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Luglio-Agosto/2005 - Editoriale
Etidoriale
Otto anni
di Paolo Andruccioli

Questo è l’ultimo editoriale che scrivo per Polizia e Democrazia. Da quando Maria Angela Fedeli mi chiese di prendere la direzione sono passati otto anni. Il 1997 sembra molto lontano, ma in fondo è l’altro ieri. Moltissime cose sono cambiate e non è semplice il bilancio del lavoro che ho svolto insieme alle persone che avevano vissuto gli anni d’oro della direzione di Franco Fedeli e della Riforma di Polizia. Quando mi è stato chiesto di assumere la responsabilità della rivista, che proprio quest’anno festeggia il suo decennale, ho reagito con una certa preoccupazione, ma anche con una convinzione ben chiara: le esperienze umane non si possono clonare. Non era possibile imitare Franco Fedeli, né ripetere i suoi passi. L’unica cosa ragionevole e intellettualmente onesta sarebbe stata quella di mettere alla prova dei cambiamenti le idee che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta avevano determinato la trasformazione dell’istituzione Polizia. Da corpo separato, militare, la Pubblica Sicurezza era tornata ad essere una polizia civile. Una polizia dei cittadini e – come si sarebbe detto poi – “una polizia vicino ai cittadini”.
Avevo collaborato con Franco Fedeli durante i primi anni del sindacato unitario, il Siulp, organizzazione maggioritaria e altamente rappresentativa delle varie professionalità. Un sindacato unitario in tutti i sensi ed espressione della migliore cultura dei sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil. Era stata una conquista importante il Siulp, proprio perché prendeva ispirazione da quel movimento dei lavoratori che aveva capito – anche per merito di Fedeli – che sarebbe stato necessario superare la storica contrapposizione tra operai e lavoratori di polizia. Il Siulp era nato nelle piazze, durante gli scontri tra poliziotti e manifestanti, in quella tragica contrapposizione - a muso a muso - tra l’operaio licenziato e il poliziotto figlio di operai o di contadini costretto a manganellarlo o peggio a sparare. La Riforma non si esauriva ovviamente in un fatto sindacale. Non si trattava, mi pare, di introdurre un altro elemento corporativo nello scacchiere delle relazioni sindacali. Si trattava piuttosto di dare dignità ai poliziotti (non più sbirri, ma tutori della legge) per il rispetto dei loro diritti fondamentali, ma anche per la loro speciale collocazione nella società, in quel rapporto delicatissimo tra lavoro e applicazione quotidiana della legge e dei principi originari della Costituzione. I poliziotti svolgevano e svolgono un compito di alto valore civile e democratico. Sono gli operatori della sicurezza, diritto fondamentale delle democrazie moderne.
Ma subito mi sono trovato in una giostra vorticosa. Dalle trame oscure degli anni di piombo, l’Italia si stava preparando alla nuova globalizzazione del terrore. Dalle lotte unitarie e vincenti degli anni Settanta, tutto il movimento sindacale confederale aveva cominciato a vivere la sua crisi, con le scissioni, le divisioni, la nascita del sindacalismo extraconfederale dei Cobas e delle rappresentanze di base. Un fenomeno che dovrà ancora essere analizzato e che forse è alla base delle attuali difficoltà nella definizione della rappresentanza. In ogni caso il processo non poteva lasciare immune il Siulp. Così uno dei fatti che hanno messo alla prova i principi per i quali aveva lottato Fedeli è stata la spaccatura. La Cgil decise di uscire dal Siulp per creare il Silp. Dopo quel divorzio è sicuramente aumentata anche la frantumazione interna nel mondo della rappresentanza dei lavoratori di polizia e i sindacati e sindacatini hanno continuato a proliferare. Non voglio esprimere giudizi. Ricordo solo dei fatti, che forse ci possono aiutare a capire meglio anche il presente.
La prima copertina della rivista che ho firmato, otto anni fa, aveva due carabinieri di spalle che stavano salendo su una grande scalinata. Lo “strillo”era: “Carabinieri, un esercito nell’esercito”. Si cominciava a parlare di Quarta Forza Armata, un processo che poi si è dispiegato nella sua pienezza. Verrà il tempo di riflettere anche su quelle scelte politiche. Per ora si possono solo registrare le discussioni in corso sul rischio “imitazione”. In molti temono cioè che anche la Polizia possa essere ritentata dal fascino delle stellette, in momento in cui, tra le altre cose, non esiste più neppure un Esercito di leva.
In questi anni è cambiata profondamente anche la percezione del diritto alla Sicurezza. Oggi riconosciamo che si tratta di una questione vitale per ogni tipo di società democratica e quell’apparente ossimoro inventato da Fedeli, Polizia e Democrazia, è ancora più attuale degli anni novanta, ma sicuramente alle orecchie di molti comincia a suonare stonato. Con la minaccia del terrorismo internazionale la nuova sfida riguarda il rapporto tra Sicurezza e Libertà, come abbiamo cercato di spiegare in un recente convegno a Roma di cui parliamo proprio in questo numero.
Il lavoro da fare è quindi ancora molto e io auguro alla redazione di poterlo svolgere con tutta la serenità e la forza che servono. Per quanto mi riguarda vorrei sfruttare questo spazio pubblico per ringraziare tutte le persone (e vi assicuro che sono state tante) che in questi anni mi hanno incoraggiato e aiutato con idee, proposte, magari anche con l’affetto. Ringrazio i poliziotti, i funzionari, i dirigenti, gli studiosi, i magistrati che hanno collaborato con la rivista e che sono stati sempre disponibili a darci un sostegno. Ringrazio anche coloro che dall’interno dell’amministrazione e delle istituzioni hanno seguito il nostro lavoro e che spesso hanno voluto mettere a disposizione la grande elaborazione teorica e politica che era stata la linfa della riforma. E infine - e soprattutto - ringrazio la redazione di Polizia e Democrazia e i miei collaboratori , che hanno saputo trasmettermi con pazienza la memoria storica e che mi hanno certamente aiutato a ridurre il tasso di errori nelle scelte editoriali quotidiane.

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