Sono ripartite le polemiche, le insinuazioni, le accuse più o meno esplicite che ormai periodicamente investono i magistrati impegnati sul fronte della lotta alla criminalità organizzata. In particolare è stato rimesso in questione l’uso che viene fatto dei pentiti, in nome di un “garantismo” che ha portato alla modifica dell’articolo 513 del Codice di procedura penale, obbligando gli imputati che rendono delle dichiarazioni di accusa davanti a un pubblico ministero, a ripeterle in Tribunale, o almeno al gip, pena la nullità delle dichiarazioni stesse. Da parte di molti esperti di come la Mafia attua le sue strategie si è detto che i pentiti, in questo modo, dopo le prime confessioni sarebbero sottoposti a minacce e pressioni in molti casi determinanti per condurli a ritrattare in seconda istanza quanto prima dichiarato. Minacce e pressioni su di loro, sui loro familiari, unite a promesse di vario tipo. Tanto più facilmente recepibili, in quanto quella modifica suona come un segnale di indebolimento, di quelli che gli “uomini d’onore” fiutano al volo. E suona abbastanza strano l’argomento secondo cui se i pentiti dicono la verità la ripeteranno in Tribunale, altrimenti significa che avevano dichiarato il falso. Come volevasi dimostrare. Suona strano, si diceva, perché i pentiti di Mafia non sono testimoni normali, ma criminali che si sono messi contro un’organizzazione potente, decisa, crudele, in grado di ricattare, pagare, uccidere: secondo i difensori del nuovo articolo 513 questi personaggi dovrebbero avere insieme le qualità del gentiluomo e del martire.
Vi è stata anche la notizia, poi parzialmente smentita, dei tre collaboratori di giustizia catanesi che rinunciano alla protezione e tornano alle loro abitazioni perché il loro clan li aveva “perdonati”, dopo aver manifestato l’intenzione di non confermare le loro dichiarazioni al processo. “La Mafia abrogata per legge”, aveva detto Gian Carlo Caselli a proposito del nuovo 513, e gli era piovuta addosso una grandinata di critiche. In seguito il procuratore aggiunto di Palermo Guido Lo Forte ha parlato in un’intervista di un “grado di crescente disattenzione nella lotta alla Mafia”. E ha così chiarito il senso della sua affermazione: “Giustamente si è detto che bisognava ripristinare il contraddittorio, fa sì che i pentiti e in generale gli imputati di reato connesso non si sottrassero all’interrogatorio. Che si sottraessero al contraddittorio è un male, ma sul piano della logica il male va sostituito con il bene, non con un male ancora peggiore qual è quello di favorire tutti i complotti, le manovre, le violenze, le intimidazioni, le corruzioni per far prevalere la logica del silenzio sulla logica della verità”.
La “specificità” della Mafia, ecco un punto da tenere sempre ben presente in queste discussioni, altrimenti si rischia di perdere la vista della realtà di una situazione molto grave, di tornare a un passato che è stato ricco di errori, e di peggio. Eppure, si assiste a prese di posizione che sarebbero giustificate se Cosa nostra fosse un’associazione benefica che, magari a fin di bene, ha leggermente tralignato, e non una minaccia mortale. Appare crescente in alcuni settori l’irritazione per quella legislazione sul pentitismo che ha consentito di portare ai clan mafiosi dei colpi prima mai registrati. Nella polemica si arriva a cercare tutto ciò che possa screditare le inchieste, e i processi, e in alcuni casi questo accade certamente anche sulla spinta della buona fede. Alla quale si unisce però probabilmente una grave carenza di memoria. E torna la stagione dei veleni, quella del corvo, chiunque egli fosse, o essi fossero. Con il rumore attorno alle acque mosse da alcuni pentiti a un ufficiale dei Carabinieri, fatte filtrare attraverso una fuga di notizie che, come sempre, crea sconcerto, irritazione, confusione. E la polemica si è allargata a un altro articolo del Codice penale, il 192, che dà valore di prova alle dichiarazioni coincidenti di due pentiti. “Ora cercheranno di negare quel valore probatorio, e si tornerà indietro di vent’anni”, ha pessimisticamente previsto Caselli. E il sostituto procuratore dell’Antimafia di Palermo Alfonso Sabella ha rilevato che una volta deligittimato il pool milanese di Mani Pulite, “l’obiettivo numero uno è la Procura di Palermo”.
Giuseppe Ayala, sottosegretario alla Giustizia, ed ex magistrato a Palermo con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha assicurato che per l’articolo 192 - oggetto di una proposta di modifica presentata da Forza Italia - non c’è alcuna iniziativa da parte del governo, rilevando che “ci possono essere stati dei problemi nell’applicazione di questa norma, qualche pentito è un farabutto, ma non si può contrabbandare una questione fisiologica per il fatto patologico. Ha ragione Caselli, qui si rischia di tornare indietro”. E’ così, e non si tratta di aspetti di tecnica giuridica, riservati agli addetti ai lavori. E’ in gioco, nell’interesse di tutti, un’autentica opera di risanamento, un’azione indispensabile per il recupero della legalità. Va detto e ripetuto a chi sembra avere una memoria davvero troppo labile.
Maria Angela Fedeli
(tratto dal numero di ag/sett 1997)
|