Ogni volta che si torna a parlare dell’attentato a Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981, riemerge il caso di Emanuela Orlandi. La ragazza di 15 anni scomparsa nel tardo pomeriggio del 22 giugno 1983. Sono passati ventidue anni, e ancora, periodicamente, si riapre la scena di questa vicenda, con pretese rivelazioni, disinvolti scoop giornalistici, e malcelate voglie di protagonismo.
Figlia di Ercole Orlandi, un impiegato della Segreteria di Stato, cittadina vaticana, come i suoi genitori, e residente all’interno della Città Leonina, Emanuela frequentava il liceo scientifico, e nel pomeriggio una scuola di musica in piazza Santa Apollinare. Quel giorno la ragazza era arrivata in ritardo alla lezione di flauto, e alle 19 aveva telefonato alla sorella dicendole di avere incontrato il rappresentante di una ditta di cosmetici che le aveva proposto di presentare dei prodotti durante una sfilata. La sorella le aveva chiesto di non prendere impegni senza essersi prima consultata con i genitori. Finita la lezione, Emanuela era stata lasciata da una compagna di corso alla fermata dell’autobus. Poco dopo, un vigile urbano in servizio davanti al Senato l’aveva vista parlare con il conducente di una BMW nera, sulla quale forse era salita. Poi, più nulla, nessuna notizia certa. Sui muri della capitale erano stati affissi manifesti con la sua foto, il nome, numeri di telefono, invitando chiunque l’avesse vista, o comunque sapesse qualcosa, a mettersi in contatto o con la famiglia o con la polizia.
La sparizione della ragazza avviene mentre evolvono le manovre attorno alla “pista bulgara” per l’attentato di piazza S.Pietro, e vi si inserisce con forti connotazioni da “feuilleton noir”. Il 5 luglio gli Orlandi ricevono la prima telefonata anonima: Emanuela sarebbe prigioniera di un gruppo terroristico che chiede la scarcerazione di Alì Agca, senza altre indicazioni. Dopo una ventina di giorni a chiamare è un sedicente “Fronte di liberazione anticristiano Turkesh”. A distanza di giorni altre persone telefonano agli Orlandi; tra queste un uomo che si presenta come “l’americano”. Gli anonimi interlocutori danno informazioni su Emanuela, dicono che è viva, e affermano che sarà restituita solo se verrà liberato Alì Agca.
In casi del genere, l’ipotesi più logica è che si tratti di sciacallaggio telefonico, individui che non sanno nulla ma giocano sul dolore di una famiglia. Oppure, volendo prendere sul serio quegli appelli, a una forma di depistaggio. Ma qui è in ballo la “bulgarian connection”, e subito viene costruita una tesi ad hoc: i servizi segreti bulgari, o il Kgb, hanno rapito Emanuela e vogliono usarla come merce di scambio per far uscire dalla prigione il killer turco del quale sono i mandanti. Magari allo scopo di eliminarlo, per farlo tacere definitivamente. Certo, che uno scambio del genere sarebbe assolutamente impossibile da realizzare dovrebbe apparire evidente a chiunque non sia uno sciocco, o un demente; e non risulta che i servizi segreti bulgari e il Kgb (senza dubbio capaci, come i loro “colleghi” di altri Paesi, di compiere “razionalmente” delitti di ogni genere) rientrino in queste categorie. Del resto, Alì Agca coglie l’occasione per servirsi di questo caso e dare corpo alla sua sceneggiata: davanti alle telecamere grida che non vuole essere liberato, che lui è “con il Vaticano e con Emanuela”. Abbastanza efficace per il Tg della sera, ma poco concludente per quanto riguarda il fatto concreto: che cosa è avvenuto di Emanuela Orlandi ?
La scomparsa della ragazza viene collegata a quella, avvenuta due mesi dopo, di una sua coetanea, Mirella Gregori, ma neppure questa traccia si rivela minimamente utile. Così come non dà esito l’offerta di una ricompensa di due miliardi di lire. E allora, ci si chiede, Emanuela è stata rapita perché figlia di un impiegato del Vaticano, o è scomparsa per altre ragioni ? Legate, ad esempio, alla sua giovane età e alla sua avvenenza ? Periodicamente si registrano casi del genere, mai risolti. E, infine, dimenticati.
Ma il caso di Emanuela non sarà dimenticato. Non lo sarà, comprensibilmente, dalla famiglia, padre, madre e fratelli che continuano a credere, o a sperare, che sia viva in qualche parte del mondo, una convinzione che Ercole Orlandi manterrà fino alla sua morte, il 5 marzo 2004.
Durante il processo della “pista bulgara” Alì Agca aveva affermato che la giovane Orlandi “è stata rapita da agenti bulgari e dai Lupi Grigi”. Dieci anni dopo, nel 1995, asserisce che Emanuela è libera e vive in un convento di clausura. Nel luglio 1997 l’inchiesta sulla sparizione di Emanuela Orlandi viene chiusa, e i magistrati inquirenti esprimono “il fondato convincimento che il movente politico-terroristico costituisca in realtà un’abile operazione di dissimulazione dell’effettivo movente del rapimento”.
La mattina del 14 maggio 2001, il parroco della chiesa Gregorio VII, nei pressi del Vaticano, scopre in un confessionale un teschio umano: di piccole dimensioni, privo della mandibola, contenuto in una busta insieme a un’immagine di Padre Pio. Il macabro reperto deve essere stato lasciato lì il giorno precedente, il 13 maggio, ventesimo anniversario dell’attentato al Papa. Tanto basta per collegarlo al caso Orlandi, e per far nascere l’ipotesi che … Sì, insomma, potrebbe essere la prova che Emanuela è morta. O un messaggio. O uno scherzo di pessimo gusto. Il professor Francesco Bruno, criminologo, che interviene spesso (anche il televisione) sul caso Orlandi, esprime l’opinione che la ragazza sia morta poco dopo la sua scomparsa: “Il teschio è stato scelto con attenzione, perché o si tratta di quello di Emanuela, oppure deve ricordarlo”. Mentre, qualche mese prima del ritrovamento nella chiesa, Ferdinando Imposimato, ex giudice istruttore di una delle inchieste su Alì Agca (quella sul falso attentato a Lech Walesa), passato all’avvocatura e legale della famiglia Orlandi, aveva dichiarato:”Per quanto mi risulta da alcuni contatti avuti con esponenti dei Lupi Grigi in Svizzera, Emanuela Orlandi, che è ormai una donna, vive perfettamente integrata in una comunità islamica. Sicuramente è vissuta a lungo a Parigi”.
Infine, l’ultimo atto (finora) del giallo è dell’aprile-maggio 2004. Una fotoreporter scopre una “donna misteriosa” che somiglia “sorprendentemente” a Emanuela Orlandi: risiede in un’abitazione accanto a piazza S.Pietro, ha due bambini, e con loro passeggia abitualmente nei dintorni del Vaticano. Si aggiunge che viaggia frequentemente tra Roma e Parigi, e che ha studiato in America. Ogni mattina apre una finestra spostando una statua di Budda: forse un segnale? Le fotografie della donna vengono consegnate ai carabinieri del Ris, che effettuano non si sa quali raffronti con le immagini di Emanuela. Un giornale sostiene che si tratta di una cittadina vaticana, e che quindi per un esame del Dna con quello della madre sarebbe necessaria una rogatoria internazionale. Ma stranamente nessuno pensa di interrogare l’interessata, di chiederle i documenti. Sembra che si sia a un passo dall’apertura di una nuova inchiesta, quando si scopre che la “donna misteriosa” è la moglie di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. “Patrizia è mia moglie – dice Pietro Orlandi – Non va spesso a Parigi, e non ha studiato in America. E’ cittadina italiana, come lo sono io”. E il Budda spostato? “E’ solo quello che mia moglie ogni giorno, perché per aprire una finestra e dare aria alla stanza occorre spostare quella statua, che io comprai anni fa”.
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