Chi ha sofferto di patologie cardiache,
trova oggi intorno a se un clima diverso (favorito dai medici) che lo rende edotto di aver superato una prova decisiva
“Tutto ciò che non mi fa morire mi rende più forte” (F. Nietzsche). Durante gli anni di studio universitario, a cavallo degli anni ’80, i cardiologi mi hanno insegnato che una persona, dopo aver manifestato un primo attacco cardiaco, doveva cambiare lo stile di vita ed abbandonare ogni condotta in grado di provocare tensione, stress, nervosismo od ansia.
Diventare cardiopatico significava quindi avere addosso l’etichetta di persona debole e fragile. A distanza di venti anni la pratica clinica quotidiana di oggi sta evidenziando invece che anche il diventare cardiopatico non necessariamente significhi diventare debole e fragile, che si può perfino diventare più forti, più sicuri, più reattivi.
Nel campo medico c’è stata in questi anni una specie di rivoluzione culturale per cui si evita di dare al malato cronico l’etichetta di persona debole che vive solo di medicine, di poltrona e di brodini. Oggi si considera il malato cronico come una persona che prende consapevolezza della necessità e della possibilità di un migliore e più adeguato stile di vita, di una sana alimentazione e dell’importanza, ad esempio, di abbandonare l’abitudine al fumo per una regolare attività fisica.
Se l’infartuato trova intorno a se medici in grado di offrire consigli utili, di dare giudizi positivi e di infondere l’ottimismo, può far crescere dentro di sé una forza psicologica mai percepita precedentemente e che genera la potente sensazione di aver affrontato e superato una prova decisiva, una svolta importante della propria vita e di averla vinta.
L’attacco cardiaco quindi è stato il mezzo per cambiare in meglio lo stile di vita, per curare finalmente la propria alimentazione, il benessere del proprio corpo, di modificare i propri ritmi quotidiani ed evitare quindi il ripresentarsi di un futuro nuovo attacco cardiaco.
La sensazione che emerge nel paziente è di poter controllare la propria vita, gestire i rischi ed evitare quindi la ricaduta del male.
Impara anche a controllare le proprie reazioni emotive, evita i comportamenti impulsivi, abbassa il tono della voce, evita i comportamenti aggressivi e conflittuali. Alla fine si sente padrone di sé, di poter controllare la realtà e la propria salute e diviene consapevole di condurre un adeguato stile di vita.
Tutto questo conduce alla mobilizzazione di una capacità psicologica interiore definita dagli studiosi come “resilienza”, mutuando anche questo termine dalla scienza dei materiali come fu a suo tempo con il termine di stress. Il termine resilienza si può tradurre con forza psicologica interiore oppure con forza d’animo.
La consapevolezza della propria forza interiore conduce a sentirsi padroni della propria vita, degli eventi che accadono e questo, sempre in termini psicologici, si traduce in una piacevolissima sensazione di benessere.
Da tempo gli psicologi e gli psichiatri studiano gli effetti sulla psiche dei lutti, delle perdite e delle separazioni, dei maltrattamenti, degli abusi e delle aggressioni. Eventi in grado di lasciare profonde, laceranti ed insanabili ferite sulla psiche, di provocare quei “lividi affettivi” che il tempo non riuscirà a lenire con facilità. Nel corso degli anni gli studiosi hanno accumulato in argomento una letteratura amplissima ed approfondita.
Se andiamo a cercare gli studi opposti, quelli appunto che si occupano della forza d’animo e della capacità di resistere ai colpi ed alle ferite della vita, si trovano solo pochi studi ed una scarsissima letteratura. Eppure esistono molti casi in cui abbiamo riscontrato che alcune persone, dopo aver subito stress, traumi e difficoltà, hanno rinforzato la propria forza psicologica e si sono sentiti, mano a mano che hanno affrontato queste difficoltà, sempre più forti, sicuri ed in grado di reagire agli eventi.
In questi casi alcuni studiosi si sono posti il quesito su come mai le cose vanno bene quando invece dovrebbero andare male e la risposta che hanno trovato si chiama appunto “resilienza”.
Queste osservazioni hanno permesso di collegare il disturbo post-traumatico da stress (Dpts), ad esempio, non con la gravità dell’evento traumatico, bensì con la struttura di personalità, considerando che alcuni tipi di personalità riescono a superare bene terremoti, incendi, scontri a fuoco e gravi incidenti stradali, mentre altri tipi di personalità non riescono a superare nemmeno una lieve ferita oppure una piccola ustione.
Tra i reduci ad esempio delle missioni militari nei teatri operativi più difficili e stressanti dal punto di vista della sicurezza, è stato osservato che lo sviluppo psicologico successivo non era ristretto solo al disturbo post-traumatico da stress. In alcuni è stata riferita e si è osservata tra i militari reduci anche una amplificazione della fiducia in sé, della propria autostima e della consapevolezza di essere una persona valida, forte ed in gamba.
Non necessariamente quindi il trauma e lo stress conducono al disagio psicologico ed al malessere interiore, non necessariamente si diventa più aggressivi, più insensibili, più chiusi in sé stessi ed incapaci di amare.
Anche dopo aver affrontato eventi traumatici e difficili si può mantenere il proprio equilibrio psicologico, il proprio benessere e la capacità di mantenere adeguati rapporti affettivi con i colleghi, i figli, il coniuge.
Esiste quindi ed è osservabile nelle persone la capacità di proteggere la propria integrità psicologica, il proprio equilibrio affettivo anche in presenza di forti fattori di stress, tensione ed anche dopo aver subito un trauma psicologico.
La resilienza è quindi per la psiche un qualcosa che è paragonabile a ciò che il sistema immunitario rappresenta per il corpo e si può affermare, considerato che la psiche ed il corpo sono fortemente intrecciati e connessi, che esiste una stretta correlazione tra la resilienza psicologica ed il buon funzionamento del sistema immunitario. Correlazione che permette loro di potenziarsi o deprimersi vicendevolmente.
Nell’esempio iniziale del cardiopatico è ormai noto che un impatto psicologico negativo, depressogeno, in seguito all’attacco cardiaco, evolve con negative ripercussioni sia nell’ambito fisico che nell’ambito immunitario ed una correlazione di questo tipo è usualmente evidenziabile anche nelle patologie oncologiche.
Con lo stress cronico è possibile sviluppare anche un abbassamento del tono affettivo fino alla manifestazione di uno stato depressivo che presenta, come correlato biochimico ed umorale associato, un incremento del cortisolo nel circolo sanguigno e noi sappiamo tutti molto bene come il cortisolo sia un ormone in grado, tra le altre cose, di abbassare anche le difese immunitarie.
Gli effetti cronici dello stress si manifestano quindi sia sul piano psicologico, con la depressione, sia sul piano fisico, con la riduzione delle difese immunitarie e quindi la facilità a sviluppare tumori o ad ammalarsi di malattie infettive, anche banali.
Il cortisolo inoltre può incrementare i tassi dei glucidi nel sangue fino alla comparsa del diabete mellito, determina anche la ritenzione di acqua e sali fino alla comparsa di ipertensione arteriosa e determina inoltre la riduzione delle proteine, con la conseguente comparsa di osteoporosi e dell’obesità.
Così come le aggressioni batteriologiche e virali alla fine non fanno altro che stimolare e potenziare l’efficacia del sistema immunitario, allo stesso modo le aggressioni psicologiche, lo stress ed i microtraumi quotidiani possono stimolare e potenziare lo sviluppo delle difese psicologiche della mente e quindi incrementare la funzione della resilienza.
Per permettere questo è necessario fronteggiare lo stress con le funzioni cognitive della mente, come la razionalità, la capacità di analisi, la riflessione, oppure parlando con i propri familiari, i colleghi e gli amici fino a dare un significato agli eventi che sono accaduti o che stanno accadendo.
Carl Gustav Jung, il noto psicoanalista del profondo, ha scritto che “trovare un senso, un significato rende molte cose sopportabili, forse tutte quante diventano sopportabili”.
Il non permanere troppo a lungo in una condizione passiva, in cui si subisce lo stress senza capire, senza riflettere, senza elaborare criticamente, da soli o con altri, gli eventi è il modo migliore per superarli, per trarne un insegnamento, un arricchimento dell’esperienza personale o semplicemente per prendere consapevolezza che si sta sostenendo una situazione difficile. E questo deve essere considerato come un fattore di merito per la propria autostima e l’incremento della fiducia in sé. In alternativa si entra nel tunnel della depressione ed uscire costa molta, molta più fatica psicologica e comporta diversi mesi di trattamento farmacologico con terapie antidepressive.
Per effettuare una reazione di questo tipo, nei confronti delle avversità della vita, si richiede tuttavia una storia psicologica ed affettiva particolare e questo non prescinde dall’aver avuto un buon rapporto con le proprie figure genitoriali. È necessario aver avuto infatti un buon attaccamento affettivo ai genitori, aver effettuato nella pubertà e nell’adolescenza l’esperienza della fiducia interpersonale e del valore dell’amicizia.
Molto di più serve essere flessibili, adattabili, curiosi e saper guardare agli eventi della vita in prospettiva. Aiuta moltissimo sapersi prendere le responsabilità, ma non avere dei sensi di colpa per cui ci si sente responsabili di tutto quello che accade di negativo.
Aiuta moltissimo avere un senso dell’umorismo e non prendersi troppo sul serio in ogni circostanza. Serve avere immaginazione, interessi, saper comunicare. Serve avere una fede religiosa, un progetto di vita ed anche saper aiutare gli altri.
È indispensabile saper prendere iniziative, non restare passivi e non adagiarsi quindi al ruolo di vittima o di persona sfortunata. Spesso restare passivi è una semplice dimostrazione di resistenza allo stress, mentre la resilienza chiede che si prendano iniziative, che si dimostri attività ed intraprendenza.
La cronaca attuale ci mostra spesso degli esempi di resistenza e di resilienza nel raccontare le storie di prigionieri tenuti in ostaggio per molto tempo da rapitori o forze nemiche.
Se il prigioniero si lascia andare al ruolo di vittima e vive in modo passivo tutto il periodo della prigionia, al momento della liberazione evidenzia confusione mentale, apatia ed abulia marcate al punto che spesso necessita di ricovero in ambiente psichiatrico e di passare un lungo periodo di convalescenza. Se il prigioniero invece mantiene intatto il senso prospettico della vita, mantiene contatti con altri prigionieri ed occupa il suo tempo in attività costruttive di pensiero, anche solo leggendo o scrivendo, al momento della liberazione può ugualmente mostrarsi psicologicamente provato, ma il suo stato non richiede cure specialistiche ed i tempi di recupero sono molto più brevi.
La vittima passiva, come il prigioniero inerte, manifesta un atteggiamento definito retroattivo, che si rifà al passato, a quello che c’era e quello che aveva e che ora non c’è più. Focalizzare l’attenzione su ciò che è stato perso conduce a sentire l’ambiente come estremamente ostile, ambiente in cui non è possibile agire, effettuare delle scelte, essere sé stessi.
Di fronte ad una perdita, il continuare a guardare quello che c’era e che non c’è più, conduce a non avere scelte, a sentirsi obbligati, a non avere alcuna forma di autonomia o di controllo e di non avere influenza sulla realtà circostante.
È fondamentale invece non sentirsi emarginato, malato, irrecuperabile, vittima del destino.
La persona nel momento in cui arriva a darsi l’etichetta di vittima si chiude in un cerchio psicologico da cui, da sola, non ne uscirà più, in quanto nessuna altra convinzione potrà in futuro sostituire l’etichetta di vittima, di persona sfortunata, di perdente.
L’esempio classico di questo cerchio psicologico che si chiude è possibile osservarlo anche nella pratica psico-oncologica: la stessa diagnosi e prognosi infausta se viene data a due persone con attitudini psicologiche differenti condurrà a percorrere e manifestare decorsi clinici differenti.
Il paziente che reagisce come una vittima retroattiva penserà solo alla salute persa, si dispererà, non parteciperà alle terapie ed avrà un decorso veloce verso le fasi terminali.
Il paziente con atteggiamento proattivo mantiene comunque una prospettiva di vita, crede nelle terapie e mantiene una vita piena ed attiva come prima.
Questo paziente, pur avendo avuto la stessa diagnosi, avrà un decorso clinico più lungo, decorso in cui manterrà autonomia e benessere per periodi anche di tre, quattro volte maggiori rispetto all’altro tipo di paziente.
È importante quindi non chiudersi gli spazi di autonomia della propria vita e mantenere il controllo e l’esercizio su quante più funzioni possibili.
Se la realtà non ci offre spazi, resta sempre la possibilità di difendersi con strategie di astrazione, come ad esempio l’immaginazione e la fantasia.
Lo psichiatra Victor Frankl, allievo di Sigmund Freud, a questo proposito così descrive la sua esperienza di prigioniero nel campo di sterminio nazista di Buchenwald: “obbligai i miei pensieri a cambiare argomento. Improvvisamente mi vidi sulla pedana di una calda, illuminata e gradevole sala per conferenze. Di fronte a me sedeva un pubblico attento. Io stavo tenendo una lezione di psicologia sul campo di concentramento. Tutto quello che mi opprimeva in quel momento divenne oggettivo, visto e descritto con l’ottica distaccata della scienza. Con questo metodo riuscii a controllare la situazione, ad ergermi sopra le sofferenze del momento ed a guardare ad esse come se appartenessero già al passato. Io ed i miei problemi diventammo oggetto di un interessante studio psicoscientifico intrapreso da me stesso”.
Determinante, nei momenti psicologicamente bui e di sconforto, è mantenere un atteggiamento proattivo nei confronti della vita perché questo atteggiamento permette sempre di ricostruirsi, di risollevarsi e di recuperare uno stato psicologico di benessere.
Un atteggiamento proattivo nei confronti della vita deve comunque consentire di vedere la vita e la realtà per quello che sono, senza illusioni utopistiche di vivere nel migliore dei mondi possibili. Purtroppo non viviamo nel migliore dei mondi possibili, viviamo in un mondo ed in una realtà in cui le cose possono anche andare male, e spesso lo fanno, ma non sempre, che possiamo prevedere ed anticipare anche il peggio per trovare prima le più opportune risposte, con la consapevolezza che comunque ci sarà sempre una risposta.
Prevedere ed anticipare anche il peggio permette di sviluppare una propria autonomia nei confronti delle sventure e delle sconfitte della vita poiché nel momento in cui anche il peggio si verifica posso trovare, nel bagaglio psicologico delle esperienze personali, delle utili idee, delle opportunità, delle risorse e quindi delle possibili risposte che mi consentono di esercitare comunque una certa influenza sull’ambiente e non di subirla e basta.
La resilienza è quindi quella capacità proattiva per cui si resta al tavolo di gioco della vita anche se questa ci ha dato delle brutte carte da giocare.
La resilienza non ci permette di abbandonare la sfida senza prima aver giocato, messo alla prova e sperimentato cosa sappiamo o possiamo fare.
marco.cannavicci@email.it
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