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settembre/2005 - Articoli e Inchieste
Mobbing
Alla base la gestione del potere
di Leandro Abeille

Il fenomeno non è
certamente risolvibile a livello aziendale,
dal momento che
coinvolge due milioni di lavoratori in Italia
e ben dodici milioni nell’Unione Europea


Il mobbing non è, come alcuni pensano, “un problemino risolvibile con qualche cambiamento aziendale ed un paio di psicoterapie”, è un fenomeno che coinvolge circa 2 milioni di lavoratori in Italia e circa 12 milioni nell’Unione Europea. Non provoca solo qualche pianto o leggero malumore ma disturbi psichici e fisici che s’inquadrano in vere e proprie sindromi. Secondo alcune stime svedesi il mobbing sarebbe la causa del 7% circa dei suicidi (H. Leymann 1987).
Il mobbing per quanto odioso e perverso è a suo modo democratico: colpisce in tutti gli ambienti di lavoro e in tutte le culture, non ha pregiudizi sessuali e nemmeno gerarchici. Questo fenomeno non dipende dalle caratteristiche della personalità della vittima o dell’aggressore, ma è, piú ragionevolmente, provocato dalla degenerazione e dall’esasperazione dei conflitti interpersonali per la gestione del potere che scoppiano in ambienti di lavoro mal organizzati e mal gestiti dal punto di vista delle risorse umane. Il mobbing non è esercitato solo da persone in qualche modo psicologicamente disturbate, in posizione one-up che allo scoppio di un qualsivoglia conflitto ne vessano altre in posizione one-down ma rappresenta un sistematico uso del potere, da parte d’individui in quanto “animali” sociali, che lottano per la supremazia in un ambiente sviluppatosi secondo rapporti basati sul contratto di lavoro, in un sistema definito “azienda”. Quanto appena affermato non esclude peró che, il mobbing, non possa essere esercitato, contro una persona solamente a causa della sua appartenenza etnico-nazionale, sociale, politica, religiosa, sportiva, sulle preferenze sessuali o sulla presenza o meno di disabilitá fisiche o psichiche.
La parola “mobbing” ha un carattere omnicomprensivo di vari comportamenti, ora gli esperti aziendali, soprattutto anglosassoni, la sostituiscono con una definizione ancora piú ampia: “l’harrassment” (persecuzione). Quest’ultimo e definito come: ogni forma impropria o non voluta di condotta o comportamento diretta a qualcuno sulla base di un qualsiasi tipo di appartenenza che la vittima (o una qualsiasi persona ragionevole) trova offensiva, intimidatoria, dannosa, umiliante o non rispettosa della propria dignitá (S. Brinsley 2005). Questa definizione ha il pregio di chiarire meglio anche altri tipi di maltrattamento sui luoghi di lavoro non configurabili come mobbing, come ad esempio il “sexual harrassment” (molestie sessuali che comprendono la forzata partecipazione a battute, barzellette o visioni d’immagini oscene, complimenti o corteggiamenti non voluti, palpeggiamenti) o lo “stalking” (comportamenti persistenti agiti sotto forma di contatti postali ordinari o elettronici, telefonate, pedinamenti videofotoriprese che molestano o minacciano una vittima).
Il termine mobbing nasce dall’inglese “to mob”, che vuol dire attaccare, assalire (dalla folla), ed è stato scelto da uno studioso tedesco di nascita e svedese d’adozione: Heinz Leymann. Quest’ultimo, definisce il mobbing come: “Una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico attuato in forma sistematica – e non occasionale o episodica – da una o più persone, nei confronti di un solo individuo, il quale, a causa del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie d’iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative, devono ricorrere con una determinata frequenza (per almeno una volta la settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi di durata). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali”.
Questa definizione di mobbing esclude dal suo campo d’applicazione i “conflitti temporanei” (che se ad alta intensitá ed ingiustificati sono invece considerati dalla definizione di harrassment) e focalizza l’attenzione sul momento in cui la durata e l’intensità del comportamento vessatorio determinano condizioni patologiche.
In maniera più pragmatica, s’intende per mobbing una forma sistematica di violenza ingiusta perpetrata in ambiente di lavoro da un superiore verso un subordinato (bossing) o tra colleghi parilivello (mobbing orizzontale) causata da conflitti irrisolti per motivi endogeni od esogeni al tipo di lavoro quali: divisione del lavoro, carriera, carichi di lavoro, riconoscimenti, appartenenza sociale, politica, religiosa, sportiva, incompatibilità caratteriali, gelosia, invidia, rancore.
Esiste anche un mobbing (strategico o aziendale), che è invece causato dai conflitti economici, derivanti dalle necessitá dell’azienda di massimizzare i profitti e dalle necessitá dei lavoratori di mantenere i propri posti di lavoro. Il mobbing strategico è una precisa strategia aziendale che parte direttamente dai vertici delle imprese (di solito in difficoltá a causa di fusioni con altre aziende o per convergenze economiche negative), per promuovere l’allontanamento dal lavoro sotto forma di prepensionamento, mobilitá, trasferimenti e dimissioni. E’ il caso di quelle aziende che fondendosi con altre si ritrovano la metá delle posizioni lavorative ed il doppio dei lavoratori che potrebbero ricoprire quelle posizioni, oppure, di quelle aziende che perdono commesse importanti e che in un breve periodo si ritrovano per le mani dei settori, che prima, erano produttivi ed ora si rivelano completamente inutili.
Il mobbing si manifesta in un insieme d’azioni e comunicazioni, volte a determinare una condizione di debolezza in una persona, allo scopo di isolarla dall’ambiente lavorativo e ove possibile allontanarla. Se ne distinguono 4 fasi:
1. segnali premonitori;
2. conclamazione;
3. ufficializzazione
4. espulsione.
Questo percorso varia da caso a caso e da luogo a luogo ma generalmente, il fenomeno mobbing segue le fasi qui descritte. Si parte da un “innocente” pettegolezzo per arrivare a veri e propri attacchi personali o lavorativi, che ledono la credibilità sociale della vittima, la quale, inizia a provare un senso d’isolamento, svalorizzazione umana e professionale, inutilizzo per le sue reali capacità, arrivando ad autopercepire un allontanamento dal contesto lavorativo.
Il mobbizzato, a volte inconsapevolmente, entra in un circolo relazionale vizioso, bersaglio di un’aggressione da parte di un offender che non riesce ad identificare chiaramente. Gli attacchi, non sempre sono eclatanti e la vittima non è subito in grado di capire quello che gli sta succedendo: cattiverie e pettegolezzi circolano sul suo conto ma ancora non sono esplicitate.
L'individuo inizia a provare senso d’inadeguatezza e di colpa per non riuscire ad essere migliore e quindi inattaccabile, non mette in relazione i disturbi fisici che subisce e le maldicenze o rimproveri gratuiti che riceve (segnali premonitori).
Gli psicologi del lavoro hanno individuato cinque categorie di comportamenti ostili con attacchi diretti: alla possibilità di comunicare (non mi rivolgono la parola), alle relazioni interpersonali (nessuno prende il caffè con me), all'immagine sociale (non m’invitano alle cene aziendali), alla situazione e alla capacità professionale (mi hanno tolto il computer ed escluso dall’aggiornamento professionale), alla salute (mi dicono spesso che ho una brutta cera e che dovrei pensare a riguardarmi).
Il mobbizzato finisce spesso per attribuirsi la responsabilità delle sue difficoltà d’adattamento all'ambiente lavorativo e alla propria bassa produttività, quando questo accade, i disturbi psicosomatici e i danni al senso d’autostima, diventano inevitabili. La vittima, quasi automaticamente, assume il ruolo di sottomesso (one-down), diventa “la pecora nera”, il bersaglio delle frustrazioni e delle vessazioni dell’intero ufficio (conclamazione).
Gli altri impiegati iniziano a vedere la vittima come effettivamente poco produttiva, problematica per l’andamento produttivo, iniziano così ad escluderla dal processo lavorativo bypassando le sue funzioni ed escludendola dal know-how aziendale (ufficializzazione).
Con l’aumentare delle privazioni lavorative produttive e sociali il mobbizzato acuisce la sua autoestraneazione al processo lavorativo ed avverte l’aumentare (o il sopraggiungere) della sintomatologia psicosomatica.
Le conseguenze possono arrivare fino a disturbi psicosomatici e patologie conclamate come:
- distress;
- disturbo post-traumatico da stress;
- depressione;
- malattie psicosomatiche diverse;
A volte, a causa della precaria situazione psicofisica, la vittima compie degli errori, che siano gravi o veniali, sono sempre amplificati dal sistema mobbizzante che, come una eco, ne centuplica la portata. Non restano che le dimissioni (espulsione).
La situazione spesso non migliora fuori dell’orario di lavoro, infatti, i traumi percepiti, sono portati all’interno dell’ambiente familiare, il quale se nei primi momenti supportava il mobbizzato ad un certo punto, a volte, anche solo se per autoprotezione, lo rende alieno in casa propria.
Considerando quanto detto si può delineare la figura della vittima del mobbing come persona che:
1. mostra dei sintomi di malattia, si ammala, si assenta dal lavoro, si licenzia;
2. è colpita da stress negativo o fenomeni psicosomatici, attraversa fasi di depressione e manie suicide;
3. definisce il suo ruolo in termini di passività (“non mi fanno partecipare”, “sono fuori dai giochi”);
4. da un lato il soggetto è convinto di non avere colpa, dall’altro crede di sbagliare sempre tutto;
5. mostra mancanza di fiducia in sé, indecisione e un senso di disorientamento generale;
6. rifiuta ogni responsabilità per la situazione o accusa distruttivamente sé stessa.
Nei casi in cui ci siano carenze nella gestione delle risorse umane, alcuni tipi di persone, più di altre, corrono il pericolo di divenire vittime del mobbing:
- una persona sola: l’unica donna in un ufficio di maschi, l’unico infermiere in un ospedale di sole infermiere;
- una persona “strana”: qualcuno che non si confonde con gli altri, ma che è in qualche modo diverso. Possiamo pensare ad un particolare modo di vestirsi, ma anche ad handicappati o stranieri. A volte può bastare anche solo il fatto di essere nubile, celibe in un ufficio di sposati o viceversa;
- una persona che ha successo: è facile provocare la gelosia dei colleghi, una promozione, una lode del capo, un omaggio di un cliente può dare il via ai pettegolezzi e al sabotaggio;
- la persona nuova: chi in precedenza ricopriva quel posto era molto popolare o la persona nuova ha qualcosa in più degli altri, é più qualificata o semplicemente la più giovane.
Se fino ad ora abbiamo descritto la vittima, potremmo dire che l’esatto opposto è il suo carnefice: il mobber. Un individuo che, durante un conflitto, viene a trovarsi in una posizione preminente a livello personale, lavorativo o sociale rispetto al suo concorrente che, diventa mobbizzato.
Il mobber spesso agisce per motivazioni di sopravvivenza nel gruppo lavorativo in cui si sente minacciato o perché considera il futuro mobbizzato come qualcuno che ostacola il suo lavoro o quello del suo gruppo. La strategia è semplice: una volta guadagnato il consenso degli altri intorno a sé, attacca quello che percepisce come il nemico, al fine di azzerarne la (vera o presunta) minaccia. C’è sempre da non dimenticare che, a volte, il mobber agisce per motivi squisitamente personali, spesso addirittura inconsci, assolutamente indipendenti da cause lavorative. In questi casi ripianare la situazione diventa quasi impossibile.
Il mobbing non è mai invisibile ai colleghi non partecipanti, gli spettatori sono spesso coinvolti: a volte fanno da semplice sfondo, altre parteggiano apertamente per una delle due parti.
La funzione che lo spettatore ricopre all’interno del posto di lavoro, ha un’importanza cruciale per lo sviluppo del mobbing, poiché, potrebbe possedere una forte capacità d’influenza: se lo spettatore è, ad esempio, un neo-assunto è comprensibile che potrà fare poco di fronte al mobbing, se invece, è il manager (nel caso di mobbing orizzontale) avrá l’autorità di porre fine al processo.
Bisogna rilevare che l’atteggiamento non partecipe dello spettatore che assiste al mobbing, non denunciandolo, o non cercando di interromperlo, lo fa diventare un “aggressore riflesso” (side-mobber), poiché, con la sua indifferenza, ne favorisce lo sviluppo.
Il più delle volte, la vittima, proprio perché in condizioni d’inferiorità, è considerata come una persona da evitare, da attaccare, da isolare in modo sistematico, diviene il parafulmine dei nervosismi e degli “sfoghi aziendali” di tutti. Il capro espiatorio del microcosmo lavorativo.
Così al mobbizzato non si lascia più spazio per ri-costruire o gestire i normali rapporti interpersonali e professionali, egli si vedrà come una persona negata, meritevole solo di rifiuti, espliciti o impliciti, dai suoi colleghi e dai superiori. In realtà, il più delle volte, la vittima è una persona molto capace.
Il mobbing è un fenomeno più evidente nelle grandi aziende e nella Pubblica Amministrazione, che nelle piccole imprese (meno di quindici dipendenti) questo verosimilmente perché nei casi di mobbing verticale o aziendale, i mobbers, laddove si sviluppi un conflitto, non avendo la possibilità di licenziare facilmente, fanno ricorso ad una strategia differente di risoluzione del problema: alienare la parte avversa con lo scopo di allontanarla. Nelle aziende più piccole invece gli imprenditori, hanno maggiore facilità ad allontanare un dipendente in caso di conflitto, a causa di un sistema di garanzie meno strutturate tipico delle grandi imprese (non solo art. 18 ma anche bassa sindacalizzazione ecc).
Nel caso di un mobbing orizzontale invece, l’imprenditore, essendo maggiormente presente all’interno dei luoghi di lavoro ed usufruendo della sua l’autorità, potrebbe stroncare ogni tentativo di vittimizzazione verso un suo dipendente. Da quanto detto, nei casi di mobbing verticale e aziendale, si delinea una situazione paradossale per il mobbizzato, che, in una grande azienda è fatto oggetto di mobbing, in una piccola licenziato: il tutto sempre per un conflitto scatenato per cause vere o presunte con qualcuno che si trova in una posizione privilegiata.
Una diversa forma di mobbing é quella attuata dal gruppo di lavoro nei confronti del suo leader. Il comportamento che un gruppo di sottoposti, può attuare, ad esempio, non rispettando le direttive, paralizzando l’andamento dell’ufficio con l’uso di congedi per malattia “strategici”, oltre ai classici pettegolezzi e sabotaggi vari. Lo scopo di questo tipo di mobbing è attuato al fine di distruggere l’immagine aziendale di un capufficio, un caporeparto, per costringere i vertici aziendali ad allontanarlo, inutile dire che questo tipo di mobbing nelle statistiche è assolutamente marginale.
Lo sport non sembra immune da una qualche forma di mobbing. Ad esempio, nel caso del calcio professionistico un discreto numero di giocatori ha subito un deprezzamento del valore del proprio “cartellino” con conseguenti ripercussioni sugli ingaggi futuri, perché non messi in condizione, dall’allenatore o dalla squadra, di rendere al meglio. Il più delle volte, questi giocatori, vengono ingiustamente perseguitati anche dagli sfottò dei tifosi per colpe non sempre proprie. Tuttavia per gli alti ingaggi percepiti dai giocatori e per la natura stessa dell’attività lavorativa, questo tipo di mobbing non è affatto considerato.
Una forma nuova di mobbing, risulta essere il sistematico uso ed abuso della giusta aspirazione di un dipendente a svolgere una mansione di livello superiore rispetto a quella posseduta, per poi, arbitrariamente, essere riportato al livello inferiore.
E’ spesso usato nei luoghi di lavoro molto gerarchizzati, come le Forze armate o le Forze di polizia, è il caso di un dipendente che, assunto con un determinato livello, riesca a conseguire, nel corso degli anni, un titolo di studio o professionale tale da consentirgli di essere impiegato informalmente in mansioni di natura superiore rispetto a quelle attribuitegli al momento dell’assunzione, per poi essere declassato, nell’eventualità di un conflitto, con conseguente frustrazione delle proprie aspettative lavorative. Nel lavoratore si crea perciò uno stato di malessere che può provocare una sintomatologia simile a quella dei casi di mobbing precedenti descritti. Il ricorso al Tribunale in questi casi potrebbe essere una scelta vincente se non innescasse tutta una serie di minacce e future ritorsioni favorite, in alcuni casi, da carenze legislative che limitano l’efficacia di una eventuale pronunziazione a favore del ricorrente da parte degli organi di giustizia.
Il mobbing rappresenta dunque comportamenti che “la vittima, in condizioni normali, rifiuterebbe ma che invece è forzata a sopportare in un contesto lavorativo a causa della dipendenza economica che si instaura con il contratto di lavoro” (Uk Industrial Society, 1999). Per garantire la propria tutela, l’unica risoluzione sembra essere il ricorso al Tribunale del Lavoro o ai vari Tar, il che è possibile solo nel caso in cui il fenomeno sia già nella fase conclamata; dei successivi passi, nei quali rientra anche la ricerca di una legislazione più precisa, se ne dovranno occupare i giuristi. Il mobbing ha origine da una situazione conflittuale, della cui risoluzione dovrebbero occuparsi altri scienziati sociali (sociologi, psicologi), tempestivamente impiegati nelle prime fasi del conflitto, nella veste di mediatori e counselor.
L’implementazione delle comunicazioni interpersonali, la ricerca di soluzioni alternative convenienti per tutti e volte alla risoluzione dei conflitti sul nascere, minimizzerebbe la genesi di tutti quei gap produttivi tra i quali è possibile annoverare: ritiri anticipati, assenteismo, cali di produttività, perdita di potenzialità professionalità fondamentali. La minimizzazione di questi gap, dovuti al depauperamento delle risorse umane, conseguente al fenomeno mobbing, permetterebbe un notevole risparmio in termini economici e di sofferenza umana. La formazione del management, la creazione d’ambienti di lavoro incentrati sulla partecipazione costruttiva del lavoratore e la cultura della supremazia del gruppo di lavoro più che del lavoratore singolo, sono deterrenti efficaci alla nascita stessa delle cause promotrici d’alcuni tipi di mobbing ed è alla ricerca dell’assetto aziendale migliore che la ricerca dovrà indirizzarsi nel prossimo futuro. Purtroppo ad una soluzione del problema “mobbing” siamo ancora molto lontani.
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Per approfondimenti sul tema si consiglia:
I mobbings. Mobbing e bossing, di Isabella Corradini, Europolis Editing, Roma 2005.
Mobbing. Conoscerlo per vincerlo, di Ege Harald, FrancoAngeli, Milano, 2002.
Guida pratica privacy, mobbing, danno biologico, AA.VV., Il Sole 24 ore editore, Milano 2005.

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