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Luglio-Agosto/2005 - Articoli e Inchieste
Segreti
Il ritorno della "pista bulgara" con qualche ruga e poca memoria
di Belphagor

L’attentato a Giovanni Paolo II
del 13 maggio 1981 è oggetto di
una nuova indagine della
Commissione parlamentare
Mitrokhin. Dalle prime battute,
si ha l’impressione che si
vogliano riesumare ipotesi già
rivelatesi vent’anni or sono
frutto di una montatura


Proprio nei giorni che hanno preceduto la morte di Giovanni Paolo II, si è tornato a parlare della “pista bulgara” per l’attentato a Karol Wojtyla del 13 maggio 1981. Non per rievocare quel drammatico episodio, avvenuto dopo meno di due anni dell’avvento al soglio pontificio del papa polacco, bensì per rilanciare una tesi che a suo tempo, negli anni della Guerra fredda, suscitò grande scalpore, e poi svanì nel nulla in seguito a una lunga indagine giudiziaria e a un processo.
“Pista bulgara”, o piuttosto “pista sovietica”, dato che i suoi sostenitori affermavano che l’attentato a Giovanni Paolo II era stato commissionato dal Kgb ai servizi segreti bulgari, i quali a loro volta avrebbero armato la mano del turco Alì Agca. Ipotesi che poteva avere una sua verosimiglianza, considerando la posizione contraria al regime polacco, e in generale ai Paesi satelliti dell’Urss, assunta da Wojtyla già quando era arcivescovo di Cracovia: insomma, un attentato legato alla contrapposizione dei due blocchi. Est contro Ovest. Tutto chiaro? Non esattamente, perché ciò che appare verosimile non è sempre vero, e a volte, anzi, è vero il contrario. E i cammini della politica internazionale, e dei servizi segreti incaricati di applicarne le occulte, e di rado “pulite”, strategie, sono numerosi.
* * *
Nel pomeriggio del 13 maggio 1981, in una piazza S. Pietro colma di fedeli, Giovanni Paolo II, in piedi su un’auto scoperta che avanza lentamente tra la folla, viene ferito da due colpi di pistola: uno gli spezza l’indice della mano sinistra e gli penetra nel ventre, l’altro sfiora il gomito destro e, rimbalzando, ferisce due pellegrine americane. Il Papa è immediatamente trasportato al Policlinico Gemelli, e sottoposto a un difficile intervento operatorio, che durerà cinque ore. L’attentatore viene arrestato con ancora l’arma in pugno: è Alì Agca, “23 anni, turco, musulmano sciita, estremista di destra appartenente al gruppo parafascista dei “Lupi grigi”. In tasca Agca ha un biglietto di rivendicazione:”Io, Alì Agca, ho sparato al Papa affinché il mondo prenda conoscenza delle migliaia di vittime dell’imperialismo americano e sovietico in Afghanistan, nel Salvador e nel Terzo mondo”. Due anni prima il giovane turco era stato arrestato in patria per l’assassinio, a Istanbul, del giornalista Ipekci - direttore del “Milliyet”, quotidiano di tendenza liberale - condannato a morte, ed evaso dal carcere militare nel quale era rinchiuso. Poco dopo la sua evasione, Agca aveva scritto una lettera, pubblicata, al “Milliyet”, annunciando la sua intenzione di uccidere il Papa se questi si fosse recato a Istanbul, come aveva annunciato. La visita, regolarmente effettuata, aveva come scopo l’incontro con Dimitrios I, arcivescovo di Costantinopoli e patriarca ecumenico dei cristiani ortodossi, ma era stata considerata una sfida all’Islam dagli integralisti musulmani, e con particolare virulenza dall’ayatollah Khomeini.
* * *
Una volta arrestato, l’istruttoria contro Alì Agca viene condotta rapidamente, e il killer è condannato all’ergastolo. Nessuno parla di “piste”, né bulgare né di altro segno, e Agca mantiene un silenzio assoluto. Fino a che nel maggio 1982 si dice disposto a fare delle “rivelazioni” nel quadro della seconda inchiesta aperta per accertare eventuali complicità nell’attentato. In settembre la rivista “Reader’s Digest” pubblica un articolo nel quale la giornalista Claire Sterling, indica i servizi segreti bulgari (Darjavna Sigurnost) quali mandanti di Alì Agca. Il 21 settembre la rete televisiva americana Nbc manda in onda un filmato, realizzato dalla Sterling e da Paul Hentze, giornalista e collaboratore della Cia, che rilancia la tesi della “bulgarian connection”. L’8 novembre, Agca – che nel frattempo ha denunciato quali suoi complici i turchi Omer Bagci e Musar Celebi, arrestati l’uno in Svizzera e l’altro in Germania – indica su un album di foto, preparato dai “servizi” italiani tre cittadini bulgari: Serghei Antonov, funzionario della sede di Roma della compagnia aerea Balkan Air, con funzioni di caposcalo all’aeroporto di Fiumicino; Jelio Vassilev, segretario dell’addetto militare dell’ambasciata bulgara a Roma; Todor Ajvazov, responsabile dell’ufficio amministrativo della medesima sede diplomatica.
I tre bulgari, dice Agca, si sono incontrati con lui a Roma, in casa di Antonov e in quella di Ajvazov, e insieme hanno messo a punto l’attentato, compiendo anche dei sopralluoghi in piazza S.Pietro, nel corso di uno dei quali erano state scattate delle foto ricordo: i tre, precisa, lo avevano accompagnato il 13 maggio, pronti ad intervenire per facilitare la sua fuga. In direzione della Bulgaria, naturalmente, a bordo di un tir che attende in via Rubens, dove si trova l’ambasciata bulgara. Qualche giorno dopo il giudice istruttore Ilario Martella fa eseguire una perquisizione nella sede romana della Balkan Air, e in particolare nell’ufficio di Antonov.
Passano altri giorni, e il 24 novembre vengono emessi tre mandati di cattura nei confronti di Serghei Antonov, Jelio Vassilev e Todor Ajvazov. Antonov è arrestato la mattina del 26 novembre mentre si reca in ufficio, Vassilev era rientrato a Sofia il 27 agosto, dopo aver atteso due mesi oltre la scadenza del suo incarico in Italia l’arrivo del suo sostituto, Ajvazov, recatosi a Sofia il 5 novembre per presentare il rapporto finanziario annuale e concordare il bilancio del 1983, il 26 novembre è all’aeroporto per tornare a Roma: le autorità italiane si sono però premurate di avvertire l’ambasciata che contro di lui vi è un mandato di cattura, e Ajvazov, logicamente, rinuncia al viaggio.

* * *
La “pista bulgara” si basa unicamente sulle affermazioni di Alì Agca, di prove non vi è la minima traccia. Ma il battage prosegue. Viene pubblicato il libro di Paul Hentze “The plot tu kill the Pope” (Il complotto per uccidere il Papa), e quello di Claire Sterling “The time of the assassins”, tradotto in Italia con il titolo “Anatomia di un attentato”. Dall’estate del 1982 la Sterling ha viaggiato in Italia, Germania, Turchia, Austria, Svizzera, Israele, Tunisia, Francia, Stati Uniti, conducendo un’inchiesta per molti aspetti parallela a quella del giudice istruttore Ilario Martella, con la quale la giornalista americana assicura di avere ottimi e continui rapporti. Comunque, tanti sforzi non danno concreti risultati. E la stessa Sterling deve far notare che senza la testimonianza di Alì Agca “non sarebbero mai esistite prove indiziarie sufficienti a persuadere il mondo che il servizio segreto bulgaro, agendo per conto del Kgb sovietico, cospirò per assassinare il capo della Chiesa cattolica romana”. In realtà “il mondo” non appare affatto persuaso, a cominciare, come lamenta la giornalista, da una parte della Cia (l’“antenna” italiana dell’agenzia avverte Washington che sulla “bulgarian connection” si può fare poco affidamento), e dal Mossad israeliano, che esprime tutto il suo scetticismo in proposito. Il segretario di Stato americano Schultz, dopo una visita a Roma, fa dichiarare che sono necessarie “maggiori informazioni per giungere a un giudizio certo”, ritenendo “le prove di cui siamo a conoscenza non del tutto convincenti”.
Intanto,(presidente Severino Santiapichi, pubblico ministero Antonio Marini) si apre il processo ai tre bulgari, con il solo Serghei Antonov presente in aula. Il caposcalo della Balkan Air ripete di non aver mai incontrato Alì Agca, e di non sapere nulla di un complotto contro Giovanni Paolo II. Quanto al turco, vero protagonista del processo, moltiplica le variazioni su tema: afferma di aver ricevuto la pistola per l’attentato non alla stazione di Milano, ma a Sofia; descrive la riunione in casa Antonov, in via Pola, precisando che vi aveva partecipato anche la moglie, Rositza (però si appura che all’epoca la donna era a Sofia, insieme alla figlia); descrive l’appartamento del caposcalo, inserendovi una porta scorrevole presente in tutti gli altri appartamenti dello stabile tranne che in quello. E, curiosamente, in uno degli appartamenti abita il prelato belga Felix Morlion, agente della Cia in Vaticano, in stretto rapporto con Francesco Pazienza e i suoi amici del Sismi diretto da Giuseppe Santovito. Quando si trova in difficoltà, Agca afferma di essere stato minacciato, o la butta sul misticismo, giungendo a dichiarare di essere la reincarnazione di Gesù Cristo, di conoscere il terzo segreto di Fatima, e di poter rivelare la data della fine del mondo.
Un pazzo? Si sarebbe tentati di crederlo, ma Agca dà piuttosto l’impressione di voler arricchire un canovaccio che si rivela incompleto, inadeguato, costellato di incongruenze e di affermazioni campate in aria. In effetti, vengono accertate le visite del Sismi, a partire dal 28 dicembre 1981, nel carcere di Ascoli Piceno, dove il turco dovrebbe stare in isolamento. E per convincere Agca a collaborare sarebbero intervenuti Francesco Pazienza, spirito folletto di tante trame, il generale Pietro Musumeci, noto per altre ambigue vicende, con la partecipazione di Raffaele Cutolo, boss camorrista detenuto-padrone del carcere, e del cappellano Mariano Santini, affiliato cutoliano. A conferire un tocco di colore all’insieme, concorre il capo brigatista Giovanni Senz’ani (ex criminologo, anch’egli in odore di rapporti con i servizi segreti), che dà lezioni di italiano ad Agca.
Il “lupo grigio” cercherà di arricchire le sue rivelazioni raccontando che Antonov e altri agenti bulgari lo avevano arruolato anche per compiere un attentato contro Lech Walesa, in occasione della visita a Roma del leader di Solidarnosc, nel gennaio 1981. L’inchiesta, affidata al giudice istruttore Ferdinando Imposimato e al sostituto procuratore Domenico Sica, dimostra l’assoluta inconsistenza delle accuse di Agca, e il turco viene incriminato per calunnia nei confronti di Antonov.
Molto più seria invece un’altra inchiesta, che riguarda anch’essa la Bulgaria, su un megatraffico di droga e armi (pesanti e leggere), condotta a Trento dal giudice istruttore Carlo Palermo, nella quale sono implicati cittadini turchi, siriani, jugoslavi, e italiani, affaristi, faccendieri, e imprenditori. Tra gli arrestati, il siriano Hanifi Arsan, titolare della società di import-export Stibam, con sede a Milano, in via Oldofredi, in una palazzina di proprietà del Banco Ambrosiano, al quale Arsan si appoggia per tutte le sue operazioni finanziarie. Essenzialmente il traffico consiste nell’importare droga dall’oriente attraverso la mafia turca, diramandola in Siria, Jugoslavia, Italia, Germania e Stati Uniti, e utilizzandola come merce di scambio per l’acquisto di armi dirette in Medio Oriente. Quanto alla Bulgaria, la sua collocazione geografica (unita ovviamente a una rete di complicità a vari livelli) ne fa uno dei crocevia del passaggio della droga, e a Sofia, all’Hotel Giapponese e al Caffè Berlino, si incontrano periodicamente fornitori di stupefacenti e trafficanti d’armi. A Sofia, dove, dopo la sua evasione, aveva soggiornato con un passaporto falso fornitogli in Turchia dalla sua organizzazione, Alì Agca, prima di spostarsi in Germania (dove si era sposato), in Austria, in Spagna, in Svizzera, e in Italia.
L’inchiesta del giudice Palermo viene però fatta passare in sottordine (il magistrato sarà trasferito in Sicilia, dove sfuggirà per poco a un attentato dinamitardo che provoca la morte di una donna e dei suoi due figli), mentre tutta l’attenzione è focalizzata sulla “pista” per l’attentato al Papa. Anche se essa si rivela alla fine controproducente per chi l’ha elaborata.
Gli esecutori di questa elaborazione sono individuati in quello che veniva chiamato il Sismi “deviato”, o “Supersismi”, con in primo piano il capo del servizio Giuseppe Santovito, il generale Pietro Musumeci, il colonnello Giuseppe Belmonte, e alle spalle la Loggia P2 di Licio Gelli. E il solito Francesco Pazienza, che – da battitore libero – gestisce disinvoltamente i rapporti con gli “americani” grazie ai suoi fili diretti con l’establishment repubblicano di Washington: il generale Haig (per un certo periodo segretario di Stato), Robert Kooperman, direttore del Centro internazionale di studi strategici della Georgetown University, del quale è collaboratrice Claire Sterling, e Michael Ledeen, definito dal generale Lugaresi (che sarà capo del Sismi) “agente di influenza del dipartimento di Stato americano”, un gentiluomo che ne ha fatte tante da essere dichiarato “indesiderabile” in Italia.
Ma, nel febbraio 1986, quando la “bulgarian connection” si sta definitivamente sgonfiando, Francesco Pazienza, dal carcere di Manhattan dove è detenuto (per l’inchiesta sui traffici finanziari di Michele Sindona e Roberto Calvi), decide di rilasciare alcune dichiarazioni ai giornalisti del settimanale di New York “The Villane Voice” Martin A. Lee e Kevin Koogan, che scrivono: “Pur negando di aver influenzato Agca, Pazienza affermò, parlando con il giudice istruttore Martella, recatosi negli Stati Uniti, che altri dei servizi segreti italiani avevano spinto Agca a coinvolgere la Bulgaria”. D’altra parte, Pazienza parla dell’arrivo a Miami, dal Sudamerica, di Stefano Delle Chiaie (allora latitante) e Abdullah Catli, uno dei capi dei “Lupi grigi”, che aveva ospitato Alì Agca a Vienna poco prima dell’attentato al Papa, circostanza rivelatagli dagli agenti del servizio dogane Thomas Galligan e Arthur Donelan.
Interessante, ma non troppo sorprendente. Neofascisti italiani e “Lupi grigi” turchi all’epoca si ritrovano all’interno dell’Abn (Blocco Antibolscevico delle Nazioni), un movimento internazionale che ha base a Monaco di Baviera, rappresentato nel settembre 1985 alla Convenzione della Lega mondiale anticomunista, tenuta a Dallas, da Ruzi Nazar, un personaggio di rilievo nel “grande gioco” dei servizi segreti nei decenni della Guerra fredda. Nazar, usbeko, giovanissimo durante la Seconda guerra mondiale, diserta dall’esercito sovietico e si arruola nella Legione del Turkestan delle SS, e, quando la Wehrmacht si ritira, partecipa all’organizzazione di una rete di agenti da lasciare nel Caucaso. Alla fine della guerra, forte della esperienza, riesce a farsi assumere nei servizi segreti americani, e farà carriera nei ranghi della Cia, in Germania, dove è anche collaboratore della radio Europa Libera, e in Turchia, alle dipendenze di Paul Hentze, che, ricordiamo sarà uno dei promotori della “bulgarian connection”.
Ad Ankara, Nazar intreccia rapporti strettissimi con Alparsan Turkes, leader del partito di azione nazionalista, del quale i “Lupi grigi” sono il braccio armato, e, tornato in Germania con un incarico all’ambasciata statunitense, mantiene i contatti con il quartier generale del gruppo paramilitare nella Repubblica federale, a Francoforte.
Nel gennaio 1993, il nome di Ruzi Nazar appare sul settimanale cattolico “Il Sabato”, in un articolo, di Giovanni Cubeddu, che riporta alcuni brani di una nota informativa inviata il 16 aprile 1983 dalla Guardia di Finanza di Milano al giudice istruttore Carlo Palermo. L’invio della nota era motivato dalla sua premessa, secondo la quale “le più significative inchieste italiane del momento, in particolare quelle del giudice Ilario Martella, del giudice Ferdinando Imposimato, e del giudice Carlo Palermo, pur nella loro totale indipendenza e autonomia, possono essere riconducibili da un punto di vista analitico ed investigativo, ad una, per così dire, ‘matrice unica’”. Per quanto riguarda Alì Agca, la nota informativa della Guardia di Finanza sottolineava l’influenza americana sull’organizzazione dei “Lupi grigi”, e ipotizzava gli interventi incrociati e “depistanti” di servizi segreti occidentali. “La persona di Ruzi Nazar potrebbe essere interessante ai fini dell’inchiesta del giudice Martella, e anche per quella del giudice Palermo”, suggeriva il documento della GdF.

* * *
Il processo della “pista bulgara” si concludeva con la richiesta da parte del pubblico ministero Antonio Marini dell’assoluzione di Serghei Antonov, e dei suoi “complici”, “mancando una sostanza probatoria”. La pubblica accusa non può nemmeno dimostrare che Antonov sia un agente dei servizi segreti del suo Paese, come era spesso il caso in quegli anni per i caposcalo delle compagnie aeree di bandiera all’estero.

* * *
Dopo più di vent’anni, in una situazione internazionale radicalmente mutata, la “bulgarian connection” viene riesumata, questa volta solo in Italia, sul filo dell’annuncio, nel marzo scorso, della consegna da parte del governo tedesco al governo di Sofia della documentazione dei rapporti tra la Stasi (il servizio di sicurezza dell’ex Repubblica Democratica Tedesca) e il Darjavna Sigurnost bulgaro. In realtà la consegna è avvenuta nel giugno 2002, ma comunque viene comunicato che una sessantina di cartelle di questo materiale riguardano proprio la famosa “pista” per l’attentato a Giovanni Paolo II, e che le autorità bulgare sono pronte a consegnarle alla Commissione parlamentare italiana Mitrokhin, presieduta dal senatore Paolo Guzzanti, di Forza Italia, che ne ha fatto richiesta.
Il 31 marzo scorso, prima ancora di acquisire i documenti, il senatore Guzzanti, scrivendo su “Il Giornale”, quotidiano del quale è editorialista di punta, si dice sicuro della responsabilità nell’attentato non tanto dei bulgari quanto dei sovietici: “Se da Mosca non avessero mandato un sicario per stroncare la sua vita, oggi Giovanni Paolo II non sarebbe nelle condizioni in cui si trova… Perché al Cremlino decisero di far assassinare il Papa?… In Bulgaria un governo democratico ha accolto l’invocazione dell’opinione pubblica per riaprire una vecchia piaga: il ruolo di agenti bulgari nel delitto”. Il giorno seguente viene diffuso a Berlino un comunicato dell’Ente federale incaricato degli archivi della Stasi, il medesimo che ha inviato il materiale della Stasi a Sofia. “Dai documenti fin qui rinvenuti – informa il portavoce Christian Booss – non è apparso alcun elemento evidente a dimostrazione del coinvolgimento della Stasi, dei servizi segreti bulgari e del Kgb nell’attentato al Papa del 1981”. Quello che appare nella corrispondenza tra i due servizi segreti “fratelli” è la richiesta da parte dei bulgari di essere aiutati nel respingere le accuse riguardanti l’attentato: “Evidentemente si tratta di un’iniziativa in grande stile da parte della Cia e dei servizi di sicurezza italiani per intensificare la propaganda anticomunista a livello globale”. Un linguaggio usuale ai tempi della Guerra fredda.
Oggi la Guerra fredda è un ricordo del passato, e il recupero della “connection”, dimenticando come era nata, e come era finita vent’anni or sono, potrebbe suscitare qualche perplessità, e alcuni interrogativi sullo scopo di questa operazione. Lui, Alì Agca, nel carcere turco di Kartal Maltepe, annuncia la prossima pubblicazione di un libro, e intanto rivede la sua parte. Afferma che “senza l’aiuto di sacerdoti e cardinali non avrei potuto compiere quel gesto”, e nello stesso tempo che “il 13 maggio 1981 nessuno al mondo sapeva del mio attentato”. E continua a condire il tutto con un misto di stravaganze e ammiccamenti. Si vorrebbe sbagliare, ma è molto probabile che lo spettacolo, se dovesse nuovamente andare in scena, sarà persino peggiore della sua prima edizione.
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La Commissione Mitrokhin

Vasili Mitrokhin, ex archivista del Kgb, aveva lasciato Mosca nel 1992 per trasferirsi a Londra: lì aveva consegnato al MI6, il servizio segreto britannico, migliaia di documenti che asseriva di aver copiato dagli archivi di cui si occupava, un lavoro durato dodici anni, nascondendo i fogli in barattoli sepolti nel suo giardino. Nel 1999 aveva pubblicato un libro dal titolo “L’Archivio Mitrokhin”, scritto insieme a Christopher Andrew, professore a Cambridge. Le prime anticipazioni pubblicate in settembre dal “Times” suscitano polemiche, smentite, dichiarazioni. Anche in Italia, dove il MI6 invia, tradotta in inglese da quel servizio segreto, la parte che a suo giudizio riguarda il nostro Paese. Nel dicembre 1999 il senatore a vita Francesco Cossiga propone la creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta; la proposta approvata in Senato, e poi con alcune modifiche alla Camera, non potrà essere realizzata per la scadenza della legislatura.
Nel 2001 la Commissione Parlamentare d’inchiesta concernente il “Dossier Mitrokhin” e l’attività d’intelligence italiana, è creata: la presiede l’ex giornalista Paolo Guzzanti, senatore di Forza Italia. La Commissione non ha mai potuto incontrare Vasili Mitrokhin, né prendere visione dei suoi appunti originali, né incontrare gli agenti del MI6 che hanno gestito l’operazione, denominata in codice “Impedian”. Gli attuali servizi segreti della Russia hanno sempre affermato che gli appunti forniti dall’ex archivista non sono attendibili.
Vasili Mitrokhin è morto, a 82 anni, il 28 gennaio 2004, a Londra.

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