Giorgio Benvenuto (Deputato)
Sono stato invitato a questo incontro per offrire una testimonianza su Franco Fedeli. Ricorderò alcune cose importanti e poi darò anche io un contributo, molto limitato, ai temi che sono stati sollevati in questo convegno.
Franco Fedeli ho avuto modo di conoscerlo, di incontrarlo a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Anni straordinari per il nostro Paese, perché sono stati anni di grandi cambiamenti, di grandi conquiste e anche di grandi difficoltà, di grandi movimenti di massa, nella scuola, nell’università, nel mondo del lavoro. Sono anni nei quali si sono gettate le premesse per la conquista dei diritti di democrazia nelle fabbriche, con lo Statuto dei lavoratori, anni nei quali si sono praticamente rimesse in discussione le profonde discriminazioni che c’erano tra lavoro femminile e lavoro maschile, sono gli anni della parità salariale, sono gli anni in cui si sono superate molte discriminazioni che esistevano tra il lavoro dei ragazzi e quello degli operai, sono gli anni della riforma nella scuola, sono gli anni in cui si affermano i diritti civili, si comincia a realizzare quella modernizzazione del nostro Paese.
Sono stati anni non facili. Sono anni di grandi tensioni e di una separatezza tra il mondo del lavoro e le Istituzioni, fra cui la Polizia. Noi del sindacato non li chiamavamo ancora lavoratori della Polizia, ma “celerini”. Ricordo che nell’autunno caldo le difficoltà erano forti come negli anni precedenti. Ricordo che ancora nel 1968 c’erano stati dei morti nello scontro con la polizia, ad Avola e a Battipaglia. Quindi erano anni difficili (io ero segretario dei metalmeccanici), ricordo questi momenti di grande difficoltà. Ennio Di Francesco ha ricordato lo sciopero generale per la casa, la morte del poliziotto Antonio Annarumma. Poche settimane dopo noi facemmo una manifestazione a Roma, la prima manifestazione dopo tantissimo tempo, la manifestazione dei metalmeccanici a piazza del Popolo.
Fu difficile organizzare questa manifestazione perché avevamo dei problemi con il ministro dell’Interno, e non potemmo fare la manifestazione a piazza Venezia, perché in quella piazza c’era la sede della Confindustria; si decise di fare la manifestazione a piazza del Popolo e noi chiedemmo che i lavoratori curassero da soli la disciplina, che non ci fosse la Polizia a garantire l’ordine pubblico. Facemmo la manifestazione, contrattammo i percorsi.
Ricordo un cartello che era terribile, un cartello che era nella piazza, un cartello che diceva: “Saragat (allora era Presidente della Repubblica ed aveva duramente condannato l’assassinio di Annarumma) diceva “Saragat poliziotti uno, lavoratori 168”. Era il segno di una separatezza, di una contrapposizione che esisteva tra i poliziotti e gli altri lavoratori. Ricordo anche che su questa manifestazione, c’è un bellissimo film che venne fatto con Gregoretti, c’è la visione di quella piazza, c’è questo cartello che viene inquadrato e c’è la piazza che reagisce duramente contro un elicottero dei Carabinieri che sorvolava la piazza. Cartelli che noi avevamo erano: “Disarmo della Polizia”.
Franco Fedeli chiese di parlare con noi, con Trentin, Macario e con me. Era una fase di grandi cambiamenti, di conquiste di diritti, di uno Stato che noi chiedevamo di Istituzioni che fossero non autoritarie ma autorevoli. Fedeli disse: “Ma perché ci deve essere questa contrapposizione?” Quando vedemmo Fedeli fummo diffidenti, perché Fedeli dirigeva quella rivista che si chiamava “Ordine Pubblico”, era una rivista che aveva altre caratteristiche. Fedeli, parlando con i tre segretari delle Confederazioni che allora erano Lama, Storti e Vanni, riuscì a farci capire che noi sbagliavamo. Sbagliavamo perché i poliziotti erano dei lavoratori, che era necessario per il rafforzamento della democrazia delle Istituzioni che non ci fosse questa contrapposizione. Decidemmo tutti assieme (allora i metalmeccanici erano una categoria di punta, erano chiamati la quarta confederazione rispetto alle altre tre), di affrontare questo problema. Sulla rivista diretta da Fedeli, che nel passato era molto paludata perché in un certo senso era una rivista che non affrontava questi problemi dal punto di vista delle istituzioni, apparve una intervista a nome di tutti, di Luciano Lama che apriva la necessità di questo rapporto con i “lavoratori della Polizia”.
Ricordo poi le manifestazioni che abbiamo fatto con i lavoratori della Polizia, nelle quali abbiamo imparato a conoscerci, a trovarci insieme. Ricordo due grandi momenti di una grande conferenza che facemmo all’Hilton e le riunioni che facemmo alla Federazione lavoratori metalmeccanici. Così si cominciò a costruire un movimento comune, di grande solidarietà, di grande conoscenza.
Oggi, problemi ci sono. Ma voglio dire che la smilitarizzazione della Polizia non l’ha certo indebolita. I lavoratori della Polizia, come gli altri lavoratori delle Forze dell’ordine, possono dare degli esempi straordinari di professionalità, di efficienza, di dedizione e di impegno. Quando vedo che si è riusciti anche ad evitare che si riproponesse una rottura tra lavoratori della Polizia e cittadini, questo è dovuto a queste radici forti che ci sono nella Polizia. Il mio rammarico è che questa Riforma andava completata ed arricchita. Io mi limito a queste constatazioni. La prima, il coordinamento dei lavoratori delle nostre Forze di sicurezza; secondo, la loro specializzazione ed il fatto di metterli in grado di poter utilizzare gli strumenti della innovazione tecnologica che oggi non hanno.
Nelle ultime leggi Finanziarie abbiamo ridotto i finanziamenti non solo alle Forze dell’ordine ma a tutti gli organismi di vigilanza nel nostro Paese. Noi abbiamo una criminalità che non è solo quella tradizionale ma una criminalità che è anche economica e finanziaria, abbiamo interrotto un processo che doveva puntare ad una specializzazione e a una formazione. Ora c’è anche chi immagina singolari riforme della Costituzione per balcanizzare il nostro Paese. Abbiamo interrotto un’azione che doveva essere di rafforzamento, di potenziamento, di prevenzione. La sicurezza e la libertà devono sviluppare, invece, fortemente la prevenzione.
Noi ancora oggi come vent’anni fa abbiamo uno spreco di risorse adibite alla sicurezza, per esempio, nelle scorte. Si spende più per le scorte oggi, che nei momenti più terribili del terrorismo.
Rita Parisi (Segretario Siulp - Bologna)
La Riforma della Polizia non ha retto. Questo è un fatto che bisogna dare per assodato. In generale, se la domanda è sbagliata, io dico sempre, difficilmente la risposta sarà giusta.
La Riforma non ha retto. Poi può darsi che abbia ragione il collega Claudio Giardullo nel dire che il modello sia valido, teoricamente. Un fatto però è inconfutabile: subito dopo la Riforma di Polizia ci sono state strategie precise, studiate, elaborate sulla rimilitarizzazione della Polizia di Stato. Non è che si può far finta di niente. Altrimenti poi difficilmente possiamo parlare di modelli di sicurezza, di libertà senza conoscere il principale attore della sicurezza. E’ pur vero, come diceva Giuseppe Rippa, che la sicurezza non è solo compito della Polizia.
Questo lo dicono tutti, allora come mai stiamo ancora qui a parlarne? Tutte le agenzie di sicurezza partono dal presupposto che la sicurezza non è solo un problema di Polizia, lo dicono tutti. Lo dice il sindaco di turno, lo dice il prefetto di turno, lo dice il questore, lo dicono i sindacati di Polizia. Intanto continuiamo a parlarne, quindi significa che anche questo non è servito a mettere in campo modelli più confacenti alla domanda di sicurezza.
Subito dopo la Riforma della Polizia, si è parlato di smilitarizzazione, i poliziotti erano militari, dopo erano diventati lavoratori e quindi accedevano ai ruoli di Polizia mediante un normale concorso pubblico, come quello che ha fatto chi vi parla. Forse ce ne sono stati due di concorsi, dopo l’81, poi tre per ispettori, di cui uno riservato agli interni, e poi, per sette od otto anni almeno, sono entrati solo ausiliari di leva. Come si fa a parlare di Polizia senza sapere chi sono i lavoratori di Polizia? In questi anni sono stati rimilitarizzati, rispondevano all’ordinamento militare, non alla Riforma di Polizia. Erano soldati di leva che prestavano il servizio militare in Polizia.
Questa è una cosa che non può passare inosservata. Mi sembra che su questo punto in tutti gli ambienti se ne discute con troppa disinvoltura. Come si fa a parlare di Riforma (molti ricordano quegli anni con grande orgoglio) e poi una cosa così passa quasi inosservata, cioè che la Polizia si è rimilitarizzata nei fatti. Io mi chiedo che cosa direbbe Franco Fedeli se oggi vedesse come vivono i poliziotti.
Quando è che il poliziotto è separato dalla società? Quando non condivide il modello civile, quando non lo sente suo, quando non ha gli stessi diritti dei cittadini. Oggi non li ha. A giugno sono usciti dalle Scuole di specializzazione 611 ispettori di Polizia, uno dei ruoli voluti dalla Riforma. Sembra che riprenda respiro la Riforma. Chi ha vinto questo concorso non può tornare nella Regione di provenienza, né in quella di nascita. Vogliamo parlare di queste assurdità? Un poliziotto sradicato dal suo territorio è felice, è sereno? Pensa di condividere con il cittadino per cui lavora lo stesso modello democratico di sicurezza? O ha un’insicurezza, lui per primo, sul futuro della sua famiglia? Conosco padri e madri che non possono vedere i figli. Qui voglio spezzare una lancia in favore della legge Finanziaria, provocatoriamente. C’è una norma della Finanziaria di quest’anno che consente a tutto il pubblico impiego di essere aggregati nella sede dove sono residenti i minori, i figli minori fino a tre anni di età. Ma il ministero dell’Interno, il Dipartimento, ragionano da soli, fanno il Parlamento, fanno il governo, fanno l’esecutivo, hanno deciso che va bene per tutti questa regola, tranne per i lavoratori della Polizia. E’ giusto? Noi purtroppo non abbiamo più la Commissione Interni del Parlamento a cui rappresentare le problematiche dei lavoratori di Polizia, a cui sollecitare una interpretazione autentica del Parlamento. Così andiamo avanti a colpi di ricorsi. Il sindacato ha perso forza. Il sindacato sta diventando un ufficio legale, perché lavoriamo solo per garantire ai poliziotti quei pochi diritti che gli sono rimasti.
Dunque, in questi anni la Polizia è stata rimilitarizzata, a tutti gli effetti. Non è solo un problema organizzativo, è anche un problema di valorizzazione delle professionalità. Paolo Andruccioli che conosce bene il sindacato di Bologna, ha citato giustamente alcuni poliziotti che scrivono libri, che sono affermati in campo nazionale, uno è anche qui in sala.
Uno di questi a Bologna, dove il questore aveva intuito le sue capacità, laureato in Scienze della Formazione, lo aveva impegnato a fare l’aggiornamento, la formazione che si fa nel corso dell’anno. Intelligentemente il questore ci mandò anche un funzionario di Polizia, come discente, non come docente. Ma questo si rifiutò, perché un funzionario di Polizia non si assoggetta all’insegnamento di un agente, perché quando la cultura è militare, gerarchica, non conta chi sa e chi sa fare, ma chi ha più gradi, con una catena di conseguenze dannose anche per il cittadino, conseguenze che limitano l’autonomia decisionale del poliziotto, limitano la capacità critica, limitano la sua possibilità di dare un contributo alla discussione sulla sicurezza.
Quando si parla di ordine e sicurezza pubblica, un conto è il concetto che ne può avere un questore, un addetto alla sicurezza che può dare il suo contributo meglio di altri, ma che tuttavia ha la sua visione dell’ordine e della sicurezza, un conto è come può parlarne un sindaco. Il caso di Bologna, con il sindaco Cofferati, ne è la prova più evidente.
Francesco Forleo (Funzionario della Polizia di Stato)
Ho necessità di partire dalla preistoria. Chi gestisce e amministra assume sempre delle responsabilità. Io ho avuto l’onore di gestire con Lama, con Carniti, con D’Antoni, con Benvenuto, insieme ai vari ministri dell’Interno, ai presidenti del Consiglio e questo, purtroppo finisce per sporcare le mani. Si assumono delle responsabilità e si debbono fare delle scelte.
Io provengo da una famiglia di sinistra, mio nonno era il numero 20 nella lista dell’allora partito Comunista. Quindi ho sempre avuto una precisa sensibilità politica. Ricordo gli anni ’60, ricordo la rivolta di Genova, ricordo Avola, ricordo le uccisioni a Modena. E non capivo, pur essendo entrato volontariamente in un’Accademia di Polizia, come potevano esistere, in un Paese definito democratico, tre Corpi di Polizia militari: Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza.
A ventisei anni ero di servizio a Torino. Ci fu una grande manifestazione dei metalmeccanici. In piazza, a gestire l’ordine, hai paura. Si ha paura come tutti gli esseri umani. Quindi noi dovevamo portare a casa un risultato, in una visione dell’Italia che bisogna avere sempre presente. Non c’era solo la Guerra fredda, l’Italia era ad un passo dalla guerra civile. Ci siamo arrivati, perché le Brigate Rosse sono state qualcosa di immensamente doloroso nel nostro Paese. E noi abbiamo vinto mentre loro ci sparavano addosso. Io ho vissuto in quegli anni a Genova, e forse molti sanno come piangevano gli operai quando entravamo in fabbrica, ricordando la separazione che era stata drastica, quando nel ’60 ci sono state le giornate di rivolta. Ecco, noi dovevamo chiudere questo processo.
Vivo da tre mesi a Napoli, nel commissariato per l’emergenza rifiuti, il problema è nella vivibilità delle nostre città, è un problema complessivo. Noi non possiamo più discutere fra di noi come sindacato, noi dobbiamo discutere con gli economisti, dobbiamo discutere di come uscire da determinati problemi, come uscire dalla inciviltà dei comportamenti.
Io vorrei tornare tra la gente, fra i bisogni della gente. Avrete tutti saputo che hanno ucciso una persona di settanta anni per tre milioni, in pieno centro a Napoli. Su la Repubblica è uscito un bellissimo articolo in cui si dice: la sensazione dei napoletani probabilmente è che l’Amministrazione pubblica continua ad essere una macchina per gettare denaro. Oggi la burocrazia è un “pizzo” ulteriore che i cittadini devono pagare e genera difficoltà economica e malanimo. C’è da chiedersi come mai il numero degli impiegati è aumentato con l’ingresso dei computer. La Svezia ha adottato sistemi scientifici di verifica della produttività dei dipendenti pubblici. Noi siamo diventati un carrozzone. Quando si parla di ispettori, non tutti sanno che l’ispettore doveva essere un ruolo di investigatore, invece è diventato un’altra cosa. Questo fa parte della totale inefficienza.
Allora secondo me è cambiata la vita dei cittadini, ma siamo cambiati anche noi. Non possiamo più discutere di sicurezza e basta. Ha ragione anche il prefetto Carlo Mosca quando dice che la legge di riforma che noi abbiamo voluto, è ancora viva e capace di esprimere nuove potenzialità.
Quindi dico che la politica ha fatto dei passi avanti dando dei poteri ai sindaci, ai presidenti delle Province, ai presidenti delle Regioni, e credo che questa sia la strada da seguire. Però ha dato meno forza allo Stato apparato, ha dato meno forza alla pubblica Amministrazione.
Michele Claudio Del Re (Avvocato penalista)
Non faccio riferimento al mio insegnamento di anni presso la Scuola superiore di Polizia che mi ha portato a stimare profondamente le nuove leve della Polizia. Voglio far riferimento, invece, ad un punto che è stato trascurato in questo dibattito. Anzi Claudio Giardullo ha in qualche modo parlato della rassicurazione come elemento prioritario, ed ha dato un giudizio negativo nei confronti della sicurezza vista in modo separato.
Il senso di insicurezza (“ho paura del crimine”) è una vera e propria sindrome patologica. Sono felice che mi sia stata data l’occasione per poter sottolineare ancora, di fronte ad operatori importanti, il problema della paura del crimine che deve essere affrontato con strategie autonome nei confronti della lotta per la repressione ed eliminazione del crimine. In questo campo, l’Europa tutta, è abbastanza indietro,ci sono dei processi di elaborazione di strumenti legislativi in Canada, in Australia; da noi se ne parla in una forma piuttosto vaga e non specificatamente mirata ad una trasformazione della paura del crimine.
Le statistiche dicono che le categorie più a rischio sono le donne, gli anziani ed i bambini. Dico certamente che non è l’intervento dell’uomo sull’uomo, cioè quella violenza benedetta e santa, nei casi di necessità degli organi di Polizia, ripeto, benedetta e santa, tutte le volte che è necessaria, ma sempre come invasione della privacy, che può combattere il fenomeno della paura e del crimine o senso di insicurezza soggettivo che corrode quotidianamente la vita di molti di noi.
Se noi vogliamo orientare l’ordinamento burocratico di Polizia e legislativo a combattere il fenomeno, si deve meglio informare sui mezzi di autoprotezione, che non vuol dire affidarci alla Polizia privata, vuol dire autoprotezione e una corretta valutazione del rischio, perché c’è chi sopravvaluta e c’è anche il volontario un po’ incosciente che si espone credendo di fermare il pericolo; ancora più importante è coinvolgere la comunità in tutto ciò che riguarda il crimine e il terrorismo. Per comunità intendo dal condominio, alla scuola, alla circoscrizione, alle associazioni volontarie, coinvolgerle nel problema nella prevenzione del crimine e anche nella misura delle esecuzioni imposte dalla autorità. Alleviare la paura anche garantendo un futuro risarcimento a chi resta vittima di un crimine, perché abbiamo detto in altre sedi che chi viene tamponato viene risarcito, chi invece viene scippato non prende nemmeno una lira.
Il detenuto oggi viene buttato in mezzo al mondo libero, senza rilascio graduale, scontata la pena applicando misure intermedie prima della totale libertà. Ci vorrebbe una maggiore attenzione di ausilio e controllo alla condotta di vita post carceraria, senza aspettare le ricadute, non vuol dire continuare la punizione. Vuol dire, anche ai fini del senso di sicurezza, garantire che quella persona che il giornale ci dice è stata ributtata fuori, è stata rimessa in piazza, abbia in qualche modo una sua guida e controllo. Infine, è necessario un trattamento più personalizzato per tutti coloro che subiscono misure alternative. Non è tanto la mia esperienza di professore, ma è l’esperienza di avvocato, che mi spinge a dire che è un settore in cui talvolta le misure alternative giocano con un ritmo di causalità, che una volta và a vantaggio del cliente e una volta a svantaggio. Il magistrato naturalmente non può fare un esame psicologico, psichiatrico nei confronti di colui a cui applica la misura alternativa. Ed è allora che interviene un elemento di causalità che indubbiamente crea dei grossi problemi.
Maurizio Navarra (Esperto di intelligence)
Dire che l’intelligence italiana non funzioni o che non sia adeguata ai compiti che la legge istituzionale 801/77 gli affida, è un’asserzione che molti ritengono oggi azzardata e superficiale, priva di fondamento.
La testimonianza più chiara della complessiva, positiva concretezza dell’azione dei nostri Servizi di Informazione e Sicurezza trova, a tutti i livelli, riscontro diretto sia nell’ottimo andamento delle operazioni condotte in Iraq, sia nella puntuale ed oramai tradizionale precisione delle situazioni informative elaborate e consegnate semestralmente al Parlamento, sia, e non da ultimo, nel fatto che i nostri Servizi sono riusciti a strappare dalla propria immagine le pesanti aggettivazioni di “deviati” o “inquietanti” ricevute come una pesantissima eredità dalle organizzazioni di intelligence soppresse nel 1977. Non è poco.
Non nascondo di essere orgoglioso di poter asserire di avere anch’io fatto la mia parte in questo processo che ha attraversato la combattuta storia della nostra intelligence dell’ultimo trentennio, non senza lasciare segni profondi sulla pelle di tutti coloro i quali hanno fatto e fanno ancor oggi parte di Servizi di Informazione e Sicurezza italiani.
Per alcuni funzionari dei Servizi i segni sulla pelle sono profondi. Ferite che non potranno mai più essere rimarginate. Alcuni procedimenti giudiziari pesano come macigni sulle coscienze di quanti hanno avuto l’onore di avere conosciuto e di avere lavorato con questi Funzionari.
La sensazione, è una sensazione forte, suggerisce l’ipotesi che la verità processuale sin qui accertata sia lontana dalla realtà e che, ad esempio, personaggi come Bruno Contrada e Ignazio D’Antona abbiano avuto, oggettivamente, il solo torto di non essere caduti vittime del fuoco della mafia.
Ho asserito, non a caso, che le operazioni condotte in Iraq hanno avuto un andamento ottimo. Lo asserisco con convinzione. Questi teatri operativi non concedono spazi all’improvvisazione. Riuscire ad ottenere risultati è frutto di un lavoro paziente, costante, avviato da tempo. I fatti sono fatti. Non si tratta di vuoto sciovinismo. Nessuna altra intelligence, anche quelle che nell’immaginario collettivo sono da sempre sinonimo di efficienza, può vantare di avere avuto i nostri successi.
C’è di più. L’ipotesi che la drammatica conclusione del sequestro Sgrena sia dovuta a superficialità o ad impreparazione dei nostri operatori non è creduta da nessuno. In modo particolare non è creduta da quanti sono più o meno “addetti ai lavori”.
Gli Stati Uniti non lo ammetteranno forse mai, non possono permettersi questo lusso di farlo: il tragico incidente nel quale è morto il nostro agente, Nicola Calipari, deriva da un distruttivo cocktail di circostanze negative i cui ingredienti principali sono prevalentemente l’inesperienza dei militari addetti al posto di blocco e la forte tensione nervosa derivante dal logoramento psicologico presente nell’esercito Usa. Un contingente costretto a confrontarsi quotidianamente con un terrorismo suicida che, semplicemente, non appare contenibile e prevedibile. Per capire in maniera obiettiva e serena come questo episodio è stato trattato dagli americani, è forse sufficiente fare la conta dei militari americani morti per attentati nei posti di blocco.
Quindi la legge 801/77 è una legge che ha dato i suoi frutti. Semplicemente. Perché cambiarla? E’ necessario cambiarla?
Il fatto è che la legge è nata già “vecchia” nella sua concezione di fondo. Se la riforma del 1977 ha un “padre”, questi sicuramente è Francesco Cossiga che fin da allora era convinto della necessità di non avere un sistema “binario” per l’intelligence. Non tanto si tratta di un’intuizione brillante e proiettata al futuro quanto del risultato di un’attenta analisi dei fatti condotta da un politico che, con buona probabilità, è il più competente e preparato in materia di intelligence. E’ infatti chiaro che non esistevano allora, come ancor di più non esistono oggi, fenomenologie che ragionevolmente consentano una netta ripartizione di compiti e che quindi costringano ad una distinzione di competenze talmente marcate da dividere l’intelligence in branche distinte e specializzate.
Chiedersi perché vada cambiata l’organizzazione dell’intelligence è allora un esercizio inutile. Le istituzioni cambiano perché il mondo cambia.
Nel 1977, per esemplificare, era necessario garantire il cittadino creando un equilibrio, anche surrettizio, di poteri in quanto l’intelligence usciva fuori da un periodo oscuro nel quale prevaleva su tutto e tutti la ripartizione del mondo in blocchi contrapposti. Un periodo in cui di fatto, è bene sottolineare questo concetto, l’intelligence non aveva precisi e precisati interlocutori politici ed altrettanto precise e precisate linee di controllo. Concettualmente l’intelligence era soltanto militare in quanto tesa, in tutti i suoi settori ed in tutte le sue branche, a soddisfare principalmente esigenze connesse all’ipotesi di un conflitto tra i Paesi appartenenti alla Nato ed i Paesi appartenenti al Patto di Varsavia.
Le cose sono oggi notevolmente cambiate perché è cambiata la storia. Occorre adeguare strutture, addestramento ed operatività alle nuove situazioni di politica internazionale. Difendere quindi l’integrità del nostro Stato impone oggi di ricorrere a metodologie diverse e di far entrare l’intelligence in situazioni e realtà sino ad oggi ritenute lontane dall’azione dei “Servizi Segreti”.
Le spinte destabilizzanti non sono più collegate alla facile logica dei blocchi contrapposti e, del resto, questo concetto era per gli osservatori più competenti già fortemente opinabile anche in tempo di piena guerra fredda. Si tratta di pressioni forti, che passano per organizzazioni, itinerari e metodologie nuove, capaci di insinuarsi nelle pieghe di nazionalismi, rivendicazioni territoriali e, perfino, di sfruttare più o meno accentuate “coperture” di matrice religiosa. Non sempre alla fonte di questi fenomeni si trova un’organizzazione statale da poter definire tout court, “nemica”. Al contrario, il “nemico” può essere un’organizzazione criminale (non solo italiana) o anche una multinazionale che ha intenzione di influenzare ed indirizzare il mercato.
Cercare per il contrasto di questi fenomeni punti di riferimento esclusivamente “militari”, di controspionaggio o eversivi è semplicemente tempo perso. Il “nemico” da battere oggi utilizza un intreccio sottile di componenti economiche, politiche, tecnologiche e sociali; è un nemico che è spesso molto attento a non condurre, per perseguire i suoi fini, attività palesemente illegali, è un nemico che talvolta si insinua negli apparati e negli impianti repressivi e di contrasto di un Sistema Paese cercando di sfruttarne o orientarne l’azione per fini diversi da quelli istituzionalmente previsti.
In questo quadro d’impiego, per l’intelligence si impone la creazione di una struttura unitaria. Nelle proposte di legge di riforma che risultano depositate in Parlamento, alcune vanno addirittura in controtendenza proponendo il potenziamento del Cesis, oggi un Segretariato con compiti di coordinamento ed analisi, fino al punto di elevarlo al rango di essere quasi un terzo Servizio di Informazione e Sicurezza, da porre al di sopra degli altri due. Un tramite gerarchico, nella sostanza.
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