Il pericolo rappresentato
per tutti dalla rete omicida
di Osama bin Laden e dei suoi
associati incombe sulla sicurezza di tutti,
anche se la sconfitta dei fautori di una
insensata “guerra santa” è inevitabile.
Per combatterli efficacemente ed eliminarli
è però necessario usare gli strumenti giusti
Non lasciamoci prendere dal panico. Ma neppure neghiamo di avere paura. Fra queste due posizioni – entrambe raccomandate, e raccomandabili – si collocano una serie di atteggiamenti, sensazioni, impulsi, interrogativi, che fluttuano tra le cupe prospettive di una situazione che, a un primo esame, non mostra punti di approccio per uno sbocco positivo.
Forse è utile una considerazione, che se non aiuta a fare chiarezza serve almeno a non aggiungere ulteriore confusione: il terrorismo islamico non somiglia ad altre forme già vissute di terrorismo, a quello basco, o a quello nord-irlandese, e neppure a quello, sanguinosamente folle, delle Brigate rosse e gruppi similari, che millantavano obiettivi di estrema sinistra. I suoi attentati dinamitardi sono diversi anche da quelli della tristemente nota “strategia della tensione”, che agiva per cammini obliqui e nascosti. Il terrorismo islamico non si nasconde, pur restando difficilmente individuabile e prevedibile, anzi lancia i suoi messaggi con tutti i mezzi che la tecnologia mette a disposizione, dichiarando una jihad, o “guerra santa”, agli “infedeli”, termine che ingloba cristiani di tutte le chiese, ebrei, induisti, buddisti, atei, e buona parte degli stessi musulmani. Un conflitto che i terroristi vogliono porre sotto il segno di un’ortodossia religiosa di ardua comprensione, con una linea ideologica profondamente reazionaria, esplicitamente retrograda, e razzista. Sostenuta da un fanatismo omicida e suicida che sembra sfuggire ad ogni analisi razionale.
Detto ciò, il terrorismo islamico esiste, e purtroppo si deve prevedere che non avrà corta durata, proprio perché rifiuta qualsiasi nesso logico di tipo sociale o politico: ricchi e poveri, di destra e di sinistra, sono tutti potenziali nemici da distruggere con qualsiasi mezzo, e quanto alla fede religiosa lo stesso Islam è ristretto ai musulmani di rigida osservanza wahabita. In un messaggio del novembre 2003, Osama bin Laden attaccava i musulmani “che parlano di un sistema pacifico e democratico” e “invitano l’umanità a entrare nella religione miscredente della democrazia … Essi fanno un grande errore e sono contro Allah, l’Islam è la religione di Allah e loro sono della Jahiliya (paganesimo, n.d.r.)”. Rivolgendosi agli iracheni, qualche mese dopo l’inizio dell’occupazione, il capo di Al Qaeda definiva “tutti coloro che aiutano gli americani”, “dei miscredenti rinnegati, così come il partito socialista Baath e i partiti democratici curdi”. Da notare che il partito Baath è quello di Saddam Hussein, il dittatore deposto, e che un partito Baath è al potere in Siria.
In realtà i vari conflitti in corso non sono la causa del terrorismo islamico, ma gli forniscono dei pretesti propagandistici, e soprattutto delle occasioni di inserimento e di espansione. In questo senso l’intervento militare in Iraq è stato disastrosamente controproducente, ha agito da “sergente reclutatore del terrorismo”, secondo l’ultimo rapporto dell’istituto di ricerca Chatham House. E Sergio Romano ha scritto recentemente su Panorama che “Purtroppo gli americani hanno dato un contributo decisivo con la guerra a trasformare l’Iraq in una palestra del terrorismo”. La strategia sanguinaria di Osama bin Laden e dei suoi seguaci e imitatori non può essere combattuta con una guerra in campo, ma essa ha bisogno di guerre per alimentarsi. E per autoreferenziarsi: in questo senso, confondere, come spesso viene fatto in Iraq, fra ribelli combattenti, che sono molti, e terroristi, che rappresentano una minoranza in gran parte venuta da fuori, significa fare il gioco di Al Qaeda.
Certo, ormai si deve ragionare sui dati di fatto, non dimenticando gli errori commessi per evitare di ripeterli. Per il terrorismo islamico l’occupazione dell’Iraq, con i morti e le distruzioni che la accompagnano, è un’autentica manna, e in qualche modo la situazione, disastrosa, dovrà essere risolta, o almeno rappezzata. Prevedere il come e il quando, è un altro discorso, e i toni trionfalistici, o anche solo volutamente ottimisti, servono solo a coprire le bugie di ieri con gli inganni di oggi.
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Però, al di là delle vicende irachene, il terrorismo islamico è sempre pronto a colpire. Osama bin Laden, che nel luglio scorso ha compiuto 48 anni, stando a informazioni raccolte dai servizi segreti sauditi, si nasconderebbe nel sud del Waziristan, una regione pachistana al confine con l’Afghanistan protetto da complicità tribali e da un reparto di guardie del corpo usbeke: del resto non sembra che lo Sceicco Nero sia oggetto di una ricerca accanita, e non è escluso che in realtà egli abbia trovato un rifugio molto più sofisticato e sicuro. Comunque il miliardario saudita resta il capo, e anzi si è fatto nominare (da chi ?) giudice supremo del tribunale della jihad, il detentore del marchio di garanzia che accredita le azioni delle varie componenti della holding del terrore. Al suo fianco, anche se forse non fisicamente, resta il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, apparso recentemente in un messaggio televisivo, con l’aggiunta di un altro luogotenente, lo psichiatra marocchino Abu Afiza, che avrebbe assunto la gestione della propaganda via internet: messaggi diretti ad esaltare le azioni degli shaid (testimoni, o “martiri”), che sacrificano la loro vita per portare morte e distruzione tra i kafir, i “miscredenti”, e anche comunicati indirizzati alle cellule sparse nei diversi Paesi, in Estremo Oriente, Europa, America, Asia.
Sulla consistenza numerica delle cellule è difficile fare ipotesi, anche perché sono diverse tra loro, e relativamente autonome, a parte il legame con la Cupola centrale. Fra la Cupola e le cellule si muove una rete di “emiri”, o capi zona, incaricati di coordinare e finanziare i diversi gruppi, e di presiedere al reclutamento, il punto più importante e complesso dell’attivita terrorista. Certo, per chi ci crede, il paradiso promesso agli aspiranti kamikaze (ma non è chiaro se anche un terrorista “normale” potrà usufruirne una volta deceduto) può sedurre la fantasia di un giovane esaltato: 76 bellissime vergini con le quali accoppiarsi in continuazione, e una dovizia di adeguati annessi e connessi. Stupendo, pur se non è dato sapere quale sia la ricompensa riservata alle donne Kamikaze. Ma quanti possono essere quelli disposti a prestare fede a una fola del genere? Presumibilmente non moltissimi, ma purtroppo sono sufficienti pochi fanatici a provocare delle stragi e dei disastri immani. Non vi è dubbio che il terrorismo islamico sarà sconfitto, anzitutto perché non ci troviamo di fronte a un apocalittico “scontro di civiltà”, ma alla lotta che la ragione, sorretta dalla forza della democrazia, deve ingaggiare contro una forma di nazismo parareligioso che sa solo uccidere, e uccidere a tradimento. Poi, perché i mezzi e le capacità per eliminare questo nemico ci sono, e lo provano i risultati finora raggiunti da intelligence, magistratura, Forze di polizia. Queste strutture vanno rafforzate, e messe in grado di funzionare al meglio, poiché è essenziale non sottovalutare il pericolo. Ma è altrettanto essenziale non commettere altri errori.
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