Intervista al magistrato Stefano Dambruoso,
esperto all’Onu di lotta alla droga
e al terrorismo, sulla presenza di cellule
integraliste e sui rischi di attentati nel nostro
Paese, alla luce della nuova offensiva
dell’estremismo islamico
Dottor Dambruoso, lei ha lanciato molti allarmi in più di una occasione sul pericolo, anche per l’Europa, del terrorismo di matrice islamica. Come giudica ora la situazione che si è determinata con l’attentato di Londra?
Mai nessun allarme è stato lanciato da me, è soltanto la constatazione di un fenomeno che è presente in Europa da più di dieci anni. Anche in Italia, in questi ultimi dieci anni, in varie indagini, sono stati individuati importanti membri di queste cellule, soprattutto a Milano e nei dintorni. Quindi i fatti di Londra confermano che, purtroppo, non possiamo considerarci fuori dal pericolo.
E’ vero quello che hanno scritto alcuni giornali sull’Italia, utilizzata come base per la preparazione di attentati e che i terroristi di Londra erano passati anche dall’Italia? Anche il nostro Paese è a rischio?
Che i terroristi di Londra siano passati dall’Italia non sò chi lo abbia detto, ma mi sempra, per il momento, una congettura. Noi possiamo essere a rischio come altri paesi, né più né meno.
Sempre per quanto riguarda l’Italia, possiamo ricordare gli arresti che ci sono stati prima dell’attentato di Londra e della prima applicazione del mandato d’arresto europeo. Quali sono le sue considerazioni?
E’ stata la prima volta che, in indagini di terrorismo, è stata chiesta l’estradizione di un soggetto tunisino da un paese europeo che ha sottoscritto la convenzione sul mandato di arresto europeo; in realtà i fatti erano precedenti a questa convenzione per cui ci sono dei problemi di natura tecnica; di fatto è importante che in materia di terrorismo internazionale sia stato utilizzato uno strumento che mirava proprio ad agevolare la cooperazione internazionale e proprio in questo tipo di indagini che ha intrinsecamente una natura che va oltre il confine nazionale. Per cui va sottolineata l’importanza dell’applicazione di questo strumento che, una volta diventato di uso quotidiano in questo tipo di indagini, manifesterà indubbiamente il suo enorme valore. Altro aspetto importante dell’indagine è che ha valorizzato le prime dichiarazioni di un cosiddetto collaboratore di giustizia, a cui è stato riconosciuto un programma di protezione, e che quindi ha aperto uno squarcio, per la prima volta in dieci anni di storia di indagini sul nuovo terrorismo di matrice islamica in Italia, dall’interno della vita quotidiana associativa di questi gruppi criminali. Anche questo è un fatto di grande novità che consente di essere ottimisti sull’utilizzo di strumenti, già a disposizione nella nostra legislazione, per poter combattere efficacemente il fenomeno.
Pensa che l’episodio di questo pentito possa ripetersi?
Sicuramente, la collaborazione di un soggetto da un lato preoccupa per possibili ritorsioni nei confronti di quel soggetto o dei familiari: quindi si pensa predisporre tutti gli strumenti per proteggerlo; dall’altro lato invece davvero è un segnale che lancia messaggi, a soggetti che non conoscono qual è la storia giudiziaria del nostro Paese, per cui vedono che si può applicare uno strumento anche nei loro confronti e che le istituzioni che le applicano non ti tradiscono; loro sono abituati ad avere a che fare con culture repressive, servizi segreti o di Polizia dei propri paesi, che non hanno sicuramente un rapporto “fiduciario” con loro, ma un rapporto basato su metodi per noi inaccettabili, per cui vedersi riconosciute, una volta che parlano, delle premialità giudiziarie è un fatto di enorme importanza che davvero, secondo me, attesta la lealtà di istituzioni, come quelle italiane che hanno già nel proprio bagaglio giudiziario e legislativo questo tipo di strumenti, e che quindi consentirà in futuro, secondo me, davvero di avere fatti emulativi importanti.
Il ceppo marocchino, che si è evindenziato anche dalle cronache, è una cosa importante o una suggestione?
Gli analisti più accreditati, i nostri ma anche quelli europei, riconoscono che effettivamente l’ultimo ceppo che preoccupa di più l’attivismo odierno sul territorio europeo, è prevalentemente quello di matrice marocchina. Dal Marocco sono giunti in Europa personaggi di spicco che già si sono resi autori di fatti gravi. A questa area marocchina sono attribuiti gli ultimi due episodi importanti accaduti in Europa: l’11 maggio del 2004 a Madrid e – in parte- l’omicidio di Van Gogh in Olanda. Molti leaders marocchini vengono individuati tra i più attivi nelle cellule, purtroppo ancora oggi, molto operative nelle città europee. Quindi grande preoccupazione proprio nei confronti di questo tipo di personaggi.
Sull’Iraq può dire qualcosa rispetto alla situazione che si è determinata? Anche per gli avvenimenti che si sono susseguiti o sono tutti filoni che non hanno a che fare direttamente con le indagini in corso?
Alla luce delle ultime indagini, devo dire che davvero l’Iraq è un po’ fuori. Perché si tratta di una valorizzazione di dichiarazioni su fatti che si svolsero nel 2001, data in cui viene arrestato il collaboratore di giustizia e che quindi non tengono in considerazione tutta l’evoluzione storica che c’è stata successivamente.
Nell’intervista precedente che ha rilasciato al nostro giornale, ci ha spiegato cosa significa essere un Paese crocevia e anche il perché non ci sono stati, per fortuna, degli attentati (anche perché l’intelligence e la magistratura sono riuscite a sventarli). Ripete lo stesso giudizio?
Lo ripeto e anzi sono convinto che l’Italia è e rimanga un paese di crocevia. Le ultime indagini che hanno portato all’arresto di un importante esponente della cellula marocchina che ha commesso i fatti di Madrid, arrestato a Milano (Rabei, al momento estradato in Spagna per subire il processo in Spagna per i fatti di Madrid), confermano che l’Italia è un territorio che resta pieno di soggettività, ma anche di logistica tale da consentire, per esempio, la latitanza di soggetti di questo calibro.
Quindi, c’è un humus tutto da scoprire che ovviamente preoccupa gli apparati di prevenzione; non bisogna cadere in inutili allarmismi, però anche non sottovalutare questo aspetto. Non possiamo permetterci momenti di rilassatezza per assenza di episodi delittuosi in Italia, come i grandi attentati, come un fatto sintomatico che ci porti a ritenere che il terrorismo islamico non sia di casa in Italia. Alcune recenti sentenze sembrano aver, per certi versi, considerato questo aspetto, laddove non sono riusciti a valorizzare la proiezione internazionalistica di fatti che accadono sul nostro territorio.
E’ un fenomeno nuovo il terrorismo internazionale; va affrontato non solo con strumenti operativi nuovi, ma con un approccio culturale nuovo. Il massimo rispetto per chi ha deciso di mandare assolti dal reato di associazione al terrorismo tutte quelle persone che erano state indagate, però lamento, dal punto di vista dell’accusa, un approccio nelle decisioni - ripeto - di cultura giuridica che non è riuscita a cogliere la novità del fenomeno.
Questo non ce lo possiamo permettere, a mio parere. Ripeto, massimo rispetto per la sentenza, ma dal punto di vista dell’accusa, un’accusa che ha già proposto appello contro questo tipo di sentenze, non può non essere sottolineato che bisogna cogliere aspetti che sono nuovi.
Quale la differenza tra guerriglia e terrorismo, che mi pare sia stata utilizzata proprio in quella sentenza?
Io non la condivido pur manifestando il massimo rispetto per la decisione; ma ritengo che tali concetti mandino dei messaggi a chi opera sul campo - Polizia, Carabinieri e la stessa magistratura inquirente - abbastanza fuorvianti, perché è difficile nel corso delle indagini, quando intercetti soggetti che parlano di atti violenti da compiere in altro territorio rispetto a quello dello Stato, riconoscere dei guerriglieri in via empirica. Questi soggetti erano pronti a supportare, non soltanto pseudo gruppi nazionalisti in un paese che aveva già un governo legittimo riconosciuto dall’Onu in Iraq, subito dopo che era caduto Saddam, ma hanno supportato l’azione di veri e propri terroristi contro, per esempio, organizzazioni internazionali come quella delle Nazioni Unite, come partiti politici regolarmente attivi dopo la caduta di Saddam; quindi contro obiettivi che rappresentavano non un esercito nemico invasore, ma strutture di una nascente nuova società fondata su criteri diversi rispetto a quelli di Saddam.
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