Gli attentati del 7 luglio sembrano annunciare
la fine di una sorta di “immunità” decretata dagli estremisti
islamici nei confronti delle città britanniche.
Ma restano alcuni interrogativi
su chi muove le leve del terrorismo, e persino
sul comportamento dei kamikaze
E’ il 7 luglio 2005 e a Londra sono le 8.51. Una prima esplosione dilania i tunnel della metropolitana, nel tragitto che va dalle stazioni di Aldgate East, Morgate e Liverpool Street. Si parla subito di almeno 4 morti. Alle 8.56, una seconda deflagrazione sulla Piccadilly Line, tra le stazioni di King's Cross e Russell Square. Questo, che ancora nessuno osa definire “attacco”, provoca altre 21 vittime, dichiarate dopo poche ore. Sono le 9.17, quando si verifica il terzo scoppio all’interno della stazione di Edgware Road. L’ordigno, collocato su un treno detona con tale violenza da procurare un buco nel treno che lo affianca. In questo caso le prime stime parlano di 5 morti. Ma non è finita. Alle 9.47 il terrore lascia i bassifondi del Tube, e fuoriesce in strada: un’esplosione apre letteralmente il bus a due piani della linea 30 come una scatola di sardine. Accade a Tavistock Place, nei pressi di Russell Square. Tra le lamiere, nonostante la luce del giorno, la prima stima dei deceduti appare veramente problematica.
Solo alle 10.21 Scotland Yard inizia a diffondere le notizie di esplosioni multiple nel centro di Londra. Alle 10.53 il ministro degli Interni britannico, Charles Clarke, di fronte a Downing Street, dichiara che “terribili incidenti hanno causato gravi feriti”. Alle 11.21 una fonte della Polizia britannica dà la notizia del ritrovamento di una bomba nella metropolitana. Dopo 4 minuti si comincia a rendere pubblico il numero delle vittime. Alle 11.26 è il presidente del Parlamento europeo, Joseph Borrel, a parlare, condannandoli, di attacchi terroristici in serie; Borrel conferma la presenza di morti. Alle 11.30, in tutta Londra, appaiono cartelli stradali che vengono piazzati nelle maggiori strade della città. Su di essi si riporta la scritta: “Evitate Londra. Aree chiuse. Accendete la radio”. Con un messaggio dal G8, a cui sta partecipando con gli altri capi di governo, alle 12.05 Tony Blair annuncia il suo imminente ritorno a Londra per alcune ore. Alle 12.55 il ministro degli Interni parla di fronte alla House of Common. “Non sappiamo ancora chi sia – afferma – il responsabile di questi terribili attacchi criminali”. La metropolitana di Londra viene chiusa per l’intera giornata. Blair, alle 13.03, parla di “una serie di attacchi terroristici”.
Solo alle 15.25, la Polizia conferma che 33 persone sono state uccise nelle esplosioni avvenute a Londra. Alle 17.04, in conferenza stampa, Scotland Yard comunica che non ci sono più persone intrappolate nei treni della metropolitana e che “la Polizia non ha ricevuto nessun avvertimento o informazione di intelligence sugli attacchi. Nessuno ha rivendicato la responsabilità”. Il London Ambulance Service dichiara che i feriti gravi sono 45, gli altri 300. Alle 17.31 è allarme per il trasporto aereo. Misure di sicurezza scattano all’aeroporto di Heathrow, dove si posizionano ulteriori pattuglie delle Forze di sicurezza, affiancandosi a quelle già presenti per il vertice del G8 in Scozia.
E’ ancora il 7 luglio 2005; Un maledetto 7 luglio per la città di Londra, per il Regno Unito, per l’intera Europa. Sul Tamigi sta scendendo la sera, ma ancora da parte delle autorità inglesi c’è una grande resistenza a parlare apertamente di attacco terroristico.
Ci vorranno almeno 48 ore. 48 ore affinché la Forze dell’ordine di Sua Maestà ipotizzino ufficialmente quello che è apparso evidente a pochi minuti dall’attacco: un sistema di detonatori, forse con timer e azionati con telecomando, hanno fatto esplodere ad intervalli di una manciata di minuti tre bombe che hanno distrutto, e/o danneggiato, alcune gallerie della storica metropolitana di Londra. Scotland Yard, alla fine, lo ammette, evidenziando a riguardo uno strano handicap nella strategia della comunicazione: l’evento, chiaramente, si rivela quasi la fotocopia dell’attentato di Madrid, avvenuto nel marzo 2004. Nonostante tutto le versioni continuano a traballare.
Ad esempio quella di Brian Paddick, vice assistente commissario della Polizia metropolitana (numero 4 di Scotland Yard), il quale afferma che il primo ordigno esplode alle 8.50 locali, nella stazione di Aldgate, seguito dal secondo e dal terzo, nelle stazioni di Edgware Road e di King's Cross, nei successivi 50 secondi. A ciò va aggiunta anche la bomba che, 57 minuti dopo (ore 9.47 locali), a Tavistock Square, squarcia letteralmente il bus a due piani numero 30, partito da Hackney e diretto a Marble Arch.
Ecco i primi quesiti. Perché tanto ritardo nell’ammissione di ciò che è apparsa l’ipotesi più verosimile di quanto accaduto? Perché quasi nessuna immagine, se non qualche parziale istantanea del mezzo pubblico sventrato in superficie e uno stretto scorcio di un tunnel della sotterranea, divulgata dai mezzi di comunicazione? Perché questa spropositata sottovalutazione del reale numero di morti, circa 60 ufficialmente, a fronte di oltre 700 feriti dichiarati? Un tentativo di facciata per tenere un low profile sugli effetti dell’attacco? Se così fosse, però, un errore palese.
Non a caso, giorno dopo giorno, sale vertiginosamente il numero dei cosiddetti ‘dispersi’. E, senza dubbio, se il numero delle vittime reali raggiungesse quota 100 si accrescerebbero del 100% gli effetti dell’attentato sino ad ora ufficializzati. E’ vero, le autorità britanniche sostengono il divieto di divulgazione delle immagini per evitare di produrre un’ulteriore cassa di risonanza alla strategia dei terroristi. Bene: ma quando si intraprende una strada come questa, le poche notizie fornite devono essere verosimili perché, in caso contrario, dalla sordina sull’azione si passa in breve alla dimostrazione della più completa incompetenza riguardo ad essa.
Un esempio? A pochi minuti dalle esplosioni, mentre ancora si continuava a sostenere che nella metropolitana erano avvenuti incidenti dovuti alla rete elettrica – notizia che tra l’altro sortiva l’immediata smentita del gestore – i primi testimoni intervistati parlavano già di passeggeri che emergevano dalle uscite praticamente seminudi: non un party di naturisti, ma uno degli effetti – appunto – di chi è coinvolto, da vicino, nello scoppio di un ordigno.
Quale può essere stato lo scenario più verosimile a poche ore dalla strage? Ad esempio questo. Gli attacchi sono stati realizzati con ordigni “ad alto potenziale”, nulla di artigianale anche se, probabilmente, microcariche. Ciò non significa assolutamente, però, che il loro effetti non possano essere stati devastanti: si pensi solo al fattore compressivo, causa le strettissime vie di fuga, di un tunnel del metrò.
Non a caso Scotland Yard incontra grandi difficoltà nel recupero dei corpi intrappolati nel tratto di galleria tra King's Cross e Russell Square: l’alta temperatura, la polvere, la mancanza di energia elettrica e, dunque, l’oscurità, impediscono il lavoro. Tra i cadaveri rinvenuti nella trappola delle lamiere, l’identificazione risulta subito problematica, causa gli effetti devastanti delle esplosioni e, col passare delle ore, il macabro effetto del banchetto imbandito con il sopraggiungere della ‘città di sotto’: quella dei topi. “Molte delle vittime – afferma il soprintendente di Polizia Jim Dickie – sono state ridotte a brandelli e i corpi non sono facilmente identificabili”. Dunque, per effettuare un primo elenco, si approntano gli strumenti per impronte digitali, dentarie e test del dna.
In merito agli esecutori degli attentati, e nella migliore accezione della fraseologia giornalistica, non è infondato dire che all’inizio la Polizia ha brancolato nel buio. Nessun individuo, infatti, sarebbe subito rientrato nel target delle indagini. Si è parlato del marocchino Mohammed el Garbuzi, già coinvolto negli attentati di Madrid e Casablanca. Anche in questo caso, però, è apparsa più prossima alla realtà una lettura endemica, proviene dall’interno dell’Uk.
Ebbene, secondo il neoconservatore, storico e politologo, Daniel Pipes, con gli attentati londinesi si sarebbe disintegrato il covenant of security, ovvero quel patto sulla sicurezza che, agli occhi dei salafiti, proteggeva il Regno Unito almeno fino a quando il governo avesse permesso ai musulmani di vivere in pace sul territorio. Pipes ricorda che un esito simile era prevedibile ed era stato preannunciato “dagli islamisti britannici ormai da mesi”. Lo studioso cita l’organizzazione di Omar Bakri Mohammed, Al Muhajiroun (gli emigranti). Essa ha sostenuto da anni che il territorio britannico era immune dalla violenza di Al Qaida, grazie al suo comportamento accettabile.
A riprova Pipes cita un articolo del New Statesman, dell'agosto 2004, dal titolo “Perché‚ i terroristi amano la Gran Bretagna”. In esso, Mohamed Sifaoui (autore di Inside Al Qaeda), rivelava l’esistenza di una sorta di accordo fra estremisti islamici britannici, governo, intelligence, secondo cui se le autorità londinesi avessero concesso un margine di libertà a personaggi come Hassan Butt (o lo stesso Bakri), gli attentati terroristici non avrebbero colpito il Paese, anche se organizzati “all’interno dei suoi confini”.
Le conclusioni? “La presenza di simpatizzanti attivi e rumorosi del terrorismo islamista nel Regno Unito – scriveva l’autrice, Jamie Campbell – protegge di fatto la sua popolazione, mentre il frutto dei piani terroristici concepiti in Gran Bretagna va a colpire la gente di altri Paesi”. Ma c’è di più. Dopo il gennaio 2005, per Bakri, il covenant of security sarebbe finito, per via della durezza delle leggi antiterrorismo britanniche, inasprite di più dopo l’11 settembre. Per Bakri, dunque, l’Uk è divenuto “Dar ul-Harb”, un campo di battaglia aperto alla conquista dei musulmani, gli inglesi “infedeli”, le loro proprietà, la loro stessa vita, non più “sacra”.
Pipes – è vero – evidenzia tutto questo nell’auspicio di un sostanziale giro di vite interno al proprio Paese. Quello che qui interessa, della sua lettura, è invece l’adagio di cui si parla raramente: chi muove le leve del terrorismo cosiddetto islamico, e ne tiene la cassa, è molto più vicino, continguo, interno all’Occidente di quanto non si creda.
Alla fine, straordinariamente, sarà la telefonata di una madre angosciata a mettere Scotland Yard sulla pista giusta per individuare gli attentatori. Maniza Hussain, in ansia ormai da ore, dalla sua casa in un sobborgo di Leeds, telefona a Scotland Yard per cercare notizie di suo figlio Hasib Hussain, un ragazzo di 19 anni, che non risponde al cellulare dal momento dello scoppio delle bombe. La donna, di origine pachistana, fornisce i dati del giovane, partito la sera prima per la capitale britannica, dove dice di andare in visita da amici.
La risposta sulla fine di Hasib arriva quando un nugolo di poliziotti, in assetto da guerra, bussa alla porta della famiglia Hussain, al numero 7 di Colonso Mount, nel quartiere di Holbeck. Per Maniza e suo marito, Mahmoud, un operaio, la rivelazione è sconvolgente. Hasib è il kamikaze che si è fatto saltare in aria sull’autobus numero 30 di Tavistock Square. Gli agenti hanno trovato sull’autobus i resti di un cadavere, vestito con gli abiti corrispondenti a quelli descritti dalla madre di Hasib. Il corpo è decapitato, come quello, tipico, dei kamikaze che si fanno saltare in aria con la bomba. A conferma, Scotland Yard ha raccolto testimonianze di altri viaggiatori, che hanno descritto un giovane nervoso che armeggiava con uno zainetto poco prima dell’esplosione.
Intanto, nei copiosi filmati delle telecamere dei treni e della metropolitana, nella mattina del 7 luglio, a lungo visionati dagli investigatori, il volto di Hasib riemerge tra la folla di una vettura della Thameslink, tra Bedfordshire Town, a nord di Londra, e King's Cross. Gli agenti scoprono che Hasib sta viaggiando con altri tre giovani, tutti apparentemente di origine asiatica, ben vestiti e con zaini sulle spalle. Le immagini mostrano le loro teste ravvicinate mentre parlottano. Sono le 8.30 del mattino.
Giunti a King's Cross Hasib e i suoi amici si separano, senza particolari saluti. La Polizia riesce ben presto ad identificare gli altri visi. Si tratta di Shehzad Tanweer, 22 anni, di Beeston, laureato in scienze sportive, figlio del proprietario di un negozio di fish and chips; di Mohammed Sadique Khan, 30 anni, sposato e padre di un bimbo di otto mesi, e di Jacksey Fiaz, 30 anni, anche lui sposato. Tutti amici e abitanti nell’area metropolitana di Leeds.
I quattro vengono definiti i primi kamikaze ad agire sul suolo europeo. Stranamente, nessuno dei loro parenti chiama Scotland Yard.
Identità, nomi, provenienze, uomini-bomba. La vicenda, per quanto sin troppo svelata da questo momento in poi, non è per nulla chiara. Si parla per giorni di kamikaze, di nazionalità inglese, ma figli di famiglie pachistane. Si parla di almeno altri 200 attentatori pronti a colpire nello stesso modo. Possibile. Ma perché quatrro kamikaze avrebbero intrapreso il viaggio verso la morte acquistando quattro biglietti di ritorno?
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