Tutta una serie di persone,
colpevoli di crimini efferati,
e che l’opinione pubblica definisce
sbrigativamente malati di mente,
escono poi dalle perizie mediche
come capaci di intendere e di volere
“Dica il perito, valutato l’imputato e presa conoscenza degli atti e fatte tutte le acquisizioni e gli accertamenti che riterrà opportuni, se, al momento dei fatti per cui si procede, egli era capace di intendere e di volere, oppure se le capacità erano totalmente o grandemente scemate”. E’ questa in genere la formula con cui un magistrato conferisce l’incarico ad uno psichiatra di valutare lo stato mentale di una persona accusata di aver commesso dei reati. Talvolta, oltre che al momento in cui sono stati commessi i reati, il magistrato chiede anche una valutazione sulle condizioni mentali attuali: “… qual è la capacità di intendere e di volere allo stato attuale ed al momento dei fatti per cui si procede”. In genere il quesito termina con l’ulteriore richiesta: “dica, inoltre, il perito se il soggetto sia socialmente pericoloso”. La pericolosità sociale deve essere indagata dal perito solo nel caso che il soggetto esaminato sia stato valutato incapace di intendere o di volere per la presenza di un vizio di mente. Nel caso risultasse in grado di intendere e di volere, quindi esente da vizi parziali o totali di mente, la pericolosità sociale non deve essere indagata.
Gli episodi di cronaca che hanno maggiormente turbato l’opinione pubblica in questi ultimi anni hanno messo di fronte alla valutazione di una perizia psichiatrica madri che hanno ucciso i propri figli piccoli, figli che hanno ucciso i propri genitori, uomini che hanno violentato ed ucciso diverse donne, assassini che a distanza di anni sono tornati in libertà ed hanno ucciso ancora. Insomma tutta una serie di persone che sbrigativamente l’opinione pubblica ha bollato come “mostri” o come “malati”, ma che poi sono usciti dalla perizia psichiatrica come “sani di mente”. Molte persone, e noi con loro, ci siamo chiesti se il quesito precedentemente riportato, così come viene concepito attualmente dal diritto penale, tenga effettivamente conto delle attuali capacità diagnostiche e prognostiche della psichiatria. Rispetto a quello che si vuol sapere forse le conoscenze psichiatriche non sono in grado di dare una risposta esaustiva e competente, poiché gli strumenti a disposizione dei periti sono quelli della clinica psicopatologica (diagnosi, prognosi, terapia) e sappiamo bene come la clinica abbia effettuato negli ultimi decenni delle importantissimi acquisizioni sulla personalità e sulle dinamiche inconsce del soggetto, ma sappiano anche quanto tutto questo sia ormai troppo distante dalle classiche ed obsolete esigenze del diritto penale (capacità di intendere e di volere, pericolosità sociale, attitudine al delitto).
Il quesito che è stato riportato all’inizio del testo è un quesito che, così com’è nella sua classica formulazione, risale agli anni ’30, o forse anche prima, ed in quegli anni lo stato delle conoscenze psichiatriche era molto più modesto di oggi. Possiamo dire che da quasi un secolo il diritto penale chiede alla psichiatria delle risposte che sono ormai al di fuori delle più evolute e reali possibilità e degli strumenti moderni degli psichiatri. Vediamo di capire meglio il perché.
1. La capacità di intendere e di volere – il diritto penale si basa sul concetto di responsabilità rispetto al reato commesso (accertarsi che è lui che lo ha commesso) e la responsabilità che rende poi il soggetto imputabile e condannabile si esprime attraverso la sua consapevolezza di commettere un reato (la capacità di intendere) e la sua volontà di volerlo mettere in atto (la capacità di volere). I tre elementi che conducono ad una piena imputabilità e di conseguenza alla pena sono quindi l’accertare che sia lui ad aver commesso il fatto, che sia stato consapevole di quello che stava commettendo e che abbia voluto commetterlo. L’imputabilità si poggia quindi sul riconoscimento della volontà del soggetto (il dolo) nel voler mettere in atto uno specifico comportamento che il diritto definisce come reato.
Quando uno psichiatra si mette a studiare le espressioni della volontà di una persona si imbatte in una serie di elementi che nulla hanno a che fare con la semplice “volontà cosciente” della persona. Fin dagli studi di Sigmund Freud, pubblicati nel 1900 con l’Interpretazione dei sogni, la volontà è apparsa come un coacervo di fattori, per lo più inconsci, in cui il soggetto ha un ruolo estremamente passivo e che si esprimono con i lapsus, gli atti mancati, gli impulsi e le compulsioni. Molti degli atti apparentemente volontari di una persona in realtà sono determinati da stimoli inconsci di cui il soggetto non è minimamente consapevole.
Per distinguere la consapevolezza da tutto il resto sarebbe necessario effettuare una valutazione della personalità del soggetto che purtroppo il diritto stesso, restrittivamente, vieta in quanto non sono ammesse le perizie psicologiche (art. 314 C.p.p.). Il magistrato infatti si rifiuta di prendere in considerazione valutazioni sulla personalità del soggetto, poiché nelle aule del tribunale ancora vige il concetto, ottocentesco, che ad una alterazione delle funzioni mentali debba corrispondere ad una lesione organica del cervello, in un’area specifica, e che quindi il perito deve indicare le lesioni che sottendono alle limitazioni dell’intelletto e della coscienza. Al perito si chiede sempre più una analisi strumentale dell’organo cervello e delle sue funzioni e sempre di meno una analisi psicologica che definisca gli schemi cognitivi del comportamento, distinguendoli in schemi obbligati e schemi di scelta. Per la diffusione e per l’utilizzo nel diritto di queste nuove acquisizioni della psicologia sono sorte e si sono affermate diverse scuole di psicologia giuridica, soprattutto afferenti al Tribunale di Milano, ed alcune cose stanno mutando al punto che sempre più spesso dei giovani magistrati sollecitano o accettano valutazioni psicologiche sulla personalità dell’imputato, nonostante che le norme del codice di procedura penale lo vietino.
Si sta riducendo quindi la distanza tra psichiatria, psicopatologia, psicologia e diritto penale in quanto si sta affermando anche nel campo giuridico il peso dell’inconscio nel determinare gli atti del comportamento al di là della consapevolezza e della coscienza della persona che li mette in atto. Prendiamo ad esempio dei comportamenti, come il furto patologico (la cleptomania) e la piromania, che sono al tempo stesso dei reati e delle sindromi psichiatriche: la comprensione della dinamica di questi comportamenti si ottiene solo attraverso lo studio dell’inconscio poiché la persona comprende il significato di quello che compie (la capacità di intendere è intatta), ma non è in grado di autodeterminarsi sentendosi obbligata da spinte interne a doverlo fare (l’espressione tipica “è più forte di me, non riesco a frenarmi” mette molto bene in luce l’incapacità del soggetto nella gestione della propria volontà).
Per effettuare quindi uno studio sulla cosiddetta “capacità di intendere e di volere” è necessario prendere in considerazione la personalità in senso globale, compresi gli elementi storici, come la famiglia, l’educazione, la scuola, l’ambiente sociale e gli elementi inconsci, come i meccanismi di difesa, i conflitti, gli aspetti premorbosi nevrotici e psicotici. Solo una valutazione globalmente intesa della personalità può rendere conto degli aspetti del comportamento e quindi sulla gestione cosciente o meno degli atti che vengono commessi.
Inoltre è necessario precisare che nessuno psichiatra è in grado di distinguere da una parte l’intendere e dall’altra il volere: il capire e l’agire sono intessuti di fattori come i meccanismi dell’inconscio, i traumi, i ricordi, le rimozioni che condizionano il comportamento al punto da non riuscire a distinguere quale sia la vera molla psicologica che si trova dietro l’agire. Troppe volte alla domanda sul perché venga commesso un determinato atto la persona risponde “non lo so”. E quel “non lo so” non è il rifiuto di rispondere bensì la verità sul suo stato di auto-consapevolezza. Prendiamo ad esempio uno dei conflitti psicologici più forti che il bambino vive durante la crescita come il Complesso Edipico: questo conflitto mette il bambino in competizione, in contrasto, in antagonismo al padre al punto che dentro di lui iniziano a svilupparsi fantasie parricide che possono esprimersi con i sogni, con il gioco, con simbolismi e metafore di ogni tipo e che possono durare per tutta la vita al punto che, da adulto, all’ennesimo litigio potrebbe mettere in atto quel comportamento omicida contro il padre che da decenni cova dentro di lui. Alla domanda se voleva o no uccidere il padre l’uomo risponde in buona fede di no, non essendo consapevole che quell’atto proviene da un desiderio che si porta dentro fin da quando era bambino.
Il complesso edipico se non viene risolto o superato mantiene nella psiche della persona una energia che prima o poi verrà liberata con l’aggressività, con l’odio, con la violenza che leggiamo sempre più spesso nelle pagine della cronaca.
Il complesso edipico è un esempio estremo di come possa nascere, crescere e mantenersi nascosta nella persona una volontà omicida, tuttavia dinamiche di questo tipo sono ricorrenti nei confronti di tutte le persone significative della crescita (fratelli, sorelle, nonni, insegnanti, parenti, tutori, allenatori, maestri, …) e possono esprimersi in atti criminali verso altre persone con modalità associative che solo uno studio della personalità può mettere in luce. Negare la possibilità di uno studio psicologico significa negare oltre cento anni di conoscenze psicoanalitiche e psicodinamiche sullo sviluppo e sul funzionamento della personalità. Il reato non è quindi né spiegabile né interpretabile con i soli due parametri, ottocenteschi, della capacità di intendere e di volere. Continuare ad impostare le perizie psichiatriche in questo modo significa essere fermi al concetto lombrosiano che il comportamento criminale equivale ad una malattia mentale e che questa equivale ad una lesione degenerativa del cervello.
Se il comportamento umano non è dunque riducibile alla sola volontà ed intelligenza è necessario che anche il diritto penale prenda atto di questo e che il magistrato nel formulare il suo quesito sul perché del comportamento criminoso debba permettere l’utilizzo di tutte le conoscenze psicologiche e psichiatriche disponibili, riformulando la premessa con l’espressione: “valutata la personalità del soggetto, tenuto conto delle condizioni ambientali in cui vive ed in cui ha agito, …”.
2. la pericolosità sociale – il Codice stabilisce che, qualora il soggetto abbia commesso un reato ma, nel momento del fatto, fosse grandemente o totalmente incapace di intendere e di volere, egli non può essere condannato alla pena prevista per il reato. Tuttavia è necessario accertare se costituisca o meno un pericolo per la società, in quanto ci siano fondate ragioni di ritenere che commetterà nuovi fatti di reato, e quindi che possano essergli applicate delle misure alternative al carcere (come le case di cura o i manicomi criminali). Secondo le restrizioni del codice penale è impossibile parlare di pericolosità sociale in chi è capace di intendere e di volere. Anzi se il perito concludesse che il soggetto è capace di intendere e di volere ed anche socialmente pericoloso potrebbe essere accusato di aver violato e leso i diritti dell’imputato con valutazioni non richieste e non pertinenti. Per il codice penale la pericolosità sociale si lega solo al vizio, cioè alla malattia, di mente. E questo è oggi assolutamente inaccettabile dal punto di vista delle recenti conoscenze psicopatologiche e psichiatriche. L’equazione delitto uguale malattia di mente risale al 1905, ad un congresso di criminologia che si svolse in Belgio, in cui Cesare Lombroso ha sostenuto che il crimine è dovuto ad una degenerazione presente nel cervello, per cui dopo il primo delitto ci sarebbero stati altri delitti e quindi il soggetto, applicando una necessaria misura di sicurezza, doveva essere internato in manicomio per prevenire gli altri comportamenti criminali. L’unica differenza che si è venuta ad applicare in questi cento anni è che per Lombroso dopo una prima volta la pericolosità sociale era certa in modo automatico per sempre, mentre oggi deve essere accertata caso per caso, volta per volta, crimine dopo crimine.
Le conoscenze di oggi smentiscono ampiamente l’equazione malattia mentale uguale crimine in quanto i delitti sono commessi prevalentemente da persone mentalmente sane e le condotte aggressive e violente non sono prevalenti nelle psicopatologie gravi bensì nelle situazioni di stress e frustrazione in cui sono costrette e vivere le persone cosiddette sane di mente.
Oggi la psichiatria ritiene comunque giusto che un magistrato richieda la valutazione della pericolosità sociale, ma non ci sono motivi per chiederlo solo nei soggetti affetti da una malattia mentale.
Alla luce delle osservazioni e delle analisi che sono state fin qui sviluppate si ritiene che il conferimento della perizia psichiatrica dovrebbe articolarsi in questo modo:
1° quesito – chiedere che vengano analizzate tutte le componenti che hanno agito sulla personalità del soggetto, influenzandone il comportamento per cui si procede
2° quesito – chiedere sulla attuale pericolosità sociale del soggetto.
Ogni psichiatra nell’espletamento del proprio lavoro si chiede se il soggetto possa compiere o meno dei gesti in qualche modo lesivi per la comunità o per se stesso. Ogni psichiatra indaga sempre il rapporto del soggetto con l’ambiente, vale a dire il campo elettivo della psichiatria relazionale. Non ci si chiede solo come funzioni in soggetto rispetto a se stesso, ma anche come interagisce con le altre persone e quindi stabilire se esista o meno una pericolosità sociale del soggetto all’interno della famiglia e non solo rispetto alla società. In questo modo possiamo giungere al concetto ed alla formulazione di un giudizio di pericolosità sociale non del malato di mente, bensì, come la cronaca prepotentemente evidenzia, del soggetto cosiddetto normale.
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Gli articoli del Codice Penale
Art. 42 – Responsabilità - “nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”
Art. 85 – Capacità di intendere e di volere - “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere” (E’ sempre presunta in chi ha compiuto 18 anni a meno di dimostrare il contrario con la perizia. E’ sempre esclusa in chi non ha compiuto 14 anni, secondo l’art. 97 C.P.)
Art. 88 – Vizio totale di mente - “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere”
Art. 89 – Vizio parziale di mente - “chi, nel momento in cui ha commesso il fatto era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita”
Art. 203 – “Pericolosità sociale” - “è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti previsti come reati, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”
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