È iniziato, logicamente, il periodo dell’occupazione del paese invaso e sconfitto, e si presenta irto di difficoltà e contrasi. Tra curdi, turcomanni, sanniti, sciiti, i rapporti in Iraq non sono mai stati facili: ora rischiano di complicarsi ancora maggiormente, con la presenza dei militari americani e britannici, seguiti dalle truppe fornite da alcune delle nazioni i cui governi hanno dato il loro benestare alla guerra. Compresa una rappresentanza italiana. Per una missione “emergenziale e umanitaria” ha dichiarato il ministro degli Esteri Frattini: 3.000 uomini, tra Carabinieri, Esercito, Aviazione, Marina, dislocati nella regione di Bassora e alla frontiera con l’Iran, posti sotto comando britannico. Infatti l’occupazione prevede la creazione di tre zone: una a nord, affidata a un contingente polacco, con l’ausilio di ucraini e bulgari, la più estesa al centro, con Baghdad, tenuta dagli americani, e una terza a sud, delegata ai britannici, che avranno sotto i loro ordini italiani e spagnoli. Su tutti regna il governatore americano Paul Bremer, che ha rapidamente sostituito l’ex generale Jay Garner, dimostratosi particolarmente inadatto all’incarico. Bremer, 61 anni, diplomatico di carriera, dipende formalmente dal segretario di Stato Colin Powel, ma è notoriamente schierato con i “falchi” di Washington, il segretario della Difesa Donald Rumsfeld, e il suo vice Paul Wolfowitz. È stato uno dei collaboratori di Henry Kissinger, anche nella sua attività privata di consulenza strategico-economica.
Ora Stati Uniti e Gran Bretagna vogliono che il ruolo di “potenze occupanti” (finora si era parlato solo di “liberatori”) sia riconosciuto dall’Onu, ignorata al momento dell’invasione, e che venga messo termine sia all’embargo all’Iraq, sia al programma “oil for food” che limitava le esportazioni petrolifere irachene ponendole sotto il diretto controllo delle Nazioni Unite. Da ora in poi i proventi dell’industria petrolifera dovrebbero andare a un “fondo per l’assistenza” gestito dal banchiere americano Peter McPherson, ex sottosegretario al Tesoro. Una manovra prevedibile, che però a molti non è piaciuta. “Gli americani – ha dichiarato il commissario dell’Unione Europea Poul Nielson, che coordina gli aiuti all’Iraq, in un’intervista alla radio danese – vogliono impadronirsi del petrolio. È difficile interpretare in qualunque altro modo la loro proposta”.
Il petrolio. L’“oro nero” torna ad essere al centro dell’affare Iraq. Unito al problema dei debiti accumulati dal regime di Saddam Hussein, 127 miliardi di dollari che Washington chiede agli interessati di condonare. “L’Iraq è un paese potenzialmente molto ricco a causa delle sue risorse petrolifere – ha replicato Ernst Welteke, presidente della banca centrale tedesca (la Germania vanta crediti per 5 miliardi di dollari) – La cancellazione del debito riguarda solo i paesi molto poveri”. Mentre il ministro delle Finanze russo Alexei Kudrin ha ricordato che dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica “nessuno cancellò un dollaro dal debito estero russo, nonostante fosse da attribuire a un passato regime”. Comunque Mosca si è dichiarata “disponibile a riprogrammare il debito” quando si discuterà sul ruolo delle aziende russe, che con Saddam avevano firmato contratti per oltre 50 miliardi di dollari, “nei grandi progetti in Iraq, soprattutto negli impianti per il petrolio e per il gas”. Seguendo la linea di “punire la Francia, ignorare la Germania, perdonare la Russia” (per l’opposizione dei tre paesi alla guerra) l’amministrazione Bush potrebbe addivenire a qualche forma di accomodamento, fermi restando gli interessi americani sulle fonti energetiche irachene. E ci si chiede, per fare un esempio significativo, quale trattamento sarà riservato alla francese Total-Fina-Elf che si era assicurati i diritti di sfruttamento dei ricchi giacimenti di Majnoon, nel sud del paese. In linea di principio, gli Stati Uniti avevano dichiarato già prima dell’invasione che i contratti stipulati con il regime iracheno non sarebbero stati considerati validi. E non nascondono che nel settore petrolifero, come nell’altro lucroso affare rappresentato dalla ricostruzione (edifici, strade, acquedotti, elettricità, telefonia), intendono tenere ben stretto il potere decisionale. Del resto, un contratto (di un valore tenuto segreto, per “motivi di sicurezza”) riguardante l’ammodernamento degli impianti di estrazione e delle linee di distribuzioni del petrolio è stato già firmato con una consociata della Halliburton, società della quale il vice presidente Cheney è stato amministratore delegato.
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Certo, la guerra non è stata fatta per il petrolio. I motivi ufficiali detti e ripetuti erano: 1) l’Iraq possedeva armi di distruzioni di massa (chimiche, biologiche, e forse nucleari); 2) il regime di Saddam Hussein aveva legami stretti con Bin Laden e Al Qaeda, e quindi si doveva ritenere responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001. Il fatto è che le armi suddette non sono state trovate, né prima della guerra dagli ispettori dell’Onu, né dopo l’occupazione da americani e britannici. E d’altra parte molti si chiedono che cosa volesse farci Saddam con quelle armi, se non le ha usate per contrastare quella che sarebbe sicuramente stata la sua sconfitta. Quanto ai rapporti con Bin Laden, non è stata mai fornita la minima prova di collusioni vicine o lontane.
Forse è per questo motivo che delle armi e di Al Qaeda non si parla più, e si parla invece, molto, di petrolio. I due argomenti, o almeno quello delle armi di distruzione di massa (ovviamente bombe e missili “intelligenti” sono un’altra cosa), potrebbero però tornare utili per altri paesi catalogati da George W. Bush come “asse del male”. La Siria? L’Iran? La Corea del Nord? Quest’ultima ha apertamente dichiarato di avere l’arma nucleare, lasciando intendere che se fosse stata attaccata non avrebbe esitato a servirsene. L’Iran, che non si sa bene che cosa abbia o non abbia, sarebbe un osso parecchio più duro di un Iraq militarmente messo a terra dalla prima Guerra del Golfo, e sottoposto per undici anni a quotidiani bombardamenti aerei. Questa vittoria, neppure rapidissima, della formidabile potenza bellica di Stati Uniti e Gran Bretagna non può davvero essere presa come garanzia di facili futuri successi. La Siria potrebbe sembrare un’“opzione” più verosimile, specie dopo le minacciose dichiarazioni di Donald Rumsfeld, che troverebbero consenziente il presidente Bush. È vero che il leader siriano Assad, pur accusato di aver fornito armi all’Iraq, non si è mostrato disposto ad accogliere i transfughi del regime di Baghdad. Ma è anche vero che la Siria sostiene le punte estreme della resistenza palestinese, Hamas, Jihad islamica, Fronte Popolare, che il governo israeliano vorrebbe includere nelle organizzazioni del terrorismo internazionale.
E poi, rilevano alcuni osservatori, un’altra guerra “facile” (il potenziale bellico siriano appare piuttosto mediocre) servirebbe a distrarre i cittadini americani dai gravi problemi interni (crisi economica, disoccupazione) in vista delle elezioni presidenziali del novembre 2004. Bush vuole assolutamente (e con lui lo vogliono i suoi sostenitori politici e finanziari) essere confermato, ma non ha dimenticato che un anno dopo aver vinto la guerra contro l’Iraq nel 1991, pur dichiarata nell’ambito dell’Onu e con largo concorso internazionale, per motivi analoghi suo padre perse la Casa Bianca. E il presidente è impegnato a portare avanti la sua strategia di tagli fiscali per i redditi più alti, che comporterà un aumento record del debito pubblico di 984 miliardi di dollari, portandolo a 7,384 miliardi di dollari.
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Una guerra “illegale”, inutile per quanto riguarda la lotta al terrorismo, ma almeno, si dice, è finita, e il regime di Saddam Hussein è stato abbattuto. È davvero così: Robert Fisk, inviato del britannico The Indipendent in Iraq, esperto del Medio Oriente, dove vive da ventitré anni, ha in proposito dei dubbi che ha espresso in un forum tenutosi a Roma, nella sede del quotidiano l’Unità: “Io non credo che la guerra sia finita, ma che lentamente si comincerà a conoscere un movimento di resistenza che potrebbe poi integrare gli sciiti, alcune fazioni di curdi e gli ex sostenitori di Saddam, forse anche loro. Storicamente l’Iraq non ha mai accettato occupazioni straniere, e questa è un’occupazione, in una capitale che ha sempre resistito a tutte le occupazioni fin dai tempi dei Mongoli… È stato interessante quel discorso piuttosto sinistro che Rumsfeld ha tenuto a Baghdad. Ha detto che uno dei compiti degli americani in Iraq era quello di scoprire le reti del terrore. Credo che stesse preparando il terreno per il racconto successivo, per dire quello che il Pentagono sa che succederà”.
L’attentato del 13 maggio scorso a Rijad sembrerebbe mostrare che la guerra all’Iraq non ha toccato le centrali del terrorismo internazionale islamico. Anzi, vi è da augurarsi che non abbia dato loro nuovo respiro.
(tratto dal numero di giugno 2003)
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