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Ottobre/2005 - Contributi
Edu care alla legalità
di Rocco Cardamone - della Polizia di Stato

“Educare alla legalità” è stato, tra gli altri, il titolo di un convegno, svoltosi a Genova nell’ormai lontano 1997. Il convegno, organizzato dalla Segreteria del Siap, patrocinato dai ministeri dell’Interno e della Pubblica Istruzione, ruotava intorno ai risultati di una ricerca, condotta in alcune scuole a rischio di dispersione scolastica del distretto genovese, tra i giovani alunni delle seconde e terze medie. La scelta delle seconde e terze medie era stata voluta proprio per verificare cosa pensassero della legalità dei preadolescenti che da lì a pochi mesi avrebbero abbandonato l’ambiente, in qualche modo protetto, delle scuole dell’obbligo per transitare, nei casi migliori, in altre istituzioni scolastiche o nel mondo del lavoro (il più delle volte lavoro nero). Nei mesi che precedettero il convegno mi trovai a lavorare con molte persone provenienti da formazioni culturali ed istituzionali diverse, insegnanti, psicologi, poliziotti, sindacalisti, giornalisti, amministratori pubblici, politici. Una delle cose che mi colpì maggiormente, oltre ai risultati della ricerca, fu come ognuna di queste figure avesse una sua idea, quella giusta, mutuata il più delle volte dalla peculiarità del proprio lavoro, rispetto al problema del come favorire tra i giovani l’idea di legalità - beninteso non voleva essere solo un verificare cosa i nostri ragazzi conoscevano e pensavano delle leggi ma di cosa fosse per loro la legalità, la convivenza, il rispetto degli altri - tanto che tra gli organizzatori della ricerca/convegno decidemmo, forse sbagliando, di fare le varie riunioni per la preparazione e l’organizzazione del convegno dividendo l’agenda dei lavori e di conseguenza gli incontri tenendo separate le varie figure professionali per evitare che durante le riunioni ognuno portasse avanti solo il proprio punto di vista o illustrasse unicamente le proprie problematiche senza ascoltare gli altri o peggio indispettendosi della futilità delle problematiche altrui. Un ulteriore spunto di riflessione scaturì dalle “chiacchiere” fatte al termine dei vari incontri. Lì, fuori dai formalismi, le persone si trasformavano, ed ecco come per miracolo, l’integerrimo preside che sino a pochi minuti prima si preoccupava se tutta questa faccenda non avrebbe portato via inutilmente preziose ore di lavoro in classe, diventava un tenero nonno, preoccupato per il futuro dei nipoti, fare una feroce critica alle istituzioni per la superficialità e la discontinuità con cui queste si preoccupavano dei giovani e dei valori da trasmettere alle nuove generazioni. L’esempio riportato non è unico nel suo genere ed è, probabilmente, uno dei meno coloriti ma credo possa fornire un giusto insieme di come, spesso, troppo spesso, viviamo i problemi della comunità, dimenticandoci che prima di ogni altra cosa la comunità siamo noi e che sovente in questa comunità viviamo più ruoli, siamo al tempo stesso figli, genitori, amministratori ma non ce ne rendiamo conto.
A dire il vero, in questi ultimi anni si è assistito, nel campo del sociale, ad una sempre maggior diffusione di organizzazioni di studio e/o di lavoro con componenti interdisciplinari al proprio interno, le quali hanno avuto il merito di farci conoscere le mille sfaccettature di problematiche quotidiane che pensavamo di comprendere sino in fondo e che invece si sono rivelate più complesse del previsto. Pensiamo al problema della regolarizzazione dei flussi extracomunitari nel nostro Paese, con i conseguenti dibattiti sull’essere o non essere accoglienti e i rischi che questa o quella scelta avrebbe comportato per la sicurezza e l’identità culturale italiana. I dibattiti iniziali erano prevalentemente alimentati dal pensiero politico religioso il quale suggeriva l’una o l’altra soluzione. Poi ci siamo accorti di essere più vecchi di quanto pensassimo, la necessità di “badanti” si è fatta improvvisamente pressante, così ha costretto molti a delle repentine marce indietro sull’utilità di permettere l’inserimento di queste nuove figure professionali assenti o quasi tra la nostra forza lavoro, per non parlare poi dei numerosi studi dei vari istituti di statistica sulle proiezioni di non crescita demografica con invecchiamento graduale della popolazione e una conseguente impossibilità nel rispettare lo stato sociale.
Del resto vedere continuamente proiettate nelle nostre case, attraverso i media, le emergenze sociali che i cambiamenti del nostro modo di vivere ci hanno imposto non ci permette di riflettere sul fatto che questi cambiamenti ci riguardano e che siamo noi stessi a cambiare e che con noi cambiano i nostri modelli di riferimento. Se cambiano i modelli di riferimento non possiamo pensare che ciò sia limitato solo al nostro modo di vestire, di divertirci o alle modalità con cui ci spostiamo. E’ come vediamo noi stessi e gli altri che cambia e di conseguenza cambia la nostra idea di “legalità”. Comportamenti che sino a pochi anni fa erano considerati se non illegali almeno sintomo di legalità, oggi non solo sono tollerati ma sono anzi considerati se non illegali almeno sintomo di illegalità, oggi non solo sono tollerati ma sono anzi considerati normali come ad esempio le separazioni e le cosiddette famiglie “cespuglio” dove sono presenti sia i figli della coppia che quelli avuti da precedenti unioni. Da qui la necessità di ripensare a nuovi modi di trasmettere e insegnare la “legalità”, modalità e valori che non possono non tenere conto dei mutamenti individuali e sociali che ci hanno attraversato; per questo abbiamo bisogno di non chiuderci nelle nostre convinzioni personali, anche giuste, ma di andare oltre la formazione di gruppi di lavoro imparando a lavorare in gruppo. Muti distingue, infatti, tra gruppo di lavoro - inteso come gruppo più o meno formale di persone che costituiscono un’unità organizzativa di dimensioni ridotte e con un certo grado di autonomia gestionale operativa al fine di raggiungere un obiettivo - e lavoro di gruppo - inteso come metodo che implica l’esistenza di un obiettivo operativo da conseguire coordinando l’azione di persone con scopi, bisogni, desideri interdipendenti.

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