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Luglio-Agosto/2005 - Articoli e Inchieste
Società
Burocrazia, un mostro mangiatutto?
di Alberto Madricardo

Breve storia dell’organizzazione delle cose
pubbliche. Pregi e difetti di un sistema
che pervade gli Stati, ma anche le organizzazioni
e le istituzioni estranee all’Amministrazione.
Ecco quello che pensano i sociologi
e quello che succede nella realtà quotidiana


I giornali ne parlano, ne denunciano continuamente le nefandezze. Per molti è come una maledizione, una minaccia e un incubo della vita quotidiana. E’ dipinta come un Moloch che tutto divora, prima le anime degli individui che ne fanno parte e poi le risorse, la vitalità, la creatività sociale, “una delle formazioni sociali più difficilmente abbattibili”, secondo Max Weber. E’ la burocrazia.
Come è stato possibile che la società si sia costruita questa trappola così soffocante con le sue stesse mani?
La burocrazia non è nata ieri. Nei secoli le competenze degli stati si sono moltiplicate, e con esse anche sono cresciuti gli apparati amministrativi. Un salto decisivo si è avuto con lo sviluppo della società di massa, con la crescita esponenziale della domanda di servizi pubblici, con la creazione dello stato sociale. Questi processi hanno fatto aumentare enormemente nel corso del Novecento l’articolazione dell’amministrazione pubblica negli ambiti della finanza, della sanità, della istruzione, della sicurezza, ecc.
C’è chi vede in questo il segno di una irreversibile trasformazione della società umana in alveare o formicaio, e conduce una lotta senza quartiere contro questo esito da incubo della civiltà.
La burocrazia soffoca le iniziative, assorbe le risorse, rende difficili gli investimenti e ritarda lo sviluppo - si dice. Non ha cuore, né sentimenti. Un mondo lunare, astratto che funziona in base a norme e regolamenti che sono stati pensati al di fuori delle condizioni e circostanze concrete della vita, che si sovrappone e schiaccia il mondo reale. L’individualità, la autonoma decisione, l’esercizio della responsabilità dei singoli, nell’organismo burocratico sono alienati, trasformati in rotelle di un meccanismo cieco. Ma che cosa significa esattamente “burocrazia”? La parola nasce dall’accoppiamento di due termini di origine molto diversa: il francese bureau = scrivania, che è la deformazione del termine tardo latino “bura”, la stoffa grezza che veniva usata per foderare le scrivanie, e il greco kràtos, che vuol dire potere. Starebbe a significare il “potere degli uffici”, cioè dei funzionari, degli amministratori.
Il termine è nato nel secolo XVIII, quando in Europa si erano già consolidati gli apparati dello stato moderno. Ma già nel secolo XVI Jean Bodin, il grande teorico della politica, parlava del potere dei funzionari nei confronti stessi del potere sovrano. Del resto, la politica di potenza delle monarchie europee fin dal quattordicesimo e quindicesimo secolo aveva loro imposto di dotarsi di eserciti permanenti da esse direttamente retribuiti. Questo rendeva necessario il reperimento di imponenti risorse finanziarie. Tale funzione di raccolta e di amministrazione poteva essere svolta solo grazie alla formazione di strutture dirette da uomini di fiducia dei sovrani. Questi funzionari, grazie alla loro esperienza e conoscenze, acquisivano un potere di fatto spesso grandissimo.
Alexis de Toqueville ha mostrato come la burocrazia fosse effetto in Francia della lotta della dinastia dei Borboni per ridurre l’autonomia dei grandi vassalli feudali e subordinarli al potere monarchico. Ed in effetti una delle patrie d’origine della moderna burocrazia è proprio la Francia, dove la tradizione “statalista” si è più profondamente affermata.
Il " fonctionnaire " francese, lo "Staatsbeamte " austriaco o tedesco sono tipi umani artificiali, nati nel corso di secoli come una nuova specie umana in un mondo parallelo e speculare a quello reale. Godevano un tempo di un certo prestigio sociale. La loro fama di efficienza e di probità contribuiva al prestigio dello stato e all’attaccamento dei cittadini alla cosa pubblica.
Di fronte alla massa dei comuni mortali, dediti ai loro affari privati, il pubblico funzionario opera per il“bene comune”. Egli è un uomo del governo, e il governo “è la totalità reale avente potere, che è indifferente riguardo alle parti”. Perciò da lui “il servizio pubblico esige il sacrificio dell’appagamento autonomo e discrezionale dei fini soggettivi”. Così Hegel, teorico dello stato prussiano, esalta la figura del “servitore dello stato”, dedito al bene pubblico, per questo al di sopra degli altri cittadini.
La Amministrazione pubblica ha sviluppato una sua tradizione di dignità e di prestigio, in diversi paesi, in particolare in Francia. I Giapponesi, dopo una lunga riflessione all’interno della loro classe dirigente, che produsse sul piano politico la cosiddetta “restaurazione Meiji” negli anni sessanta dell’Ottocento, decisero finalmente di imboccare la via della modernizzazione all’occidentale e del capitalismo, comprendendo che l’alternativa al parteciparvi era solo il subirla. Consapevoli che per un certo tempo, avrebbero dovuto solo imparare, mandarono i loro incaricati in Inghilterra a studiare il sistema industriale, in Germania, ad apprendere come si crea un esercito moderno, e in Francia, per imparare ad organizzare una burocrazia. E L’Ecole Normale Supérieure di Parigi, creata da Napoleone, ha sfornato generazioni di burocrati di buono o ottimo livello per la pubblica amministrazione francese, alcuni dei quali sono stati anche intellettuali di rilievo europeo.
Ma fin da dopo il Concilio di Trento la Chiesa era stata organizzata sulla base di un rigido principio gerarchico e burocratico che le consente di mantenere ancora oggi un apparato centralizzato, diffuso nelle diverse parti del mondo. Un danno per l’Italia – pensava Gramsci – è stato di avere per secoli le sue migliori energie intellettuali assorbite da una burocrazia cosmopolita, quale è quella del clero cattolico, piuttosto che da una burocrazia nazionale italiana, come è avvenuto invece - appunto - in Francia e in altri paesi europei.
Per andare ancora più indietro nel tempo, la crisi dello stato romano fu dovuta almeno in parte anche ai processi di “burocratizzazione” che diventano più evidenti e quasi inarrestabili nel terzo secolo, in seguito alla riforma di Diocleziano e in connessione all’accentuarsi della crisi economica.
La burocrazia è fenomeno conosciuto anche fuori d’Europa. Esisteva in Cina, in Mesopotamia, in Egitto. Nei grandi imperi che dovevano amministrare territori immensi e grandi popolazioni. In Cina, per esempio, il Confucianesimo può essere considerato come la filosofia classica della burocrazia imperiale.
Ma mai come in Europa la burocrazia è diventata un problema. Forse perché fin dal secolo XVIII si è sviluppato un pensiero, in particolare con J.J. Rousseau, che esaltava una condizione “naturale” opposta a quella “artificiale” creata dalla civiltà.
La questione è stata al centro della riflessione teorica e della polemica politica del Novecento. Nell’esperienza del socialismo sovietico morto – come si sa - per soffocamento burocratico, la questione della burocrazia fu assillante fin dalla sua origine. Trotzkij, negli anni Venti condusse la sua lotta politica contro Stalin denunciando il pericolo della formazione, nel nuovo “stato dei consigli” (soviet) - che avrebbe dovuto essere il più grande esperimento di democrazia diretta della storia dell’umanità - di una “burocrazia” dominata da un nuovo ceto di potere cresciuto nella amministrazioni e nello stesso partito bolscevico. Trotzkij dovette fuggire dall’Unione Sovietica e venne poi assassinato da un sicario di Stalin.
Negli anni Settanta del secolo appena trascorso un’ondata neoliberista, antistatalista e antiburocratica ha investito il mondo intero. Talvolta questa polemica mirava anche ad altri bersagli: intendeva indebolire la realtà statale nazionale in quanto tale, disarticolarla, per affermare la logica delle “piccole patrie”, o screditare il “pubblico”, inteso come l’insieme delle regole e degli strumenti che servono a mantenere un certo ordine nelle società ed impediscono che essa si trasformi in una jungla in cui il più forte può farla liberamente da padrone. Ma è difficile pensare ad una società armonizzata senza un sistema che intervenga in base a criteri e per finalità di ordine generale, per correggere le tendenze spontanee alla polarizzazione e alla frammentazione sociale.
Perfino un sostenitore convinto del liberismo, come Ludwig von Mises, riconosce che “nessuna riforma potrebbe trasformare un pubblico servizio in una specie di impresa privata (…) ciò che realizza una pubblica amministrazione non può essere valutato in termini monetari”. L’efficienza dell’impresa si stabilisce sulla base della sua capacità di creare profitto. Non quella della burocrazia: un commissariato di polizia di un quartiere non crea profitto, ma un bene tanto importante quanto difficile da misurare: il senso di sicurezza dei cittadini di quel quartiere.
“L’assenza di criteri in grado di accertare in modo irrefutabile il successo o l’insuccesso di un funzionario nell’esecuzione dei suoi doveri - afferma von Mises - crea problemi insolubili. Essa annienta l’ambizione, distrugge lo spirito d’iniziativa, e qualsiasi incentivazione a fare più del minimo richiesto. Essa spinge il burocrate a porre attenzione alle circolari e non al successo tangibile e reale”.
Questa affermazione ha certamente un fondamento, ma non credo possa essere accettata senza riserve. Intanto il pericolo burocratico non riguarda solo “il pubblico”. Può colpire anche i partiti, i sindacati, le chiese, le associazioni, le imprese private, specie se grandi, ecc. E poi non tutte le situazioni sono uguali: c’è burocrazia e burocrazia. C’è un nesso tra burocratismo e arretratezza civile e sociale. Il burocratismo ne è insieme effetto e causa.
Il singolo, per quanto “burocrate”, non vive fuori del mondo. La sua disaffezione dal suo lavoro, all’origine della degenerazione burocratica, si produce certo per ragioni particolari e perfino caratteriali, ma può essere più o meno favorito dal contesto. Quando il “capitale sociale” di una società (il comune rispetto delle regole, lo spirito di collaborazione, la fiducia reciproca tra i cittadini, l’alta considerazione della cosa pubblica) è stato impoverito o dilapidato, il singolo, per questo, se non ha una straordinaria motivazione personale, fa “come fanno tutti”. Si chiude in se stesso, nella sfiducia che il suo impegno “serva a qualcosa” , e bada solo a proteggersi.
Quando il “capitale sociale” di una comunità è grande, quando le strutture amministrative che ne fanno parte operano immerse in una società che si sente accomunata da grandi obiettivi, che è al suo interno coesa e solidale, allora il singolo si sente incentivato ad operare bene, se non altro per non sfigurare davanti agli altri. In un certo senso “ogni società ha la burocrazia di cui è capace e che si merita”. Contrariamente a quanto ritiene una certa rozza cultura antipubblica e “antipolitica”, difficilmente vizi pubblici derivano da altro che da vizi privati.
La burocrazia, tanto più degenera,tanto più tende ad isolarsi dal contesto, avere un suo linguaggio, difficile ed esclusivo, un “idioletto” fatto apposta per rendere meno trasparente la comunicazione e mettere il cittadino medio in una posizione psicologica di inferiorità. Divertente nella sua emblematicità è, a questo proposito, il celebre episodio narrato da Manzoni nei Promessi Sposi, del dialogo tra Don Abbondio e Renzo. Quando quest’ultimo va a chiedere al curato di fissare la data della celebrazione delle sue nozze con Lucia, il prete gli risponde con un discorso vago, alla maniera tipica dei burocrati. Renzo lo incalza, e allora Don Abbondio, allude genericamente a “richieste dei superiori”, a necessità di un “supplemento di verifica” sugli sposi, e ricorre infine alla citazione in latino ( “ordo, cognatio, causa...”), recita una norma del diritto canonico, solo per intimorire il suo interlocutore. Ogni burocrazia ha il suo “latinorum”.
La burocrazia non ha formalmente potere. Il suo compito è di eseguire. Il potere decisionale sta altrove, è della politica. Ma la burocrazia ha in realtà un potere discrezionale sui tempi e sulle modalità di esecuzione: può rallentare o accelerare il disbrigo di una pratica, di una concessione, di un permesso, rendere tutto complicato, scoraggiare investimenti ed attività produttive. Può perfino far fallire una riforma con la resistenza passiva. Può rendere la vita più difficile ai cittadini, alle imprese, abbassare o innalzare la qualità della vita; in un paese dove per qualsiasi cosa bisogna fare code e perdere ore, se non giorni, in attesa per qualsiasi cosa, certo non si vive bene.
Si può evitare il pericolo del burocratismo? Si può almeno ridurlo, ridimensionarlo. Ma il mugugno, la polemica fine a se stessa servono a poco. Prima di tutto bisogna essere consapevoli che questo non è un problema di poco conto: è una delle grandi sfide che ogni paese si trova davanti e deve essere in grado di risolvere per il suo sviluppo. Burocratismo ed arretratezza costituiscono insieme un circolo vizioso. Per romperlo si richiede una cultura e una mentalità aperte, ampia capacità di visione politica e spirito pratico.
Non credo esista una ricetta unica per fare fronte ai rischi di degenerazione burocratica. In un certo senso in ogni paese lo stato della burocrazia è in buona parte espressione dell’etica pubblica che vi domina.
Quando brontoliamo contro la burocrazia dobbiamo anche chiederci quanto abbiamo fatto noi, personalmente, per rinforzare il senso etico comune, il grado di identificazione dei cittadini con l’interesse generale, rispettando le regole, pagando le tasse, ecc. Perché la degenerazione burocratica è effetto dello scollamento sociale, un’onda di risacca che ci riporta, tutte insieme, tradotta in inefficienza complessiva del sistema, le nostre carenze civili, le nostre individuali inadempienze. C’è chi cerca di cavalcare strumentalmente l’onda del risentimento antiburocratico, ma è vero che bisogna tenere alta la guardia, non rassegnarsi a che le cose vadano “come sono sempre andate”. L’intero “sistema paese” ha bisogno di un’amministrazione efficiente, di una sanità che funziona, di una istruzione pubblica capace di formare cittadini colti, di una Polizia all’altezza dei problemi dell’ordine pubblico. Ne hanno bisogno tutti, i ceti e le categorie meno ricchi, ma anche gli imprenditori, i professionisti. E’ vero che i ricchi possono pagarsi i servizi privati, ma è vero anche che in paesi dove l’amministrazione dello stato funziona male e gli squilibri sono anche per questo più accentuati si vive tutti peggio, con più paure, più insicurezza.
La deformazione burocratica ha una delle sue cause principali nella natura complicata e farraginosa delle regole, nella cattiva organizzazione, nell’eccessiva gerarchizzazione, nel conformismo e nella scarsa comunicazione interne, nella chiusura all’esterno. Questo dipende dalla responsabilità politica. In Italia esiste una mole enorme di leggi e regolamenti, è stato calcolato di circa quattro volte la media europea.
Altri effetti negativi hanno origine direttamente all’interno delle strutture: autoritarismo, monotonia del lavoro, deresponsabilizzazione degli individui, mancanza di chiarezza e di condivisione degli obiettivi, scarsa soddisfazione nel lavoro producono effetti di inefficienza, distacco dalla realtà, parassitismo.
In certi organismi come chiese, partiti, sindacati può essere anche l’esaurimento della spinta ideale originaria a far prevalere le tendenze disgreganti, l’affermazione dei piccoli interessi di categoria o di casta. Quando gli ideali si spengono restano i loro scheletri: le burocrazie.
Perciò conta moltissimo la chiarezza degli obiettivi, la possibilità della loro verifica e soprattutto dell’autocorrezione, lo spirito di collaborazione, la fluidità della comunicazione e del dialogo con l’esterno. Una organizzazione che è capace di valutare i propri risultati, di correggersi e di migliorarsi più difficilmente cade nella routine e i suoi membri nella frustrazione. E’ perciò essenziale mantenere vivo il senso degli scopi che si perseguono e la certezza della congruenza ad essi dei comportamenti, fare crescere anche, attraverso i successi, lo “spirito di corpo”, che non va confuso con lo spirito corporativo, arroccato nella difesa degli interessi particolari e incapace di ammettere gli errori.
Ogni organizzazione umana degenera allorché al suo interno viene perduto il senso delle ragioni generali che la fanno esistere. In questo caso essa si distacca dal resto del mondo e si trasforma in un corpo separato, in un organismo autoreferenziale che ha come unico scopo e si limita a riprodurre se stesso. La degenerazione dell’organizzazione si riflette a sua volta sugli individui, i quali, a meno che non siano dotati di una motivazione personale straordinaria, si adeguano, rinunciano a capire, tendono ad operare macchinalmente, riducendo al minimo il loro sforzo. Si rassegnano a navigare a basso regime, fanno quello che è richiesto, senza fretta, e nient’altro.
Il “burocrate” puro non esiste in natura, è prodotto di un lungo processo di spegnimento dell’individuo, che può durare molti anni o anche tutto il tempo della sua carriera. C’è prima un lento logoramento della volontà di fare, delle sue aspirazioni. Poi ad un certo punto qualcosa gli si spezza dentro, ed egli è pronto per diventare un burocrate. Ci sono quelli che si arrendono prima, quelli che si arrendono dopo e quelli che non si arrendono mai. Per lo più questi non fanno carriera, o la fanno con maggiore difficoltà.
Il burocrate compiuto è dotato di quella che Lord Brummel riteneva essere la qualità principale dell’uomo veramente elegante: non farsi notare. Una presenza discreta, il saper esserci e non esserci secondo i momenti; parlare e tacere, ma più tacere che parlare. Il burocrate non conosce apparentemente passione. Assume dalla organizzazione di cui fa parte quell’atteggiamento impersonale, quel modo di agire macchinale, “sine ira ac studio”, che caratterizza la struttura. Il suo fine è stare a galla. Pare che sia libero dall’angoscia del tempo che caratterizza i comuni mortali, che i suoi ritmi siano fatti per l’eternità.
Dall’esterno può sembrare un saggio. Ma se si potesse scrutargli sotto l’apparenza, si sarebbe sorpresi dal costatare quanto forte è in lui il ribollire delle passioni. E’ normale che si senta sottovalutato, incompreso, bistrattato, che covi odi e rancori che possono durare una vita. Si concede qualche vendetta, ma ben difficilmente si lascia vedere mentre lo fa. Tutto, anche la vendetta, passa tra le operazioni impersonali dell’ufficio. La sua vera essenza egli la rivela pienamente nel giorno dello sciopero bianco, che sa praticare benissimo, perché vi si esercita un poco ogni giorno. Ma non c’è da scandalizzarsi. Il burocrate è l’altra faccia della massificazione, dell’appiattimento degli individui nell’anonimato della folla metropolitana. Se non si è burocrati nel lavoro, si è conformisti nei consumi, nel gusto, nei rapporti, nei pensieri. Burocrate dello spirito è colui che si è rassegnato alla frana interiore della sua vita, che si accontenta di applicare continuamente, senza metterlo in discussione, un bagaglio cristallizzato di idee, di valori, di convinzioni, di abitudini.
La burocrazia è – come si dice – anche una categoria dello spirito. Il burocrate nella sua inumanità è assolutamente umano: nessuno può dire di non avere almeno una particella burocratica nella propria anima. Come certi filosofi antichi pensavano che gli atomi contenessero ciascuno in dosi diverse tutti insieme gli elementi della materia, ognuno di noi contiene dentro di sé in dosi diverse tutti gli elementi dello spirito umano. Ognuno è per una parte nobile cavaliere, per una parte poeta, per una parte traditore, forse, assassino, ecc. Per una parte, certamente, anche burocrate. Esploratori, navigatori e giramondo hanno scelto di fare una vita avventurosa proprio per sfuggire ad una inclinazione burocratica che sentivano dentro di sé. Perché nessuno è del tutto immune dalla tentazione rassicurante della stabilità, della quiete, della ripetizione della vita. Tutti devono lottare contro la tentazione del torpore.
A volte una vita abitudinaria e “burocratica” è la base stabile di cui la fantasia e il genio hanno bisogno per spiccare il volo. Emilio Salgari, che scriveva storie di pirati e di jungle misteriose d’Oriente, non si distaccò mai dalla sua vita di ufficio. La gente regolava gli orologi quando vedeva Immanuel Kant che usciva dal portone della sua casa per la passeggiata quotidiana.
L’uomo è un animale adattabile. Anche nelle situazioni più lontane da quella “naturale” di cacciatore nomade che vive alla giornata è capace di trovare un equilibrio, mettendo in atto personali strategie di compensazione. Se non vive pericolosamente lottando con le fiere nei boschi, nel caso peggiore lotta, con dispetti e fredde ripicche con superiori e colleghi; in quello migliore, evadendo, liberando la sua fantasia.
In ogni caso, l’antidoto più efficace contro la degenerazione burocratica è la trasparenza, la motivazione comune ed individuale, l’incoraggiamento dato alla creatività,allo spirito critico e all’impegno di tutte le risorse dei singoli, in modo che non siano costretti a “spegnersi” per sopravvivere nell’ambiente d’ufficio. Non è vero che l’uomo è per natura un animale pigro. Lo diventa, quando non può impiegare al meglio e con soddisfazione le sue energie. Allora usa la sua creatività per difendersi, per sopravvivere all’ambiente, per “far passare il tempo”.
In un romanzo di Robert Walser, “I fratelli Tanner”, il protagonista, impiegato di banca, nel momento in cui ha deciso di licenziarsi, rivolge al suo direttore un atto di accusa contro il burocratismo. Credo che si farebbe bene ad esporlo in tutti gli uffici. Alla fine della sua filippica il giovane ribelle dice al direttore: “Amo qualsiasi lavoro, tranne quelli che per essere praticati non richiedono tutte le energie disponibili”. Questo è il punto: al di là di tutti i danni che il burocratismo può fare alla società, quello più grave è di assopire e costringere gli individui a stare al di sotto di loro stessi.

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