Il fenomeno del terrorismo è molto poco studiato nei suoi risvolti psicologici ed anche in questo momento in cui i mass media offrono ampio spazio alla pagina sul terrorismo è molto raro trovare degli articoli che ne analizzino la componente psicologica. Il terrorismo ha come obiettivo finale il suscitare nelle persone del campo avversario delle emozioni negative come la paura, l’angoscia, l’inibizione delle attività e la riduzione dei comportamenti sociali. È un modo quindi per condizionare, controllare, inibire il comportamento altrui attraverso la suggestione emotiva della paura. Da sempre la violenza e la paura, sia espresse con attentati che minacciate dalla propaganda, sono usate come tecniche di pressione sulla popolazione avversaria.
Dall’11 settembre scorso nel mondo occidentale la risonanza delle immagini degli aerei che si schiantano contro le Torri Gemelle a New York ha provocato un cambiamento nella routine quotidiana di moltissime persone. L’obiettivo non era solo il creare ad esempio grosse difficoltà nel trasporto aereo, per l’amplificata paura indotta che quasi tutti hanno nel prendere l’aereo, per cui da allora in tutto il mondo si prende l’aereo solo se strettamente necessario. In più le ultime minacce del terrorismo batteriologico stanno modificando alcune abitudini come andare al cinema, al ristorante, prendere la metropolitana o semplicemente aprire la posta.
Gli atti di terrorismo coinvolgono emotivamente tutta la popolazione avversaria, non solo quindi obiettivi come gli uomini di governo, i politici e le Forze armate. Il terrorista ottiene, con l’effettiva uccisione di poche (o molte) vittime, il condizionamento inibitorio di tutta la popolazione avversaria. Il coinvolgimento emotivo riguarda la potente stimolazione di ogni forma di paura che risieda nella personalità della vittima. Si amplificano infatti non solo la paura della morte, ma anche quelle intime e soggettive della paura delle malattie, degli incidenti, delle brutte notizie e di molte altre ancora. C’è inoltre una più forte intolleranza allo stress e alle frustrazioni. Aumenta la diffidenza e l’ostilità verso tutto ciò che è straniero, sconosciuto, estraneo al proprio quotidiano. Persone che già avevano per motivi personali un precario equilibrio psicologico, dopo l’11 settembre si sono ritrovate a non dormire, a non riuscire a stare da sole, a rifiutare i luoghi affollati e a far un uso massiccio di psicofarmaci sedativi. Tutti questi effetti psicologici e comportamentali rappresentano l’obiettivo del terrorismo.
Per coinvolgere il maggior numero di persone possibili il terrorismo ha bisogno ed usa i mezzi di comunicazione di massa che fungono quindi da inconsapevole ma necessaria cassa di risonanza. Non potrebbe esistere il terrorismo senza giornali e televisione ed è per questo che il fenomeno è esploso in questo secolo ed in questi anni. Ogni terrorista cerca il contatto con la stampa e le televisioni ed accetta ogni richiesta di intervista con piacere. Il governo degli Usa ha per questo più volte chiesto ai network dell’informazione, come la Cnn, una specie di censura sulle dichiarazioni di Osama Bin Laden. Il terrorismo vuole agire sotto i riflettori e le telecamere delle televisioni. Non avrebbe avuto lo stesso effetto psicologico il sapere semplicemente che due aerei si erano abbattuti sulle Torri Gemelle.
Il saperlo leggendolo sul giornale sarebbe stata una semplice informazione con scarsa risonanza emotiva, così come avviene per i frequenti genocidi che avvengono in Africa tra tribù rivali. Il terrorista sa che nel mondo della comunicazione globale esiste solo ciò che la televisione trasmette. Vedere più e più volte gli aerei che esplodevano sulle torri, e da più angolazioni, ne moltiplica il distruttivo impatto psicologico sulla popolazione. Non è più solo informazione, è un dramma emotivo collettivo, uno scuotimento interiore pubblico e per ognuno è un cedimento delle proprie certezze e dell’equilibrio su cui si regge il vivere civile.
Le immagini di morte e di terrore, sia in video che sulla stampa, non inducono al ragionamento, colpiscono direttamente l’emotività dello spettatore. Di fronte all’immagine della morte, nell’attimo in cui viene consumato il dramma dell’attentato o immediatamente dopo, lo spettatore subisce un condizionamento psicologico acritico che scavalca le proprie capacità di ragionamento: quello che riceve è solo una suggestione emotiva. Con il ragionamento si toglierebbe efficacia ad ogni forma di induzione della paura: ragionare scaccia le paure. In più si può affermare che ogni scena di morte per lo spettatore è una evocazione della propria morte e quindi produce angoscia, produce paura e smarrimento. Questo accade soprattutto quando la morte riguarda persone in qualche modo simili, vicine a noi, con cui è possibile identificarsi. L’identificazione con le persone simili a noi appaga e rassicura normalmente e fisiologicamente il nostro bisogno di appartenenza e di protezione. Tuttavia quando viene colpito il nostro simile ci sentiamo più vulnerabili e più minacciati anche noi per il semplice pensiero che poteva capitare anche a noi.
C’è da dire inoltre che il terrorismo con il suo carico di sangue e di odio stimola e gratifica anche la componente violenta e distruttiva del nostro inconscio, cioè il nostro istinto di morte. Dentro l’inconscio di ognuno di noi risiede una componente violenta e distruttiva che chiede di tanto in tanto di essere soddisfatta in qualche modo. È per calmare la sete di violenza di questa componente della nostra personalità che si corre al cinema a vedere i film dell’orrore, che rallentiamo per strada quando vediamo delle macchine incidentate e che indugiamo tanto su quelle tremende immagini dell’attacco e della fine delle Torri Gemelle di New York.
Il senso di appartenenza ci rende quindi partecipi del dramma di chi veramente è morto nell’attentato alle Torri Gemelle di New York. Ed è lo stesso fisiologico senso di appartenenza che, per altri versi, sta suscitando consensi ed approvazione nel mondo islamico nei confronti dell’attentato. Il terrorismo islamico ha infatti l’elemento religioso in primo piano e con l’elemento religioso si richiama inevitabilmente la storia degli scontri tra il mondo islamico ed il mondo cristiano.
La storia, dalle Crociate in poi, ha sempre visto soccombere il mondo islamico e questo viene vissuto in oriente con un profondo senso di ingiustizia e sete di vendetta. È su questo senso di ingiustizia e bisogno di vendetta che Osama Bin Laden sta puntando per cercare di compattare il mondo islamico contro il mondo occidentale. È forte quindi il pericolo che dal terrorismo si possa passare ad una nuova guerra di religione, attraverso il contagio dei mass-media. Il terrorismo islamico quindi, tramite i mass-media, sta veicolando anche in occidente, fra i musulmani, il senso di bisogni, di leggi, di verità e di rivendicazione non riconosciute dagli occidentali e che spingono gli islamici, suscettibili alla suggestione delle ingiustizie storiche, al rifiuto delle leggi occidentali ed al coinvolgimento al fanatismo terrorista. In questo senso Osama Bin Laden sta ottenendo non solo consensi politici nel mondo arabo estremista, ma anche nuovi “arruolati” sia in Bosnia che in Albania, come riportano le cronache di questi giorni.
Nei nuovi “arruolati” si stimola il passaggio dalla legalità alla clandestina illegalità, vivendo con i fondi offerti dalla causa fondamentalista. Queste persone si staccheranno progressivamente dalla realtà e non sarà più possibile discutere con loro, confrontarsi con loro. Il loro distacco ed isolamento renderà il loro fanatismo sempre più radicale ed aggressivo al punto che quando verrà dato loro l’ordine di attaccare gli obiettivi occidentali non avranno alcuna remora nel morire obbedendo agli ordini ricevuti.
I metodi tradizionali delle Polizie occidentali trovano ostacolo verso il terrorismo islamico non solo per l’invisibilità del nemico, ma anche per la mancanza in loro della paura della morte che possa funzionare come razionale deterrente. Tuttavia non solo gli stati democratici sono vulnerabili ai metodi dei terroristi, anche le dittature definibili come “stati di Polizia” hanno dovuto fare i conti con i successi dei terroristi. Quando il terrorismo fallisce ciò accade più spesso non per l’efficacia preventiva della Polizia bensì fallisce per errori interni alla organizzazione terrorista oppure perché troppe persone erano a conoscenza dei piani. Le Forze di polizia per avere successo contro il terrorismo devono scendere anche loro sul piano della illegalità, attraverso operazioni non convenzionali, definibili come operazioni di spionaggio o intelligence. Tali atti possono anche prevedere intercettazioni, arresti, perquisizioni e metodi di interrogatorio non consentibili dalle leggi in vigore. Una buona intelligence deve arrivare a consentire anche l’infiltrazione di propri agenti nei movimenti terroristici.
Il terrorismo ha modificato in molti casi il corso della storia, tuttavia nelle democrazie occidentali, dove non è l’uomo politico che conta, bensì il sistema sociale, nessun sistema sociale democratico è mai stato abbattuto dal terrorismo.
(tratto dal numero di gennaio 2002)
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