Le violenze contro le donne rappresentano purtroppo un fenomeno costante. Serve un maggiore riconoscimento delle strutture di supporto come i Centri Anti Violenza.
Un altro caso di femminicidio ha sconvolto, quest’estate, la zona del parmense. Un’altra brutta storia che ci porta a riflettere su un fenomeno grave e ancora tragicamente diffuso. Anastasia Rossi avrebbe compiuto 35 anni il prossimo novembre. Infermiera nell'ospedale Santa Maria di Borgotaro, dove viveva, la donna assassinata lo scorso 16 luglio lascia un figlio adolescente e un paese sconvolto, che ha dichiarato per lei il lutto cittadino.
A ucciderla, con un unico colpo esploso da un fucile da caccia regolarmente detenuto, è stato suo marito Franco Dellapina, quarantenne, che ha poi rivolto l’arma contro di sé togliendosi la vita. Una storia che segue il copione, spaventosamente affidabile, di ogni femminicidio: la separazione latente, il rifiuto dell’uomo di accettarla, l’escalation di violenza verbale e psicologica, fino all’aggressione fisica letale che spesso include, nello schema dell’omicidio/suicidio, anche la morte dell’aggressore. Il nome di Anastasia entra così a far parte di una lista fin troppo lunga, che nel primo semestre del 2020 contava già oltre 40 vittime.
Proprio partendo dal caso Rossi, il Coordinamento dei Centri antiviolenza dell'Emilia Romagna ha affermato: «Il dato costante in Italia e in Emilia Romagna è la violenza sistemica che colpisce le donne [...] è fondamentale che se ne parli in questi termini, abbandonando la narrazione di ogni violenza come un caso isolato o una “tragedia inaspettata”. Solo così sarà possibile produrre il cambiamento culturale e sociale necessario a superare la violenza di genere».
Nella Regione ER, questo femminicidio è il decimo negli ultimi 12 mesi. Volendo azzardare una media a partire da questi numeri, parliamo – in quello specifico territorio – di una donna ammazzata ogni 36 giorni; un dato perfino basso in confronto alla media nazionale ricavabile dai dati ISTAT del 2018 (gli ultimi disponibili), secondo i quali «in Italia ogni due giorni (circa) viene uccisa una donna». A questo dato allarmante vanno sommate le molteplici forme non letali di violenza e molestie che, stando alla stessa fonte, più di una donna su tre nel nostro Paese subisce nell’arco della sua vita.
Giovani e meno giovani, italiane e straniere, casalinghe o lavoratrici: scorrendo l’elenco dei nomi di queste donne, ricostruendo le loro storie, l’unico tratto che sembra accomunarle è aver preso la decisione di allontanarsi da un uomo – marito, fidanzato o ex – che la ritenesse “sua”.
Sebbene nel mondo anglosassone se ne registri l’utilizzo sin dall’Ottocento, il termine “femmicidio” (dall'inglese femicide) viene citato per la prima volta da una fonte ufficiale solo nel 2007, all’interno di una Risoluzione del Parlamento europeo. Per la criminologa e attivista femminista Diana E. H. Russell, recentemente scomparsa, che nel 1976 ne propose l’utilizzo per indicare l’assassinio di una donna “in quanto tale”, «il concetto di femmicidio [...] include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito o la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine».
Solo parzialmente diverso, il termine “femminicidio” (dallo spagnolo feminicidio) è usato per la prima volta nel 2004 dall'antropologa Marcela Lagarde in riferimento alla drammatica situazione delle donne in Messico. Partendo dalla realtà del suo Paese, in cui ancora oggi il fenomeno assume dimensioni impressionanti – si parla, lì, addirittura di 10 donne al giorno uccise da uomini – la studiosa messicana poneva l’attenzione in particolare su «l'impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l'uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa».
Quale che sia la definizione scelta, il punto sta nella specificità degli omicidi di donne compiuti in nome del preteso possesso esercitato nei loro confronti: se è vero infatti che non tutti gli assassinii di soggetti femminili (si pensi a una donna uccisa per motivi di eredità, o nell’ambito di una rapina) integrano un femminicidio, è vero anche che la maggior parte delle donne oggi uccise nel mondo risulta vittima di una violenza strettamente legata al suo ruolo familiare e sociale, che non a caso trova – il più delle volte – nell’aggressione fatale solo l’ultimo atto di una serie di comportamenti vessatori protrattisi nel tempo.
A livello internazionale il principale punto di riferimento, condiviso da 45 Paesi europei, è attualmente la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Nota come Convenzione di Istanbul, è stata approvata nel 2011 e recepita in Italia con la legge n. 119/2013 che positivamente prevede, tra l’altro, l’accesso al gratuito patrocinio per le persone offese e la nuova misura dell’allontanamento d'urgenza dalla casa familiare (introdotta con l’art. 384 bis c.p.p.) applicabile all’aggressore.
Una rinnovata attenzione sociale e mediatica al tema della violenza di genere aveva già portato il nostro Paese a prevedere nuove fattispecie penali (è il caso del reato di atti persecutori – c.d. stalking – di cui all'art. 612 bis, introdotto dal d.l. n. 11/2009, convertito in L. n. 38/2009) come pure, in tempi più recenti, a semplificare protocolli e procedure di supporto alla donna vittima di violenze. È questo lo scopo dichiarato dal c.d. “Codice Rosso”, L. n. 69/2019, che inasprisce le pene per violazione di provvedimenti di allontanamento dalla vittima di violenze velocizzando la procedura per la loro emanazione e inoltre disciplina, con il nuovo art. 612 ter c.p., la fattispecie della “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (c.d. Revenge Porn). Va tuttavia rilevato come le nuove previsioni non siano assistite dallo stanziamento di fondi dedicati, lasciando così aperto il problema della loro attuazione in concreto e soprattutto della disparità di trattamento nei vari territori, che rischiano di trovarsi a offrire differenti livelli di tutela in base alla discrezionalità delle amministrazioni locali.
Tornando alla convenzione di Istanbul, nel primo rapporto sulla sua attuazione in Italia, pubblicato all’inizio del 2020, il gruppo di esperti del Consiglio d’Europa per la lotta contro la violenza nei confronti delle donne (GREVIO), pur registrando con favore le innovazioni legislative in materia, esorta le autorità italiane ad adottare ulteriori e più incisive misure per garantire alla normativa internazionale piena esecuzione nel territorio italiano: a riprova di come lo strumento giuridico, pur imprescindibile, non sia di per sé sufficiente a contenere un problema tanto diffuso e complesso.
La “Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere” è stata istituita con deliberazione del Senato della Repubblica all’inizio del 2017 e ha presentato la propria relazione finale poco più di un anno dopo, il 5 marzo 2018.
Strutturata come un report che include i dati aggregati dei casi trattati da procure, tribunali e Corti di Appello nel quinquienno 2011/2016, la Relazione, dopo aver ricostruito il quadro normativo e fattuale di riferimento, riserva ampio spazio alle iniziative messe in campo da Polizia di Stato e Arma dei carabinieri, come anche dagli enti locali, per prevenire e contrastare la violenza di genere in Italia; il capitolo conclusivo descrive le prospettive di riforma auspicate, citando la formazione degli operatori (delle Forze dell’Ordine ma non solo) e la necessità di un cambiamento culturale per consentire alle nuove generazioni di affrancarsi dalle dinamiche relazionali che attualmente includono, troppo spesso, le variabili del controllo e della sopraffazione.
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