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Luglio-Agosto/2005 - Articoli e Inchieste
Sicurezza e libertà
Un bilancio di 25 anni di riforma
di

Pubblichiamo qui di seguito, in forma sintetica,
le relazioni introduttive al Convegno, del
12 maggio scorso, organizzato da “Polizia e
Democrazia” e da “Quaderni Radicali” svolte da
Giuseppe Rippa, Paolo Andruccioli
e del giornalista Pier Vittorio Buffa e stralci
di alcuni degli interventi


Giuseppe Rippa (Direttore di “Quaderni Radicali”)
Sicurezza e libertà vanno viste su tre piani diversi. Un primo piano riguarda un conflitto, possibile, rispetto alle esigenze dell’individuo: quello, appunto, della sicurezza e della libertà (tema, questo, di cui si è occupata, dopo l’11 settembre, la rivista “Quaderni Radicali”); il secondo aspetto riguarda un concetto che viene da lontano: quello della separatezza fra cittadini e Forze dell’ordine, separatezza che - occorre dirlo - è stata spazzata via in gran parte proprio dalla legge di Riforma della Polizia, la 121/81 (per la quale tanto si batté Franco Fedeli con i suoi giornalisti). Il terzo aspetto, infine, deve riguardare i due concetti che saranno espressi da questo convegno, rispetto alle più che mutate esigenze dei giorni nostri: dobbiamo fare i conti con un mutato aspetto della criminalità organizzata (in Italia e nel mondo) e il terrorismo di varia natura.
D’altra parte occorre tenere presente che anche la gestione dell’ordine pubblico deve essere vista alla luce dei mutati scenari politici e sociali: la repressione (anche se i tempi sono indubbiamente cambiati) non può essere assunta come modello di base. Mi spiego: la risposta ai fatti criminali di ogni genere, non può, né deve essere, solo ed esclusivamente affidata alle Forze di polizia. Sarebbe pericoloso contrastare il crimine riducendo solo ed esclusivamente gli spazi di libertà dei cittadini. Non dimentichiamo che c’è il problema interno, diciamo così, delle Forze dell’ordine. Problema che riguarda le condizioni di vita e di lavoro degli “operatori della Polizia”, il loro impiego, la loro gestione, i mezzi e le strutture di cui debbono poter disporre.

Paolo Andruccioli (Direttore di “Polizia e Democrazia”)
Sono passati venticinque anni dalla Riforma della Pubblica sicurezza, ma sembra un tempo molto più lungo. Quegli anni sembrano più lontani di quello che sono. I tutori della legge non sono più gli “sbirri”, come venivano definiti una volta; inoltre possiamo riflettere sui venti anni di attività sindacale della Polizia. Sindacato di Polizia, ricordiamolo, che è stato uno dei punti qualificanti (non certo il solo) della legge 121/81. Infatti i cittadini - che sono i fruitori principali dell’operato delle Forze di polizia - hanno una percezione molto diversa delle Forze dell’ordine ed esprimono esigenze sempre più variegate, che trovano pronta risposta nell’apparato di sicurezza del nostro Paese; risposte ben diverse da quelle degli anni Ottanta. Abbiamo promosso questo convegno perché ci sembra importante, partendo da questi temi, fare il punto sulla situazione di oggi anche sotto l’ottica politica ed editoriale della nostra rivista. Indubbiamente oggi, non possiamo “rifare” la Riforma del 1981 perché non avrebbe alcun senso, anche se alcuni punti di quella norma non sono stati attuati o, peggio, sono stati stravolti, come non mancheranno di sottolineare i partecipanti a questo convegno. C’è però la necessità di verificare se la legge di Riforma abbia esaurito la sua spinta innovatrice, soprattutto perché - lo ripeto - dal punto di vista legislativo, non ha trovato ancora piena attuazione.
Forse la norma ha bisogno di qualche correzione, di qualche aggiustamento? Lo vedremo. Una cosa è certa, come è stato già notato: la figura del poliziotto italiano è molto cambiata in questi venti anni. E di questo cambiamento si ha la percezione anche osservando le fiction televisive e leggendo i gialli polizieschi, alcuni esponenti di questo filone sono addirittura poliziotti. Quindi, anche dal punto di vista dell’immagine, la situazione è nettamente cambiata e quindi si tratta di ripartire da questo dato di fatto.

Pier Vittorio Buffa (Giornalista)
Prendo la parola come testimone; infatti, in qualità di giovane cronista, insieme a tanti altri colleghi, cominciai ad interessarmi al “problema Polizia” nel 1975 e in quel momento ebbi modo di prendere contatto con Franco Fedeli la cui opera, posso dire, è stata fondamentale nel processo di Riforma della Pubblica sicurezza; ma il suo fu anche un ruolo di raccordo, se possiamo dire, fra il Movimento dei poliziotti, l’opinione pubblica e le forze sindacali. A noi giornalisti, in particolare, Fedeli fece capire l’importanza di una riforma, quella appunto della Polizia, che doveva essere attuata e di questa importanza doveva essere messa al corrente l’opinione pubblica, i cittadini che sono i fruitori principali dell’opera della Polizia. In sostanza: occorreva far sapere ai cittadini che dietro i caschi e gli scudi in plastica dei poliziotti c’erano degli uomini, dei lavoratori a cui venivano negati taluni principi costituzionali. Si arrivò, finalmente, alla legge 121/81, la tanto sospirata Riforma dell’Amministrazione della Pubblica sicurezza e alla nascita della Polizia di Stato. Non fu un iter facile, quello della Riforma e del post Riforma. Soprattutto quando alcuni episodi sconcertanti nell’operato della Polizia, rischiarono di far naufragare i tanti sforzi per accreditare i tutori dell’ordine come cittadini e lavoratori. Mi riferisco in particolare all’episodio delle torture inflitte ad alcuni brigatisti rossi (implicati nel rapimento del generale Usa, Dozier) alla questura di Mestre. Fu un trauma, per i poliziotti che stavano allora eleggendo i loro rappresentanti sindacali, ma lo fu anche per i cittadini e soprattutto per i nemici della Riforma. Il nascente sindacato, allora, fece una scelta forse “morbida”. E questo mi fa riflettere su un punto: se oggi si ripetesse quell’episodio sconcertante, cosa farebbe il sindacato di Polizia? D’accordo, la Polizia è cambiata in quest’ultimo ventennio. Tuttavia quei fatti continuano a rimanere presenti nelle menti dei poliziotti di oggi e non solo di loro. Pensare a certi sistemi da nazioni del quarto mondo, deve far pensare. Oggi più che ieri.


Claudio Giardullo (Segretario generale Silp-Cgil)
Prima di iniziare, vorrei esprimere l’ansia e il dolore per i colleghi dell’elicottero che è caduto a Pescara. Per noi, come potrete immaginare, è una giornata di dolore; esprimiamo la nostra solidarietà alle famiglie. Passeranno queste giornate di dolore, ma nei prossimi giorni avremo il dovere di chiarire, cominceremo ad aprire delle vertenze molto chiare per capire se si tratta di una riduzione inaccettabile di risorse che fa correre ai poliziotti, quel rischio in più - dovuto alla disattenzione sul piano della tecnologia a nostra disposizione - che non fa parte della natura del loro mestiere. Il titolo di questo Convegno, mi sembra, abbia colto molto bene l’esigenza che ha il Paese di assumere la battaglia della sicurezza come una vera e propria battaglia di libertà. Perché è sulla sicurezza - io aggiungerei anche sulla legalità - che il Paese si gioca la sua identità di Paese moderno in grado di garantire, a tutti i cittadini, livelli di rispetto del diritto, perlomeno analoghi a quelli degli altri grandi paesi europei, e perché è proprio su legalità e sicurezza che si gioca il suo modello di sviluppo. Il nostro Paese - un Paese che ha la più alta concentrazione di organizzazioni mafiose di tutta l’Europa occidentale, un Paese che ha una minaccia terroristica altissima, un Paese che ha problemi di criminalità diffusa analoghi agli altri paesi occidentali - ha il dovere di verificare costantemente lo stato di salute del suo sistema di sicurezza. Il nostro Paese ha - senza fare allarmismo inutile - un vero e proprio problema di riconquista del suo territorio, di riaffermazione della sovranità dello Stato. Il quartiere di Scampia a Napoli, è uno di questi casi: le ville bunker e le sentinelle della Camorra, il fatto che si è perquisiti quando si entra a Scampia (ma attenzione, non dalle Forze dell’ordine) stanno a dimostrare che quella sovranità, oggi, viene messa in discussione. Se a Catania o a Palermo la stima è che 8 imprenditori su 10 subiscono il racket, se c’è un controllo capillare di ogni attività economica attraverso l’estorsione, l’usura, l’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, questo vuol dire che quella sovranità ogni giorno è messa in discussione. Tengo a ribadire che il nostro - forse più di ogni altro paese dell’Europa occidentale, forse del mondo occidentale - ha un bisogno costante di verificare l’efficienza del suo sistema di sicurezza, di fare per così dire “manutenzione”. Per capire qual è lo stato delle cose, partirei dunque dalle strategie. I versanti sono tre: strategie, programma finanziario e modello - validità del modello dell’assetto - a partire dalla 121 di cui stiamo parlando. La mia sensazione è che i risultati ottenuti in questi ultimi anni non siano all’altezza delle aspettative. Al di là dei singoli sondaggi d’opinione - condizionati dalla presenza dei fatti di cronaca nera sui media, in particolare sui telegiornali di prima serata - quello che dimostra che c’è maggiore insicurezza è la lettura di quanto hanno speso in più gli italiani nell’ultimo anno per la loro sicurezza privata: il Censis ci dice che ogni famiglia italiana ha speso un più 7% per la propria sicurezza privata. Nel nostro Paese la sicurezza è una cosa che in genere ci si aspetta dallo Stato, non abbiamo una cultura anglosassone o americana da questo punto di vista; la sicurezza è un problema dello Stato; se noi aumentiamo la spesa per la sicurezza privata, certamente questo non vuol dire che siamo più sicuri. Aumentano i reati da una parte, aumenta l’insicurezza dall’altra. Perché si arriva a questi risultati che sono insoddisfacenti? Intanto perché sono state adottate delle strategie sbagliate: si è puntato molto, forse troppo, sulla rassicurazione. In sé è un argomento fondamentale per una moderna politica sulla sicurezza; non si può fare politica della sicurezza senza rassicurazione.
Nel nostro Paese si è puntato alla rassicurazione a scapito del contrasto; quindi meno investigazione nel territorio, meno controllo del territorio (che sia conoscenza del territorio e non semplicemente occupazione militare), meno pattugliamento, ci sono anche meno risorse umane, meno operatori di Polizia (la Finanziaria di quest’anno, in realtà, ha ridotto la possibilità di coprire il turn-over). Questo ha lasciato ampi spazi al crimine organizzato e porta ai risultati che dicevo prima, di Palermo, di Catania. Quindi sul piano strategico ci sono questi errori: operazioni di alto impatto, sono operazioni che mirano ad abbassare l’allarme sociale nell’immediato, ma non lasciano sul campo nessun presidio stabile di Polizia affinché la sicurezza e la legalità siano una questione permanente. Il poliziotto di quartiere - che sicuramente è un istituto molto avanzato - in qualche modo rischia di trasformarsi in una operazione di immagine, perché contemporaneamente non c’è il rafforzamento dell’operazione di contrasto. Accanto a queste scelte strategiche non sufficienti, la scelta delle “leggi manifesto”. La legge sulla legittima difesa, per esempio: è un invito oggettivo, nei confronti di tutti gli italiani, ad armarsi ed a seguire un modello americano che è messo in discussione persino negli Stati Uniti (perché più armi è più violenza). Oppure la legge Cirielli che inasprisce le pene, ma non punta alla accelerazione del processo: inasprire le pene ma lasciare i tempi del processo così come sono, vuol dire fare una pura demagogia.
Sul piano finanziario: la Finanziaria di quest’anno riduce di almeno il 20% i capitoli del bilancio, sia per quelli che riguardano il ministero dell’Interno, ma anche quelli che riguardano le Forze di polizia. E’ un’idea singolare pensare che si possa rafforzare l’azione delle Forze di polizia riducendo le risorse e non avviando, contemporaneamente, un processo di riforma. Sul versante del modello, io ritengo che la Riforma del 1981 conservi ancora un’alta capacità, un’alta modernità. Propone un modello assolutamente avanzato di sicurezza pubblica e ritengo che non abbia esaurito la sua capacità innovativa nel sistema di sicurezza nel nostro Paese. E’ una Riforma solida, frutto di una grande stagione di intesa politica e istituzionale e, soprattutto, di una grande mobilitazione di lavoratori senza precedenti. Oggi qui abbiamo Benvenuto, abbiamo Mammì, che sono esattamente i due simboli di una grande stagione di intesa sul piano politico, sia di maggioranza che di opposizione; forse è stata la riforma dello Stato che è stata approvata con la più alta maggioranza in Parlamento, che mai si era vista, qualcuno è arrivato a dire che la 121/81 è la prima grande riforma dello Stato e realizzata, tra l’altro, nel settore più difficile, i Corpi separati, i Corpi di Polizia.
Si è realizzata perché c’era questa sinergia, ma c’erano anche dei grandi artefici di massa, dei soggetti collettivi, che hanno resa pubblica questa cosa; sono gli operatori di Polizia da una parte, le tre Confederazioni sindacali dall’altra. Il modello che è stato messo in campo è assolutamente valido. E’ un modello che è stato in grado di rispondere alla minaccia terroristica, alla concentrazione della criminalità mafiosa e di quella diffusa. E’ fondato sulla centralità dell’autorità civile di Pubblica sicurezza, sul coordinamento delle Forze di polizia, sulla flessibilità dell’organizzazione, sul decentramento e la formazione permanente. E’ un modello assolutamente valido che andrebbe rafforzato su qualche elemento, come per esempio il coordinamento e la formazione. Non è un modello che oggi merita di essere messo da parte. Dico questo perché oggi è un rischio che stiamo correndo. Lo dico pensando a due versanti. Il versante più interno al mondo della sicurezza ed è l’ipotesi, che ogni tanto viene avanzata, della costituzione del Segretariato generale; a noi non sembra un’ipotesi valida, ma sicuramente non propone un modello più avanzato rispetto a quello della 121. La casa comune soprattutto delle due componenti: quella di Polizia e quella prefettizia, quella sinergia che in questi anni è riuscita a creare conoscenze, competenze che sono veramente la formula magica per i risultati che si sono ottenuti. Noi pensiamo che questo avrebbe cancellato forse uno dei successi maggiori che è stato conseguito, cioè il superamento della separatezza dei Corpi di polizia dalla società civile. E poi prefigurerebbe forse anche un rischio, perché il Segretariato avrebbe un senso se i Carabinieri facessero parte del ministero dell’Interno; altrimenti da un punto di vista amministrativo e istituzionale non ha alcun senso. Se uno dei Corpi a competenza generale sta in un altro Ministero, il Segretariato generale non ha senso. D’altro canto, se i Carabinieri dovessero entrare nel ministero dell’Interno si creerebbe un Ministero con una concentrazione di Forze di polizia tale da fare invidia allo stesso Presidente del Consiglio, dal punto di vista del potere che può esercitare. E’ uno strumento non valido ed estremamente pericoloso. Quindi, anziché rincorrere un modello di questo tipo, è il caso di rafforzare il modello della 121 adattandolo alla situazione che abbiamo di fronte.
L’altro rischio è la devolution che frantuma le Forze di polizia nel nostro Paese invece di rafforzarle; crea altre venti Polizie in un Paese in cui l’esigenza di avere altre Polizie non si avverte; complica il coordinamento; fa spendere un sacco di soldi; quella regionale non è più una dimensione in cui si possono affrontare le questioni della sicurezza che ormai sono globalizzate: in un Paese che non ha sciolto il nodo dei nessi tra politica, affari, criminalità ecc. Io sono calabrese: a me una Polizia calabrese, sinceramente, inquieterebbe. Se parliamo di Polizia vera ovviamente in una situazione politica, culturale e criminale come quella del Mezzogiorno del nostro Paese. Per cui anziché rincorrere questi modelli, forse si dovrebbe fare qualche altra cosa, un progetto alternativo come ad esempio il controllo come conoscenza e non occupazione militare; modernizzazione delle Forze di polizia. Cultura della legalita? Che vuol dire dal punto di vista dei poliziotti? Certo scuola, certo etica della responsabilità individuale; dal nostro punto di vista vuol dire questo. Vince la cultura della legalità se il cittadino italiano ha la sensazione che l’illegalità non paga. E quando l’illegalità non paga? Non paga quando la persona che vive di illegalità ha un’alta percentuale di possibilità che finisca nel circuito giudiziario e in quello di Polizia, allora l’illegalità non paga; ma per fare questo bisogna rafforzare il circuito giudiziario e quello di Polizia e non indebolirli.


Ennio Di Francesco (già funzionario della Polizia di Stato)
Non so come presentarmi, se come uno dei fondatori del Movimento democratico dei poliziotti - di cui vedo qui altri “carbonari” della prima ora come Giordani, Mammì e Benvenuto - o come uno che è stato già funzionario di Polizia; dico già perché alcune vicende mi hanno portato a pagare tutte quelle colpe di pensiero fatte in precedenza, se per pensiero si intende la battaglia per una Polizia al servizio vero dei cittadini.
A distanza di 24 anni i punti fondamentali della legge 121/81 conservano tutta la loro straordinarietà; sono quindi d’accordo con Giardullo, giovane “carbonaro” di quei tempi. La straordinarietà rispetto a che cosa? Di un Movimento nato dalla base dei poliziotti. Un Movimento che era nato negli anni di via Veglia a Torino - prima del ’70 - che era nato dai ragazzi delle Volanti di piazza Venezia a Roma perseguitati e denunciati dai loro stessi colleghi; un Movimento che aveva trovato il suo massimo momento di espressione quando, nel ’69, il cranio del poliziotto Annarumma giaceva sull’asfalto, dopo uno scontro di ordine pubblico e, accanto, c’erano un magistrato e un sacerdote che pregavano (magistrato mio amico, Emilio Alessandrini, poi ucciso dalle Brigate Rosse). Questo è il Movimento straordinario attorno a cui, anche gli stessi parlamentari e politici, riuscirono ad aggregarsi. Questo è quello che è stato il ponderoso lavoro che ha portato alla Riforma di Polizia; che ha messo accanto parlamentari di tutte le forze politiche.
Quali erano i principi? Erano dei principi fondamentali. Riscatto della dignità dei poliziotti. I giovani poliziotti che oggi leggono Diabolik o roba varia si dimenticano che l’età di matrimonio allora era 28 anni; che c’erano le famiglie clandestine di poliziotti e carabinieri che nascondevano i loro figli. Mio papà, maresciallo dei Carabinieri morto per cause di servizio, nascondeva il suo infarto perché, se riformato, sarebbe stato mandato in pensione senza l’indennità pensionabile, a fare la fame con 4 figli. Ecco perché giovane, commissario a 27 anni e capo della Sezione omicidi, come ero allora a Genova, scesi accanto ai miei poliziotti. Io sono l’unico che ha fondato un movimento e non ha fatto carriera. Ma non importa. Questi sono i valori veri che restano.
Ma questa Riforma non sarebbe valsa a niente, perché al di là delle gestioni, questo patrimonio di sensibilità, di rispetto per gli altri, è passato attraverso i nostri poliziotti, al di là delle varie gestioni di Polizia. Se i valori fondanti della legge 121/81, di cui oggi tutti si dicono padri ma che tutti violentano, sono validi, che domande dobbiamo porci? Sono stati quei valori veramente attuati? Se debbono essere cambiati, come devono eventualmente essere aggiornati? Quali risposte dare alla “globalizzazione”, che accanto alle impensabili opportunità di progresso introduce anche elementi di corrosione e di pericolo alla sicurezza, o alla “percezione della sicurezza” come dice Giardullo. Perché non sfugge a nessuno che sta realizzandosi anche una sorta di narcosi della sicurezza: voi accendete la televisione, ci sono solo notizie positive, ma accanto alle notizie positive c’è una buona parte di notizie negative, di crimini che non si scoprono. Ecco la dissonanza tra i reati che aumentano e l’illusione che si dà della sicurezza. C’è, perché i nostri poliziotti continuano a fare il loro dovere, anche a prezzo della vita, come i tre ragazzi morti sui cieli di Pescara, mentre pattugliavano; ma ce n’è un’altro che è morto ultimamente ad Albasanta, con un elicottero caduto; vi sono i due ragazzi di pattuglia a Verona che sono stati massacrati, c’è Emanuele Petri e ci sono gli altri. Allora non giochiamo sul sentimento della sicurezza, ma stiamo vicini veramente ai nostri ragazzi. Si diceva che è stato diminuito lo stanziamento per la Polizia. Nello scenario nazionale e internazionale che avanza, continueremo a diminuire le risorse? E che logica c’è tra il diminuire queste risorse e chiamare a reclutamento nuovi poliziotti? Perché se non sbaglio c’è una deroga per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego, solo per Polizia e Carabinieri. Quindi con questo scenario ci stiamo preparando a un contrasto sulla pervasività del crimine tecnologico, del traffico di esseri umani, del terrorismo, sia quello ideologico che materiale. Avete visto su Internet il Papa vestito in una certa maniera? Questo è il terrorismo ideologico. Siamo in grado di poter contrastare queste cose con la riduzione dei mezzi? Con la nostra Polizia informatica che fa concorrenza da una parte ai Carabinieri e dall’altra alla Finanza? Come ci si sta preparando in questo quadro evolutivo delle modifiche istituzionali? E’ stata ricordata la devolution. Io pure sono calabrese, ma ne sono fiero, anche Scopelliti era calabrese, tanti altri che rischiano la pelle. Non è tanto questione di localizzazione, ma è di quella cultura e di dare i mezzi di sicurezza. Nonostante la Riforma, che prevedeva il ritorno allo status civile della Polizia, oggi assistiamo alla rimilitarizzazione strisciante.
Il coordinamento come è stato realizzato? Viene visto oggi semplicemente come rotazione di posti di comando tra le Forze di polizia in una occupazione di spazi: non sarebbe meglio pensare ad un’altra forma che però sia reale? Penso al coordinamento reale anche negli altri Corpi di Polizia; ad esempio nel contrasto della criminalità ecologica, o della criminalità nel campo del traffico di armi. Non possono esistere compartimenti che fanno coordinamento solo se si trovano in una determinata maniera e per altri aspetti vanno per i fatti propri. Si continua a gestire in un sistema di gelosie. Ad esempio, chi potrà spiegare all’opinione pubblica che mentre si grida da una parte al problema delle pensioni, al sistema pensionistico che sta scoppiando, mentre si aumenta l’età pensionabile dei funzionari civili (ai magistrati si è arrivati fino a 75 anni) si è poi deciso di mandare in pensione centinaia di funzionari di Polizia, per equiparare l’età dei funzionari di Polizia all’età di pensione degli ufficiali dell’Esercito?

Carlo Mosca (Prefetto capo gabinetto Ministero dell’Interno)
Mi sembra che questo Ordinamento per una nuova Amministrazione della pubblica sicurezza, anche a distanza di un quarto di secolo, è ancora oggi valido ed è veramente significativo che ci sia un’occasione per riflettere su questo punto. Continua ad essere fonte originale di scoperte, di peculiarità giuridiche con riguardo ad una architettura istituzionale.
Questa attualità è quotidianamente avvalorata dallo sforzo costante di molti, di penetrarne i contenuti, di studiarne sempre meglio la filosofia d’insieme, di interpretarne i vari istituti, di accettarne le asprezze ed anche le difficoltà della sua attuazione. Soprattutto per quanto attiene i complessi aspetti dell’ordine e della sicurezza pubblica.
L’esperienza di questi oltre venticinque anni ha dimostrato in particolare che il Capo primo della legge 121/81, quello che proietta nel futuro l’architettura istituzionale dell’Amministrazione della pubblica sicurezza e descrive i pilastri del coordinamento delle Forze di polizia, assume oggi uno spessore che nel campo concreto, nel campo dell’approfondimento scientifico ha prodotto dei significativi risultati.
Il tema del coordinamento, ad esempio, inizialmente è stato guardato con sospetto, con scetticismo per il pregiudizio derivante in genere da una formazione giuridica prevalentemente basata sullo schema gerarchico. Eppure proprio questo concetto negli anni ha finito per monopolizzare l’interesse degli studiosi, l’interesse degli operatori i quali sono stati mossi dall’intento di scrutarne le potenzialità e anche i fattori di rischio, ma pure quelli di successo.
Una rinnovata cultura della sicurezza è uno dei meriti della legge 121, che è stata concepita come un modello di sicurezza che non era più di esclusiva pertinenza dell’una o dell’altra componente delle Forze di polizia. Nemmeno limitata a queste Forze; la legge 121 ha avuto il merito di porre il tema della condivisione e della partecipazione anche di altri soggetti pubblici, di altri soggetti privati, nel rispetto delle autonome attribuzioni. Questo oggi forse riesce anche abbastanza agevole configurarlo nel momento in cui si parla di una sicurezza globalizzata. Ma ai tempi della Riforma non era facile ipotizzare questo. Siamo, ripeto, al 1980, il Capo riguardante il coordinamento è addirittura del dicembre del 1969, all’indomani dell’assassinio dell’agente Antonio Annarumma a Milano. Queste intuizioni della legge 121, progressivamente si sono potute potenziare e se ne è potuta accertare la grande capacità di espansione di fronte ad una società complessa.
Penso che oggi si possa dire veramente che quella visione di 25 anni fa fu veramente lungimirante. Sono convinto che ancora oggi non ha disvelato pienamente la sua potenzialità fruttifera; è un impianto ordinamentale organizzativo, ecco perché l’ho definito una filosofia nuova del sistema della sicurezza pubblica, un impianto che anche oggi, pur a volerlo criticare costruttivamente, pur a voler riflettere su di esso, rivela ancora una potenzialità che può essere utile per l’avvenire.
La filosofia della legge 121 rielabora tutti i principi essenziali del sistema di sicurezza e del sistema dell’Amministrazione che è preposta a questa sicurezza, andando a tagliare, a porsi in rottura con una serie di assiomi ed affermazioni che sino a quel momento erano incontestabili e marcando così la differenza rispetto a tutte quante le altre opzioni che vi erano state fino ad allora. E’ una Riforma vera, di alto valore democratico e al tempo stesso questa filosofia della legge 121 è una filosofia di rinnovamento nella continuità, perché ridisegna e rafforza funzioni e ruolo delle Autorità di Pubblica sicurezza aggregando attorno a queste autorità dell’Amministrazione civile per le funzioni di supporto. E ancora filosofia di rinnovamento nella continuità, perché si propone di presidiare questo elemento essenziale sotto il profilo istituzionale, perché appronta un apparato giuridico che è in grado di sostenere le ragioni di una società e di un ordinamento che è sempre più operante a livello orizzontale, che è sempre più orientato e avviluppato intorno all’idea delle autonomie territoriali, delle autonomie funzionali.
Ecco perché è una ricchezza la legge 121, ecco perché ancora oggi è forte il desiderio di evitare la frantumazione. La legge 121 riesce proprio a trovare un sistema, un modello che accorpa le Forze di polizia, che mette assieme tutta una serie di ragioni comuni a vantaggio della comunità. E ancora è una filosofia di rinnovamento nella continuità perché rende più coeso l’ambito delle Forze di polizia, dello Stato, le elenca in un solo contesto, dà una dignità specifica alla pari delle Forze armate, le distingue rispetto alle Forze dell’ordine, rispetto alla forza pubblica.
Ne riconosce la vicenda storica, la vicenda ordinamentale che è alla base della loro autonomia. Si preoccupa di salvaguardare le autonomie, ma al tempo stesso dà una visione del bene della sicurezza sull’intero territorio nazionale. Evita le separatezze, evita le distonie. E’ una filosofia al tempo stesso di rottura e di continuità, perché da una parte interpreta l’ esigenza di rinnovamento di una società che già allora era una società ricca di effervescenze, ricca di problemi e dall’altra parte legittima anche le tradizioni e gli ordinamenti che erano gli ordinamenti degli Stati di diritto. E’ poi una filosofia genuinamente riformistica perché nasce in un momento anche di crisi, contraddistinto da profondi contrasti, da pericolose fratture sociali.
La legge 121 ha consentito di poter finalmente dire e nel tempo sempre più ad alta voce, che il ministero dell’Interno non era e non è un ministero di Polizia, ma è un ministero di garanzia, lo deve essere anche in avvenire ed è un ministero di garanzia di libertà civili e sociali.
Ecco perché ancora oggi mi piace ricordare il valore della legge 121, ed ecco perché il valore della sicurezza va a ricollegarsi con il tema della libertà, che è il titolo di questo Convegno, Sicurezza e Libertà. La sicurezza non può essere il fine, la sicurezza è lo strumento per garantire la libertà e va sempre visto in questa ottica. Oggi si parla tanto di sicurezza, se ne parla tanto e si percepisce questa esigenza dei cittadini di poter affermare il diritto alla sicurezza, ma questo si deve sposare con il diritto alla libertà. Una sicurezza che deve essere strumentale rispetto all’esercizio dei diritti di libertà. Allora è facile oggi andare a criticare le politiche di sicurezza se limitano la libertà, se sono controproducenti e illiberali ed è altrettanto agevole affermare che alla paura non può accompagnarsi la limitazione della libertà. Condivido perfettamente quello che ha detto Pier Vittorio Buffa. Ma la legge 121 ci ha preparato anche a saper distinguere tra una sicurezza positiva e una sicurezza negativa.

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