L’assoluzione a Perugia del senatore Giulio Andreotti - analoga ma distinta dal successivo verdetto di Palermo - dall’accusa di essere stato, oltre vent’anni or sono, il mandante dell’“esecuzione” del giornalista Mino Pecorelli, ha suscitato due tipi di reazione. La prima è stata di soddisfazione da parte di tutti i politici, compresi quelli che con il senatore hanno avuto nel passato della Prima Repubblica rapporti conflittuali.
Reazione ovvia: un conto è avere avuto un avversario, di notevole statura e di indubbie qualità, che nei momenti e nelle situazioni più difficili è stato anche un valido interlocutore, e un altro accettare la logica di un’accusa come quella avanzata nel processo di Perugia. La seconda reazione è venuta da personaggi di elevato peso specifico che hanno avuto, o hanno tuttora, problemi con la giustizia, si basa su un curioso sillogismo: se come noi Andreotti è stato messo sotto accusa, e se poi è stato riconosciuto innocente, ne consegue che anche noi siamo innocenti. E ancora: questa assoluzione conferma la protervia di alcuni magistrati che imbastiscono teoremi accusatori per spirito di parte. Premesse ovviamente, e volutamente, errate, poiché l’accusa contro Andreotti non riguardava tangenti, corruzioni di pubblici ufficiali, o altro dello stesso genere, ma si situava in una dimensione del tutto diversa, in una “logica” della quale probabilmente la Procura di Perugia non ha sufficienza tenuto conto.
Certo, gli “anni di piombo” sono lontani, con il loro contorno di deviazione, complotti, doppi giochi, infiltrazioni. Il culmine fu, e resta, l’“affare Moro”, e di esso l’uccisione di Mino Pecorelli, il 20 marzo 1979, rappresentava una diretta appendice. Inserendola in un quadro di stampo mafioso la pubblica accusa del processo di Perugia l’ha collocata in un binario che non era il suo. Di qui le incongruenze, le mancanze di riscontri, le lacune.
In effetti, il cardine e punto di partenza dell’accusa era quel Tommaso Buscetta che - arrestato in Brasile il 26 ottobre 1983 - è diventato il più famoso tra i pentiti di Mafia. Un collaboratore di giustizia certamente prezioso per consentire agli inquirenti di addentrarsi nei meandri di Cosa nostra e smantellarne le strutture. Detto questo, non è legittimo dubitare della sua attendibilità quando si addentra in altri campi.
Nel novembre 1992, Tommaso Buscetta afferma di avere appreso dai boss mafiosi Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti che l’uccisione di Mino Pecorelli era stata organizzata da loro, su richiesta dei cugini, titolari di esattorie in Sicilia, Ignazio e Nino Salvo. Bontade è stato ucciso nel 1980, quanto a Badalamenti, in prigione negli Stati Uniti, nega di aver fatto quelle rivelazioni. Ma Buscetta insiste e, nel giugno 1993 precisa che il delitto era stato commissionato dai Salvo per rendere un favore a Giulio Andreotti. Alla richiesta della difesa del senatore se gli risultasse un mandato di Andreotti a uccidere il giornalista, o se la sua fosse una semplice illazione, il pentito dà una risposta sibillina: “Illazione la mia? Nossignore, praticità di vita”. Che cosa significa? Quello che si vuole. E Buscetta si rifà a quanto gli sarebbe stato riferito: “Badalamenti mi disse che Andreotti era molto preoccupato perché il giornalista stava tirando fuori delle porcherie e temeva di essere danneggiato politicamente”.
Secondo l’accusa del processo di Perugia, Pecorelli era venuto a conoscenza, attraverso suoi canali privilegiati, di alcune parti del “memoriale” di Aldo Moro, ritrovato a Milano, in via Montenevoso, dai Carabinieri di Dalla Chiesa, riguardanti Giulio Andreotti. Nello stesso tempo, il giornalista si preparava a denunciare dei finanziamenti del petroliere Rovelli alla corrente andreottiana, denuncia poi rientrata in seguito a un incontro, durante una cena in un ristorante romano, con Claudio Vitalone (anch’egli imputato a Perugia, e assolto), allora pubblico ministero alla Procura di Roma, e poi senatore democristiano.
Sempre secondo l’accusa, Vitalone, amico di Andreotti, avrebbe preso contatto con elementi della “banda della Magliana” - all’epoca la più forte organizzazione criminale romana - attraverso Pippo Calò, mafioso trasferitosi a Roma con compiti di riciclaggio, si sarebbe attivata una sorta di catena comprendente i cugini Salvo, e i boss Bontade e Badalamenti (già espulsi dalla Cupola palermitana). A uccidere Pecorelli, per i pm di Perugia, sarebbero stati il mafioso Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati, terrorista dei Nar di Valerio Fioravanti, un gruppo che aveva rapporti con la “banda della Magliana”, in particolare per il rifornimento di armi.
Mino Pecorelli, la sera del 20 marzo 1979, era appena uscito dalla redazione della rivista OP (Osservatorio Politico), della quale era editore e direttore, e stava salendo sulla sua auto, una Citroen, quando era stato abbattuto con quattro colpi di pistola. Sul posto - in via Orazio, nel quartiere romano Prati - poco dopo erano accorsi Polizia, Carabinieri, giornalisti, e anche agenti dei Servizi segreti (impossibile specificare quali, anche perché in quegli anni la confusione dei ruoli era una prassi diffusa) che accortamente avevano per prima cosa perquisita la sede di OP.
Con i Servizi Pecorelli aveva da tempo legami non ben definibili, di volta in volta amichevoli (ma non era un agente) e conflittuali. Lo stesso accadeva con la Loggia P2 di Licio Gelli, alla quale era iscritto. I suoi articoli erano atti di indiscrezioni, allusioni, notizie pilotate, sistematicamente diretti contro qualche potente. Ora questo, ora quello, a seconda di quali venti il direttore di OP annusava.
Subito dopo la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro, Mino Pecorelli scrisse più volte che tutta la vicenda aveva connotati ambigui, che i terroristi non erano quello che volevano sembrare, che lo scopo del rapimento si inseriva in realtà nella “logica di Yalta”, con il fine di impedire al Partito comunista di essere coinvolto nel governo del Paese, com’era nel progetto di Aldo Moro, in larga misura condiviso da Enrico Berlinguer, progetto inviso sia agli americani che ai sovietici. Dopo l’uccisione di Moro, il direttore di OP indica la “prigione” nel centro di Roma, e il 17 ottobre 1978 scrive: “Il Ministro di Polizia sapeva tutto, sapeva persino dove era tenuto prigioniero... perché un Generale dei Carabinieri era andato a riferirglielo nella massima segretezza... il Ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato... Purtroppo il nome del Generale CC è noto: Amen”. Il testo è classico del suo stile: partire da dati precisi (la “loggia”, facilmente indentificabile per i diretti interessati), deformare a piacere il ruolo dei personaggi, lanciando segnali a chi è in grado di leggere correttamente il “rebus”. Il 16 gennaio 1979 Mino Pecorelli annuncia che avrebbe scritto “del furgone, dei piloti... del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione”.
Il 14 aprile 1979 tre studenti americani consegnano al tenente colonnello Antonio Cornacchia (comandante del Reparto operativo dei Carabinieri di Roma, iscritto alla Loggia P2) un borsello che dicono di aver trovato sul sedile di un taxi. Il contenuto del borsello si rivela abbondante e del tutto inusuale, come rileva Sergio Flamigni in “La tela del ragno”, accurata ricostruzione dell’“affare Moro”: “Vi sono infatti: una pistola con la matricola limata; undici pallottole calibro 7/65 e una di grosso calibro (i colpi che avevano ucciso Moro erano undici, di cui due di calibro più grosso); una testina rotante Ibm contrassegnata dalla scritta ‘Light-Italic-12’ (durante il sequestro, i comunicati erano stati dattiloscritti con una testina di quel tipo); un mazzo di nove chiavi (nove erano stati i mandati di cattura per la strage di via Fani); due cubi flash ‘Silvania’ (due erano state le foto scattate a Moro durante la prigionia); un pacchetto di fazzolettini di carta ‘Paloma’ (sul corpo di Moro i buchi delle pallottole erano stati tamponati con un prodotto di quel tipo, per evitare le tracce di sangue durante il percorso dalla prigione fino a via Caetani); una cartina autostradale comprendente la zona di Amatrice, il lago di Vico e il lago della Duchessa (di cartina autostradale aveva ironicamente scritto Pecorelli su OP); una bustina trasparente contenente tre piccole pillole bianche (probabile allusione ai medicinali assunti dall’onorevole Moro)”. Il borsello contiene inoltre le fotocopie di quattro schede dattiloscritte che sembrano indicare dei bersagli delle Br: portano i nomi del Presidente della Camera Pietro Ingrao, dell’avvocato milanese Giuseppe Prisco, del giudice istruttore romano Achille Gallucci, e di Mino Pecorelli; sul margine della scheda intestata a Pecorelli c’è un’annotazione manoscritta: “Agire necessariamente entro e non oltre il 24 marzo, sarebbe problematico concedergli tempo. Non bisogna assolutamente rivendicare l’azione, anzi occorre depistare.
Martedì ore 21,40 giunta notizia. Operazione conclusa positivamente: recuperato materiale, purtroppo non è completo”.
Messaggio in codice, segnali, e forse avvertimenti indirizzati a chi è in grado di capire. Più tardi, il borsello risulterà appartenente a Toni Chichiarelli, detto “Toni il falsario”, ucciso in un agguato.
Un altro sanguinoso episodio ricollegabile alla morte di Mino Pecorelli sarà l’uccisione a Roma, il 13 luglio 1979, del colonnello dei CC Antonio Varisco, alla vigilia di lasciare l’Arma (è in auto senza scorta) e la direzione del servizio di traduzione da e per il Tribunale, per organizzare la vigilanza privata della Farmitalia: l’agguato è rivendicato dalle Brigate rosse.
Varisco, amico di Pecorelli, stava svolgendo una sua indagine sulla morte del giornalista.
(tratto dal numero di nov/dic 1999)
|