Un libro di Piero A. Corsini (con prefazione
del Capo della Polizia De Gennaro)
ripercorre la vita professionale
del funzionario che ha legato il suo nome
e il suo operato a tante vicende italiane,
da piazza Fontana al delitto Moro,
dall’uccisione di Occorsio al rapimento
del generale Dozier
Ha trovato le parole giuste, il Capo della Polizia Gianni De Gennaro, per introdurre “Lo sbirro”, il libro che Piero A. Corsini ha dedicato a Umberto Improta (Laurus Robuffo edizioni, pagg.230, 20 euro): è la storia di una vita vissuta intensamente, la vita “di un funzionario dello Stato che con la stessa coinvolgente passione ama il suo lavoro e la sua famiglia, la cui solida impalcatura è la vera certezza della sua esistenza, che lo sorregge fino alla fine. La moglie, i figli, sono anch’essi i protagonisti del libro, ad essi è soprattutto affidata la memoria e l’eredità dello sbirro, che dice di sé, senza trionfalismo, senza retorica: ‘Io sono un uomo che ha servito il proprio Paese, e lo ha fatto seriamente’…”.
Improta è stato senza dubbio una delle figure più emblematiche della Polizia italiana nel dopoguerra. E’ stato testimone e protagonista di mille vicende. Sotto i suoi occhi di “sbirro” è passata una quantità di cronaca che è diventata storia del nostro Paese, nel bene e nel male: gli scontri di piazza a Genova, negli anni ’60, per impedire il congresso del Movimento Sociale; la strage di piazza Fontana, a Milano; il caso Moro; e ancora: la strage di Bologna, il delitto del sostituto procuratore Vittorio Occorsio, il sequestro da parte delle Brigate Rosse del generale americano James Lee Dozier, vice-comandante delle Forze Armate di Terra della Nato per il Sud Europa; fino all’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi a Napoli… Praticamente non c’è episodio negli ultimi quarant’anni di cronaca del Paese su cui Improta non abbia indagato: da capo dell’ufficio politico della questura di Roma, prima; da responsabile della Digos e della Prefettura di Napoli poi.
Sull’esempio americano anche qui da noi in Italia da un po’ i produttori di fiction televisiva sembrano aver scoperto che la “divisa” tira. Non ci voleva molto per capirlo: bastava ragionare sullo straordinario successo che avevano ottenuto “I racconti del maresciallo”, ricavati dal libro di Mario Soldati. Ma oggi è un proliferare: dalla “Squadra” al “Maresciallo Rocca”, da “Carabinieri” a “Ultimo” e la Guardia di Finanza.
Sono eroi molto umani quelli che vengono descritti, e per tanti versi aderenti alla realtà. Però in quale fiction per esempio si descrive quel che si legge a pagina 30 de “Lo sbirro”? Leggiamo insieme: “Con gli straordinari, lo stipendio arriva a 95mila lire al mese. Più che una vita, per i coniugi Improta, è un elenco di sacrifici, di piccoli stratagemmi per rosicchiarsi uno spicchio di miracolo economico: ‘Ogni tanto andavamo al cinema, perché con i biglietti omaggio della questura non pagavamo. Quando uscivamo dallo spettacolo, avevamo scoperto un ristorantino di via XX Settembre dove servivano prosciutto, focaccia e del vino. Noi però ci facevamo dare la parte vicina all’osso perché costava meno, accampando la scusa che il prosciutto ci piaceva più nervoso. Alle volte ce lo facevamo addirittura mettere in un sacchetto per portarlo a casa e farci il brodo. Ci facevamo un sacco di risate, perché ci atteggiavamo a gran signori e invece stavamo attenti alla mezza lira…’”.
Andiamo al capitolo sesto, dove la testimonianza di Improta si intreccia con episodi controversi e dolorosi, ancor oggi che son passati tanti anni: la strage di piazza Fontana a Milano, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969. Improta lo conosce il commissario Luigi Calabresi, il commissario che chiude la sua vita sul selciato di fronte alla sua abitazione il 17 maggio 1972, un delitto di cui si auto-accuserà un “pentito”, Leonardo Marino, che coinvolge anche tre esponenti di “Lotta Continua”, Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. Il giudizio di Improta è netto: “Io mi rifiuto di pensare che Sofri una mattina si sia svegliato e abbia detto: Basta, questo Calabresi mi sta troppo antipatico, andate e ammazzatelo. Se parliamo del clima che si era creato contro di lui, è un altro discorso. Ma allora, insieme a Sofri, avrebbero dovuto mettere in carcere tutto il vertice di Lotta Continua” (pag. 57).
E Pino Pinelli, l’anarchico milanese volato giù dal quarto piano della questura di Milano? Improta non c’era, non è stato né un “protagonista” né un testimone di quella pagina tragica e ancor oggi oscura. Il suo giudizio però è quello di un “addetto ai lavori” con fiuto ed esperienza: “Secondo me, non credevano affatto che Pinelli fosse colpevole; magari speravano che potesse dare delle informazioni utili alle indagini, quasi certamente si trattava di quelle operazioni che si fanno in casi come questi, arresti, perquisizioni, intercettazioni, e che io chiamo ‘sfogo di pratica’, anche perché i giornalisti devono scrivere qualcosa, l’opinione pubblica vuole vedere che la Polizia si sta muovendo” (pagg. 55-56).
Andiamo avanti. Ecco un’altra pagina delle tante ambigue – ed è dir poco – di cui è zeppa la storia italiana di questi ultimi trent’anni. Il tentato golpe organizzato da Junio Valerio Borghese, il “principe nero” capo della X-Mas, e poi leader del “Fronte Nazionale”, un gruppo alla destra del Movimento Sociale di Giorgio Almirante. Secondo una scuola di pensiero, la storia è in gran parte frutto del caso. Il racconto di Improta sembra confermare questa teoria. Lo “sbirro” racconta che nessuno aveva sentore di quel che si stava preparando. Solo un confidente aveva avvertito che c’era del “movimento”, ma le successive indagini non avevano portato a nulla. Improta, è coinvolto direttamente nella faccenda, dal momento che lavora all’ “Ufficio Politico” a Roma. Tutto sembra tranquillo, così pensa a un’informazione sballata. Poi, verso la metà di dicembre su un giornaletto di ex combattenti della Repubblica Sociale, legge un trafiletto che lo fa trasalire; più o meno, infatti legge: “Cos’è successo la notte dell’Immacolata? Sarà stato il cattivo tempo a fermare gli uomini della palestra?”. Quanto basta perché a Impronta torni in mente la soffiata del confidente: che aveva appunto parlato di un’atmosfera strana, di agitazione in un gruppo di militanti di “Ordine Nuovo” che facevano capo a Sandro Saccucci, e che ruotava attorno a una palestra di via Eleniana a Roma, dove d’abitudine si ritrovano neo-fascisti. Improta si mette in moto, e scopre che la sera del 7 dicembre c’era stata una grande riunione per iniziativa di Saccucci. Corre da Bonaventura Provenza, il suo capo: “Dottore, ci conviene verificare immediatamente, perché se effettivamente c’è stato un raduno di seicento persone venute da tutta Italia, e a noi è sfuggito, la cosa è grave”.
Dopo la prima “fortuna” del trafiletto, la seconda: “Il collega che doveva andare a perquisire la casa di Saccucci sbagliò, e andò invece a perquisire la casa della madre, dove trovò un’agenda, che sarebbe poi diventata il documento-chiave di tutta l’inchiesta”. Già: in quell’agenda c’è tutta la storia del mancato golpe. I convocati, dove si dovevano sistemare, cosa dovevano fare, a che ora e imbracciando quali armi; c’era anche il nome di chi, dopo, avrebbe aderito al nuovo regime instaurato… Racconta Improta: “Con questa agenda in mano, scattarono centinaia di altre perquisizioni: a casa di Borghese trovammo addirittura il discorso che avrebbe dovuto tenere dai microfoni della Rai. Fermammo anche molti reduci della Repubblica di Salò, questi vecchietti un po’ patetici, però arzilli; mi ricordo che entrai all’alba in casa di uno di loro, e quello scattò sull’attenti: ‘Dottore, quello che mi dispiace è che lei sicuramente sta eseguendo degli ordini di Berlinguer’…” (pag.59).
Di quella storia poi molto si è detto e scritto. Per lo più ha parlato chi non sapeva, mentre chi sapeva ha taciuto. Di sicuro c’è che un convoglio di una decina di automezzi della Guardia Forestale, con a bordo duecento uomini, arrivò a pochi metri dal centro di produzione Rai di via Teulada – uno dei primi obiettivi, assieme al ministero dell’Interno – quando arrivò improvvisamente l’ordine di tornare indietro.
Le indagini portano poco lontano: nessuno vuole credere all’ipotesi di un vero colpo di Stato; le indagini procedono svogliate, a singhiozzo, passano di mano da un magistrato a un altro; alla fine, nel 1984 la Corte di Appello emette una raffica di assoluzioni. “Io posso solo dire”, racconta Improta, “che dopo la scoperta del golpe, ci fu un tentativo di screditare quello che era stato l’operato della Polizia, specie da parte di Ordine Nuovo e di Avanguardia nazionale. La destra organizzò una manifestazione per dire che un poliziotto, che poi ero io, si era inventato tutto per la sua follia investigativa, perché era di sinistra” (pag. 60).
Facciamo un salto di dieci anni, la strage del 2 agosto alla stazione di Bologna, 85 persone uccise, duecento le ferite. Improta “vola” a Nizza, dove hanno individuato Marco Affaticato, un estremista nero che si presume possa dare notizie utili. Sulla strage ha poco o nulla da dire, ma aiuta gli inquirenti a ricostruire la mappa del terrorismo di destra nel Nord Italia. Una strage per la quale, nel 1995, dopo cinque processi, la Cassazione conferma gli ergastoli per due militanti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ritenuti gli esecutori materiali; con loro, rinviate a giudizio una cinquantina di persone, più o meno tutte assolte. Non però Licio Gelli, il patron della loggia massonica P2, Francesco Pazienza e due alti ufficiali del Sismi (il servizio segreto militare) per aver depistato le indagini. Una sentenza, quella nei confronti di Fioravanti e Mambro che viene accolta con scetticismo, a destra naturalmente, ma anche a sinistra. I giudici, infatti, non sanno indicare il movente della strage, i mandanti, i collegamenti tra gli autori del depistaggio e gli imputati che ne avrebbero beneficiato, e neppure il supporto logistico che avrebbe fornito l’esplosivo. E Impronta, che ne dice? “Secondo me non si può chiedere un ergastolo sulla base di indizi fondati su supposizioni Nelle nostre indagini, noi abbiamo voluto colpire l’intera destra eversiva, al cui interno eravamo certi che fosse stato progettato l’attentato. Così facendo, abbiamo ipotizzato contatti tra gruppi che, in effetti, non avevano mai operato insieme. Io stesso considero la nostra ricostruzione dello scenario della destra valido solo al 75 per cento, e non mi stupisce che possa aver tratto in inganno la Corte di Bologna. Ma noi facciamo i poliziotti, non i giudici. E in tutte le carte che ho letto, non ho mai visto un elemento chiaro di prova, o un indizio serio contro Fioravanti e la Mambro; qui non c’è nessuno che dica: io li ho visti, sono stati loro due a mettere la bomba”(pag. 120-121).
Insomma: dagli scontri di piazza a Genova nel ’60 per impedire il congresso del Msi, all’avviso di garanzia “recapitato” a Berlusconi nel 1994, nei giorni del vertice Onu di Napoli, si può dire che non vi sia episodio di cronaca degli ultimi quarant’anni su cui lo “sbirro” (che poi era un abile investigatore e uno di quei funzionari che lo Stato dovrebbe essere onorato di avere), non abbia indagato; al centro di casi clamorosi, è stato un testimone privilegiato degli anni più inquieti e tormentati della nostra storia. Anni difficili, vissuti con partecipazione e intensità, per poi morire il 28 gennaio 2002, stroncato da una breve, quanto implacabile, malattia. E’ un libro prezioso, questo di Corsini: ci rammenta cose, fatti, episodi, situazioni, di cui avevamo smarrito memoria; ce ne fa conoscere tante che si potevano forse intuire, ma che ignoravamo.
“Lo andai a trovare”, racconta Corsini, “che era in pensione da pochissimi giorni, e gli esposi la mia idea. Accettò, così come accettò il patto che gli avevo proposto: dire la verità, oppure tacere. Ha parlato per oltre 50 ore di registrazione. Man mano che il lavoro procedeva, con le ricerche in archivio e i nostri colloqui, mi sono reso conto che nella storia di Improta c’era molto più che la vicenda di uno straordinario poliziotto, sempre al centro dei casi giudiziari più clamorosi degli ultimi decenni…Nella sua biografia e nel suo curriculum, m’è parso di poter leggere, parallela e sovrapposta, l’evoluzione del costume, della società, della politica del nostro Paese”.
Ha fatto in tempo, Improta, prima di venir ucciso dalla malattia, a leggere la prima stesura del libro e ad apportarvi le poche correzioni che riteneva opportune. Una preoccupazione? Sì: “Che risultasse chiara”, racconta Corsini, “la sua innocenza nella vicenda giudiziaria di cui era stato vittima a Napoli, la sua determinazione nell’affrontarla a viso scoperto e a testa alta, la prostrazione per l’ingiustizia subita e per il tentativo di macchiare la sua onorabilità e la sua fedeltà di servitore dello Stato”.
Certamente lo “sbirro” non avrebbe gradito commiserazioni né essere compatito. “Non si è mai lamentato delle sue sofferenze, né del dolore”, dice Corsini. “Soltanto all’indomani dell’operazione chirurgica, purtroppo inutile, mi ha detto: Questo è un altro frutto di tutto il veleno che ho dovuto ingoiare”.
Non è la prima volta che ci è capitato di sentire e vedere casi in cui la sofferenza per una grave ingiustizia patita si somatizzava e trasformava in una grave, implacabile malattia fisica. E anche se in campo sanitario, la nostra ignoranza è a dir poco abissale, non abbiamo difficoltà a credere che vi sia una relazione causa-effetto di cui anche Improta è stato vittima. Una consapevolezza che rende ancora più melanconica la lettura di questo bel libro.
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