimi nell’Europa a 25: peggio di noi solo la Polonia), all’ottantanovesimo posto nella graduatoria della stabilità macroeconomica, all’ottantasettesimo in quella degli sprechi della Pubblica amministrazione, al penultimo posto in Europa nella graduatoria della scolarizzazione (solo il 57% dei nostri giovani di età tra i 18 e i 34 anni hanno conseguito il diploma di scuola superiore, contro il 78% della Francia, l’85% della Germania, l’88% degli Usa, il 95% della Corea del Sud, ecc.). Per non parlare della nostra imbarazzante collocazione nella graduatoria mondiale della libertà di stampa, che ormai tutti conoscono grazie alla pubblicità che ne è stata data nello show in tv di Celentano, o della nostra immagine internazionale, pesantemente offuscata dallo scandalo (più per gli stranieri che per noi, purtroppo) della pratica governativa delle leggi ad personam, oltre che dalle numerose gaffe internazionali del Presidente del Consiglio.
Insomma, l’Italia, così come è oggi, sta perdendo terreno quasi in ogni campo, economico, civile, ecc. Da qui la sensazione che la crisi di identità stia di nuovo precipitando, come all’inizio degli anni Novanta.
Il berlusconismo non è solo un modo di governare. E’ prima di tutto la incarnazione di una concezione della vita, della morale, della politica. Ora, ad esperienza compiuta, si può dire che esso è stato effetto ultimo di quella crisi di identità mai superata, seguita alla modernizzazione accelerata, al tramonto dell’utopia e alla difficoltà di questo Paese ad elaborare il vuoto da essa lasciato, non l’inizio del suo superamento.
Ora, se - come sembra ed è probabile - il berlusconismo è al tramonto, la ridefinizione della nostra identità politica e morale come nazione dovrà avvenire in un contesto difficilissimo, aggravato rispetto a quello degli anni ’90. Perché nel frattempo le cose – come si dice – sono andate avanti.
Il risveglio dal sogno non potrà certo essere dolce. Ma c’è il rischio – non bisogna tacerlo – che una volta ripresa in qualche modo in mano la situazione, una volta allentata la pressione dell’emergenza in cui il Paese di nuovo si trova, la classe dirigente del centrosinistra torni allo“stato gassoso”. Ciò porterebbe il Paese non solo all’ingovernabilità, ma ad una fase pericolosissima, che potrebbe rivelarsi perfino “dissolvente” non solo per l’identità, ma per le strutture istituzionali e civili portanti del Paese, per la sua stessa unità.
Vi è la possibilità che ciò accada – a stare all’esperienza del passato si potrebbe dire che è probabile – ma vi è anche la speranza che le cose questa volta vadano in una direzione diversa da quella del peggio. Forse possiamo avere qualcosa di più di una semplice speranza.
Forse possiamo contare ragionevolmente sull’emergere nel Paese di una nuova passione civile forte, ma senza le caratteristiche dirompenti – e dunque difficili da incanalare positivamente in una proposta politica – dell’utopia. Una passione che in qualche modo non nasce da una rimozione di quel momento in cui “tutto sembrò essere possibile”. Se fosse così sarebbe una passione “debole”, “evasiva”. Leggera. Ma una passione civile che è il risultato di una lunga, sommersa elaborazione del vuoto di senso lasciato dal ritiro dell’utopia nel cielo delle idee.
La straordinaria partecipazione di popolo alle primarie del centrosinistra ha un significato che va al di là della sua importanza per uno schieramento. Indica per tutti – destra e sinistra - quello che può essere il baricentro di una identità matura: un protagonismo popolare che ha elaborato il tramonto dell’utopia non come ragione di rimozione e occasione di distacco dalla realtà. Che ha compreso che la “leggerezza” - anche e soprattutto quella berlusconiana - è la variante euforica della disperazione.
Ora questa partecipazione popolare, questa matura passione civile che non arde più per l’utopia, ma è capace di accendersi davanti ai problemi reali del Paese, può forse essere il segnale che la fase della nostra “postutopica” elaborazione del vuoto di senso è terminata e che il motore vero del nostro agire comune non sta più nel cielo delle idee, ma sulla terra, e trae forza dalle sfide reali che abbiamo di fronte.
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