C’è un’opera di George Orwell, scrittore inglese, sicuramente conservatore, che odiava e temeva quello che il futuro ci avrebbe preservato nel suo “1984”, da lui scritto nel 1948, racconta con una famosa profezia, il tempo che stiamo vivendo.
Lo scrittore non prevede un mondo migliore, un mondo ideale per l’umanità in cui possa appagare la sete di giustizia, di bellezza, d’amore, ma un mondo insensato in cui gli uomini vengono privati dell’anima, dove prevale soltanto la violenza autoritaria, mentre tutt’intorno non c’è che abbrutimento, squallore, tristezza, odio e diffidenza.
Orwell non affermava che la sua anti-utopia si sarebbe realizzata, ma lanciava un monito contro gli abusi del potere, contro l’appiattimento della coscienza e dei sentimenti, contro la sopraffazione mentale compiuta dalle idologie. Lo scrittore temeva l’avvento di un mondo da lui descritto in “1984” perché vedeva le tendenze esistenti nel mondo di quel tempo, che lo portavano al pessimismo più nero.
Nel 1954 il romanzo di Orwell fu portato sul piccolo schermo e destò negli spettatori orrore per le scene di disperazione, crudeltà, brutalità e miserie fisiche e morali, ecovando un mondo terribile per la precisa e dura teoria ammonitrice di Orwell.
“1984” fu l’ultimo romanzo dello scrittore inglese e divenne noto nel mondo per il monito pauroso di un possibile totalitarismo futuro. Già lo scrittore Huxley, nel suo “Il mondo nuovo”, aveva previsto l’avvento di società totalitarie tipicamente moderne, lo sviluppo tecnologico delle industrie, dei consumi e la presa di coscienza delle possibilità di manipolazioni genetiche.
Orwell denuncia e prevede la corruzione intellettuale e morale fin dagli anni succeduti alla Seconda guerra mondiale. In quel libro il popolo sarà l’ultima risorsa umana ridotta allo stato vegetativo. Orwell aveva trovato nel mondo molte cose sgradevoli e volle trasmetterle inviando un atto d’accusa verso il futuro, vedendo il principale pericolo per l’umanità in una resa alla logica delle scienze biologiche e genetiche, dimostrando come la bravura artistica porta a prevedere i pericoli che ci minacciano, più degli uomini politici.
Il vero nome di George Orwell era Trie Arthur Blair. Di famiglia scozzese impegnata in attività commerciali ed amministrative dell’Impero britabbico. Il padre funzionario dei servizi per la lotta contro l’oppio, nella regione del Bengala. Orwell, seguendo una consuetudine seguita dai figli dei funzionari inglesi in India, fu inviato in Inghilterra per frequentare le scuole e ricevere un’educazione confacente al suo rango.
Per cinque anni, dal 1911 al 1916, frequentò una scuola nel Sussex. Fu una esperienza durissima che lo portò ad accusare il sistema d’insegnamento e i sistemi correzionali della scuola. Tuttavia il suo rendimento si mantenne ottimo. Frequentò poi Eton fino al 1921, in una atmosfera più distesa e civile. Rinunciò poi all’Università di Oxford o di Cambridge, avviandosi subito alla vita attiva, arruolandosi nella Polizia imperiale in Birmania, pur non approvando l’Amministrazione britannica in Oriente, ritenendo negativi i rapporti tra i coloni e la popolazione locale.
Nel 1927 tornò in Inghilterra, per seguire la sua vocazione di scrittore. Affrontò la miseria e, per sopravvivere, conobbe i servizi più umili. Studiò la condizione delle classi più derelitte e nel 1960, a Milano, nel suo libro “La strada di Wigan”, completò una denuncia di tutte le ingiustizie sociali.
Nel 1937 Orwel partecipò alla guerra civile spagnola, rimase ferito e tornò in patria. La sua vita, vissuta così intensamente, soltanto nel 1945, lo aiutò ad avviarsi verso il successo finanziario. Il 21 gennaio 1950 morì chiedendo di non scrivere di lui alcuna biografia.
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