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Luglio-Agosto/2005 - Contributi
Il ritratto del capo
di Innocente Carbone del Direttivo nazionale Siulp

Nessuno ne parla, ma non è una leggenda metropolitana quella delle staffette partite da tutta Italia per ritirare i ritratti del Capo della Polizia da affiggere negli uffici dei dirigenti dell’Amministrazione della Ps.
Soldi e risorse spesi per la stampa ed il ritiro di una icona salvifica la cui esposizione non è poi avvenuta per una serie di ragioni rimaste ignote e misteriose stuzzicando così la fantasia di una pletora di esegeti che si sono scatenati in una serie di interpretazioni completamente differenti per riguardo, vivacità d’ingegno, deferenza, arguzia, devozione e senso dell’humor; ma a prescindere dalla possibilità che il ripensamento tanto improvviso quanto inatteso possa essere attribuito alla infelice intonazione della cravatta, o al consiglio disinteressato di qualche “sincero amico”, un quadro impietoso e desolante ha ricavato chi ha teso le orecchie per raccogliere con tipica impertinenza provinciale, ovviamente negli ambienti che contano, le reazioni più significative rispetto alla vicenda del ritratto.
Così, accanto a chi si doleva di non aver avuto neppure il tempo di ritirare il ritratto c’era anche chi malediva se stesso per la fretta con cui lo aveva fatto incorniciare rimettendoci anche di tasca.
C’è stato, però, anche chi si è lamentato per non essere stato incluso tra i destinatari e chi invece ha espresso sollievo per essere stato affrancato dalla necessità di riordinare e riposizionare il pataccame murario del proprio ufficio. Ma cosa c’è dietro all’idea di esporre accanto al crocefisso ed al ritratto del Presidente quello del “Direttore generale”?
L’archetipo va ricercato nell’armamentario e nella tradizione militare, ove insiste una specificità organizzativa basata ancora sui principi e sulle intuizioni di Federico il Grande di Prussia, il primo eminente teorico dell’organizzazione militare, colui che, beninteso, inventò l’uniforme e teorizzò l’esigenza di vestire in maniera diversa i superiori in modo da renderli ben visibili anche a distanza, di guisa che la truppa potesse temerli “almeno quanto il nemico”.
Tuttavia, essendo il ritratto che ci occupa privo di fregi, decorazioni e simbologie marziali chi ha pensato di farlo esporre ha rischiato inconsapevolmente di materializzare una delle più evidenti metafore del dominio, graduabile nelle sue varianti più degenerative sino a quella del culto della personalità. I culti della personalità sono un efficace strumento per elevare a mito la reputazione di un singolo leader, spesso caratterizzato come “liberatore” o “salvatore” del popolo...
Caratterizzano di norma gli Stati totalitari ove le immagini del capo appaiono ovunque, così come statue e altri monumenti innalzati alla sua grandezza e saggezza. Slogan del capo ricoprono enormi cartelloni, e libri contenenti i discorsi e gli scritti del capo riempiono le biblioteche e le librerie. Il livello di adulazione può raggiungere vette assurde e grottesche sino a far apparire questi capi onniscienti e semidivini, destinati a rimanere tali per l’eternità.
Per giustificare questi livelli di adorazione, i diretti interessati si sforzano generalmente di presentare loro stessi come persone umili e modeste. Il più famoso tra i culti della personalità fittizi è probabilmente quello del Grande Fratello nel romanzo 1984 di George Orwell.
Tuttavia non è da sottacere l’esistenza di una diversa scuola di pensiero che non annovera al momento molti seguaci tra le sue fila. E’ composta da coloro che ritengono che il mito si coltivi più seriamente non apparendo.
Senza scomodare Mina e Lucio Battisti, basterà ricordare che nel regime dei Khmer rossi in Cambogia ed in quello teocratico Talebano dell’Afghanistan i capi rimasero fondamentalmente anonimi.
E’ inutile che confessi la mia personale propensione e simpatia per coloro che aderiscono alla seconda tipologia di magistero. Ovviamente la considerazione che ho per Mina e Battisti è altrettanto grande all’orrore che provo per i regimi Khmer e Talebano.
Via dunque questi ritratti e speriamo che non se ne parli più.
Nessuno ci aveva sinora provato e chi lo ha fatto ha stabilito un infelicissimo primato. L’idea in sé, un po’ goffa e un po’ imbarazzante, non sembra la base per un roseo futuro dell’istituzione alla quale apparteniamo. Preferiamo pensare di essere parte di un sodalizio pubblico trasparente regolato dalle leggi della nostra Repubblica, un luogo che non può essere un rifugio per introversi con difficoltà di relazione ma neppure una zona franca per le esercitazioni dei narcisisti più spinti e sfrontati.
Come ha scritto il dottor Sam Vaknin in Malignant self love: Narcissism revisited, “le grandiose illusioni e le fantasie di onniscienza e onnipotenza del narcisista vengono esacerbate dalla sua autorità nella vita reale”.
Narcisismo, burocrazia e potere formano un disdicevole cocktail esplosivo e solo dei sicofanti e degli yes-men incalliti possono sopravvivere in una corte in cui sono all’opera queste dinamiche.

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